In questo bellissimo studio pubblicato su Le parole e le cose, Italo Testa spiega il senso di quella giustizia senza nome, dell’utopia che aspira alla perfezione, cioè alla felicità e alla piena individuazione che, seguendo Thomas Rymer, chiama poetic justice.
E’ un ideale consapevolemente individualista, quello di Testa, storicamente più vicino a quello di Robespierre («i popoli non emettono sentenze, scagliano la folgore») che a quello di Marx, cioè allo slancio morale del dover essere più che alla prometeica lotta per la costruzione della realtà («un’epoca sorgerà carica di sole» Walter Benjamin).
La vita immaginata
Nella sua Teoria del Romanzo György Lukács ha scritto una volta dei «fini utopistici di tutte le filosofie»[1]. La questione dell’utopia eccede così i limiti, il corsetto spagnolo della politica, abbracciando l’intera impresa del pensiero. Ed è forse nella metafisica, più che altrove, che si installa l’elemento utopico. Non è del tutto casuale che l’utopia politica, che altro non è che una manifestazione particolare dello spirito utopico, abbia trovato la sua formulazione originaria nel centro dell’impresa platonica che per prima ha indagato la possibilità di un sapere metafisico. La topologia metafisica è così illuminata dalla fonte utopica. E il fine utopistico della metafisica potrebbe essere afferrato se fossimo in grado di cogliere il ruolo giocato dall’immaginazione al suo interno.
Le utopie politiche dovrebbero allora essere ripercorse in stretto contatto con la storia della metafisica e delle sue metamorfosi: e la vicenda per cui quest’ultima sopravvive alla sua fine, al collasso annunciato più volte dopo la crisi dei sistemi idealistici, della metafisica regale – questo monstruum d’invenzione barocca, con le sue pretese di compiutezza, ultimatività e trasparenza –, getta una luce intensa anche sulla storia dell’utopia politica e delle sue deflagrazioni. L’immagine regale dell’utopia politica, con il suo slancio totalitario, come progetto onnicomprensivo di ingegneria sociale, è andata pure in frantumi, anche se ha potuto resistere più a lungo della metafisica regale, riuscendo ad annidarsi nelle pieghe dell’immaginario sociale e a permeare di sé la realtà. Wallace Stevens poteva così affermare nel 1949 che
la diffusione del comunismo mostra oggi come l’immaginazione sia all’opera su vasta scala perché, sia o non sia esso un termine di paragone per l’umanità, le parole stesse ci dicono che attualmente il comunismo è la misura della capacità immaginativa di una vasta parte dell’umanità[2].
E tuttavia l’esaurimento della forma regale dell’utopia politica, intesa come immaginazione metafisica implementata, non significa che con ciò venga meno l’utopia stessa, che andrà piuttosto incontro a quelle metamorfosi o trasmutazioni che interessano pure la metafisica. Possiamo pensare al pensiero utopico-politico come ad una forma di immaginazione metafisica, e propriamente come al tentativo di rendere la vita immaginativa una forma sociale esplicita.
Certamente la nostra vita sociale è già da sempre permeata dall’immaginazione e, secondo la formulazione di Stevens, noi «viviamo nei concetti dell’immaginazione già prima che la ragione li stabilisca»[3]. L’utopia politica è però il tentativo di fare in modo che l’immaginazione come forma sociale non sia solo un meccanismo nascosto e latente: è il tentativo di fare in modo che la nostra vita di ogni giorno abbia un aspetto immaginativo ben determinato, corrispondente a un certo paradigma, che nell’utopia regale si presentava come modello abbracciante ogni aspetto particolare della vita sociale.
Watterbach e la perfezione
Come afferrare il fine utopistico della metafisica? E cosa ci rivela dello spirito utopico? E’ nella carica desiderante dell’immaginazione all’opera nella metafisica che esso si lascia cogliere: nell’idea di un perfezionamento ontologico delle cose. Il fine utopistico della metafisica sembra avere a che fare, in questo senso, con il rapporto tra felicità e perfezione, con quell’opera di perfezionamento ontologico che la fantasia avvia nel segreto del pensiero. Nel modo più esatto tale liaison è stata colta da Theodor W. Adorno:
Che cosa sia l’esperienza metafisica, chi si rifiuta di detrarla da presunti vissuti religiosi originari, se lo farà presente al più presto come Proust, in particolare grazie alla felicità che promettono i nomi di paesi come Otterbach, Watterbach, Reuenthal, Monbrunn. Si crede che se ci si reca colà, ci si troverebbe nell’appagamento, come se ci fosse. […] Soltanto al cospetto di ciò che è individuato in modo assoluto si può sperare che proprio questo, essendosi dato, si darà; […]. Ma esso è legata alla promessa di felicità […] La felicità, l’unica cosa nell’esperienza metafisica che è più di una richiesta impotente, concede l’interno degli oggetti come qualcosa che è al contempo rapito ad essi[4].
Il fine utopistico della metafisica si lega così all’idea di felicità. Ma l’idea della felicità, per come si dà in questa esperienza, non si lascia risolvere nel problema etico della vita felice e neppure nel problema politico della giustizia. A tale idea possiamo approssimarci solo se ne percepiamo il carattere di promessa e insieme di apparenza. Per questo è convocando Proust che possiamo estorcere il segreto della esperienza metafisica: è nella promesse de bonheur dell’arte che risplende il suo fine utopistico. Un fine che la mente può toccare solo con l’immaginazione e il cui contenuto è una certa vita immaginata.
Ancora, un passo decisivo: questa idea di felicità promessa si riflette nell’idea di una compiuta individuazione, si lascia vedere solo al cospetto di ciò che è individuato in modo assoluto. E’ così nella promessa dell’immaginazione estetica che il fine utopistico della metafisica ad essa celato – che essa presuppone senza poterlo realizzare –, intensificandosi in massimo grado, potrebbe lasciarsi conoscere. In quel desiderio di salvazione delle cose che innerva l’immaginazione estetica: un desiderio che le cose siano pienamente, massimamente individuate e in ciò perfette. La promessa di felicità dell’arte pare così intimamente fusa con l’esperienza del vedere le cose nella loro pienezza, nel fulgore della loro contingenza e fragilità mortale, salvate nella loro assoluta individualità.
Una giustizia senza nome
Lo spirito dell’utopia mobilita una serie di rinvii. La sua idea non si poteva comprendere restando nel recinto del pensiero politico, ma traboccava nella metafisica, rimandando al suo fine segreto. E il contenuto di quest’ultima non si lasciava determinare senza un ulteriore rinvio alla promessa estetica. L’aisthesis realizzerebbe così un’istanza conoscitiva che insieme manifesta e dà contenuto sensibile a questa idea: l’idea della giustizia poetica. Solo in quest’ultima, infine, il fuoco normativo di tutto il pensiero utopico trova alimento.
Questa tesi potrà anche sembrare arrischiata e paradossale. Eppure non meno paradossale è sempre stato ogni tentativo di ridurre lo spirito utopico, nelle sue manifestazioni sociali e politiche, a una determinata idea di giustizia nel senso ordinario del termine: ché la richiesta lì avanzata era sempre di una società che fosse più che giusta, ma insieme giusta e felice, giusta e perfetta. Una giustizia senza nome. Una giustizia oltre la giustizia. Per questo ogni tentativo di ricondurre il pensiero utopico a un qualche modello normativo di giustizia politica, sociale o economica sembra destinato a incorrere in aporie irrisolvibili. E ciò dipende dal fatto che il pensiero utopico ha pensato, senza saperlo, la società alla luce di un’altra idea della giustizia, che non è né la giustizia aritmetica né quella geometrica, né la giustizia egualitaria né quella distributiva.
L’altra idea di giustizia è quella che si lascia determinare nell’esperienza estetica, e in particolare nella poesia. E’ dalla Poetica di Aristotele che questo pensiero può essere liberato. La poesia sarebbe superiore alla storia perché ci mostrerebbe ciò che deve accadere e non solo ciò che accade di fatto[5]. L’ordine del possibile, come di ciò che dovrebbe essere, è così pensabile come un’idea di giustizia: giustizia prodotta dalla vita stessa e nella vita, attraverso il destino e l’ironia della sorte.
In epoca barocca questa idea senza nome diventerà «poetic justice», espressione coniata da Thomas Rymer in The Tragedies of the Last Age Considered (1678). Un’idea che si è potuta corrompere in una specie di teodicea teatrale, degradandosi a volte a mero meccanismo drammaturgico per cui la virtù è ricompensata e il vizio punito, che serve a far trionfare la giustizia attraverso il comportamento stesso della dramatis persona. Come scrive Shakespeare nell’Amleto,
sarà un bello spasso veder saltare in aria il bombarolo per lo scoppio del suo stesso petardo»[6].
Non è però al meccanismo, spesso inerte e schematico, che dobbiamo guardare, bensì volgerci all’idea quivi contenuta e liberarla dalla scorza dell’artificio. L’idea di una giustizia che si realizza nella misura in cui il carattere del personaggio giunge al suo compimento, si dispiega nel suo destino singolare, giunge alla determinazione perfetta della sua individualità. La giustizia senza nome che chiameremo giustizia poetica starebbe proprio in questa determinazione completa, nella individuazione assoluta in sé conchiusa, che avrebbe un giorno in se stessa la sua ricompensa e la sua sanzione.
E’ questa l’idea di una felicità possibile dell’individuazione, che pur essendo contenuta formalmente nel fine della metafisica, può trovare riempimento solo attraverso l’istanza della poesia, di un linguaggio che Paul Celan intendeva
liberato nel segno di una individuazione indubbiamente radicale ma, allo stesso tempo, anche consapevole dei limiti che la lingua gli impone, della possibilità che la lingua gli dischiude[7].
La poesia rinvia così ad un’istanza utopica di conoscenza, dischiude mediante la lingua la possibilità di conoscenza compiuta dell’individuale. Un’istanza che rimane criticamente sospesa, in quanto si ancora nell’ordine immaginario del possibile e si realizza solo in questa apertura radicale. E’ sulla soglia critica di questo limite che si disegna la forma conoscitiva che la poesia potrebbe assumere. Non delle condizioni di una conoscenza possibile è il discorso, ma di che cosa sarebbe la conoscenza, se fosse mai possibile.
L’arbitro del diverso
E’ con Walt Whitman, il poeta americano che ha legato il compito della poesia a quello della democrazia, intesa in senso perfezionistico come utopia dell’individualità, che si può compiere l’ultimo passo di questa approssimazione. Nelle sue Leaves of Grass Whitman ci ha consegnato una immagine potente che intreccia poesia e giustizia:
Di questi Stati il poeta è l’uomo equanime,
Non in lui, ma lontano da lui, le cose sono grottesche, eccentriche e non sanno rendere quanto dovrebbero, […]
Egli largisce a ogni qualità, ogni oggetto, le proporzioni che si addicono loro, né più né meno,
E’ l’arbitro del diverso, è la chiave,
E’ lo stabilizzatore della sua età, della sua terra, […]
Non discute, ma giudica (la Natura l’accetta in senso assoluto,)
Non giudica come giudicano i giudici, ma come il sole che piove attorno a un oggetto inerte […]
I suoi pensieri sono inni in lode delle cose,
Nelle dispute su Dio e l’eternità egli tace,
E vede l’eternità meno come uno spettacolo con prologo ed epilogo,
Vede l’eternità negli uomini, nelle donne, non vede uomini e donne come sogni o pulviscolo[8].
Il poeta-giudice di Whitman è colui che tramite la sua immaginazione vede le cose nella loro pienezza, nella loro compiuta individuazione. L’eternità che egli vede negli uomini non è l’innalzamento sovraterreno, ma lo splendore della loro caducità. Il giudizio del poeta è così quello del giudice equanime, di colui che sa rendere giustizia al caso particolare. Sapendo tener conto della peculiarità delle cose senza perdere di vista l’equità, egli può rendere giustizia alla loro singolarità, come il sole che piovendo attorno ad un oggetto inerte lo porta in piena luce, nel suo fulgore. Nella luce della giustizia che sta alla base della poesia, «le cose sanno rendere quel che dovrebbero»: è la poesia che, come giustizia poetica, mostra ciò che deve accadere. Per questo il poeta è per Whitman l’arbitro del diverso: perché tramite la sua immaginazione «largisce a ogni qualità, ogni oggetto, le proporzioni che si addicono loro, né più né meno»: egli può vedere le cose nella loro pienezza, nella loro differenza individuale. Così questo giudizio può rendere giustizia.
Nella luce della poesia
Ora si può comprendere il senso delle parole enigmatiche di Wallace Stevens, quando egli si chiedeva
se per giustificare intendiamo un genere di giustizia di cui non sappiamo nulla e su cui non avremo mai contato […][9].
La giustizia senza nome di cui non sappiamo nulla, è proprio la giustizia poetica, l’idea utopica che è il centro segreto dell’aspirazione metafisica e cui ci possiamo approssimare attraverso l’idea della poesia. Allora si vedrà chiaramente il senso di quel concetto, apparentemente bizzarro, di «nobiltà», che è la chiave dei saggi di Stevens. Tratto specifico dell’immaginazione, la nobiltà è ciò in cui soltanto «il poeta sensibile ha la giustificazione della sua esistenza»[10]. E’ nel contatto sensibile e terreno che la poesia ascende all’«altezza morale della giusta sensazione»[11]. La sensazione giustifica l’esistenza poiché la compie nella sua possibilità, giacché «il fine del poeta è piena realizzazione»[12]. E’ questa la giustizia poetica della individuazione compiuta, che Stevens vede emergere in He “Digesteth Harde Yron” di Marianne Moore, dove l’autrice non solo stabilisce un contatto con una realtà particolare, ma la «fonda» nella sua individualità[13]. Solo nell’immaginazione, in quanto potere della mente sulla potenzialità delle cose, tale idea potrebbe essere afferrata – e la perfezione individuale colta. Non si tratta qui di sostituire i poeti ai giudici o di farne una nuova sorta di filosofi platonici: è in gioco invece una dislocazione e una novitazione – con il neologismo di Ferdinando Tartaglia[14] – che apre una breccia nell’ordinario in direzione dell’estraneo, nel reale verso l’irreale, e che conduce a soppesare il ruolo cognitivo della poesia come stato possibile di conoscenza dell’individuale, e così come forma eventuale di giustificazione delle cose. E’ appunto l’idea che afferra il nucleo vitale del pensiero utopico e dell’immaginazione, intesa con Stevens come «stato possibile della metafisica»[15]. L’idea dell’utopia, infatti, non potrebbe essere meglio descritta che come «un mondo che trascende il mondo e una vita degna di essere vissuta in quella trascendenza»[16]. Eppure con queste parole Stevens stava parlando della sua idea della poesia, intesa come un «analogo trascendente composto di particolari tratti dal reale»[17]. Ma proprio tale idea di poesia, manifestando la giustizia poetica, conduce al nucleo dell’utopia. Perché la sentenza di Paul Celan per cui il poema sarebbe una ricerca «alla luce dell’U-topia»[18] non deve lasciare in ombra che l’utopia è nella luce della poesia. E’ di questo angelo necessario che si è detto sinora, come di ciò che nell’idea della poesia appare necessariamente quale annuncio e promessa di conoscenza.
Verso le supreme finzioni
Della suprema finzione di una vita immaginata, che proprio perché tale ci accorda al mondo e alla sua sostanza reale, è intrisa l’aspirazione conoscitiva della poesia.
Esiste un mondo poetico che non si può distinguere da quello in cui viviamo, o, più propriamente, dal mondo in cui un giorno vivremo: dato che ciò che dà al poeta la forza che ha, che aveva o dovrebbe avere, è che egli crea il mondo verso il quale incessantemente ci volgiamo anche senza saperlo e che egli dà alla vita quelle supreme finzioni senza le quali non riusciremmo a pensarla[19].
Il mondo immaginato non sta al di là del nostro, ma è da esso indistinguibile, ché la finzione è suprema dove permette di tornare a pensare, a toccare le cose con la mente. Sogno di un sogno, la giustizia poetica, come possibilità di ciò che deve accadere, è l’esperienza ove, per la durata del poema, il mondo in cui viviamo è insieme quello in cui vivremo. La forma di questa conoscenza sarebbe allora la possibilità di un ordine giusto di cui ci parla Seamus Heaney:
Per la durata della poesia, la nostra percezione del mondo è nell’ordine giusto anche se poi il mondo stesso dovesse seguire un corso disordinato e disastroso[20].
Un’onestà e una fedeltà alle cose che si consuma nell’apparenza. Una finzione che proprio perché tale fa contatto con il mondo, ci lascia percepire le cose che lo abitano. Un luogo eventuale, su cui non avremmo mai contato. Un mondo che sta dentro il mondo, un ordine che è e non è di esso. Una forma del mentire onestamente. Un discorso ipotetico sulla conoscenza, sotto l’angolo di incidenza della giustizia. Per il suo approccio obliquo al vero – questa suprema finzione – che se mai le è dato, lo è solo nella forma dell’apparenza, l’idea della poesia è una critica dell’idea di verità piuttosto che un’altra formula positiva per essa.
(una precedente versione è apparsa in “Atelier”, XIII, 50, 2008, pp. 138-143)
[Immagine: Janne Parviainen, Light Painting (gm)].
[1] GYÖRGY LUKÁCS, Teoria del romanzo, Milano, SE 2004, p. 23.
[2] WALLACE STEVENS, L’immaginazione come valore, in Id., L’angelo necessario. Saggi sulla realtà e l’immaginazione, Milano, SE 2000, p. 122.
[3] Ibidem, p. 131.
[4] THEODOR W. ADORNO, Dialettica negativa, Torino, Einaudi 2004, pp. 335-336.
[5] ARISTOTELE, Poetica, 1451b 5-9.
[6] WILLIAM SHAKESPEARE, Amleto, III.iv.207.
[7] PAUL CELAN, La poesia di Osip Mandel’štam, in Id., La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, Milano, Einaudi 1993, p. 48.
[8] WALT WHITMAN, Foglie d’erba,Torino, Einaudi 1993, p. 437. Per una lettura civile del poeta giudice cfr. invece MARTHA C. NUSSBAUM, Il giudizio del poeta. Immaginazione letteraria e vita civile, Milano, Feltrinelli 1996, pp. 100 e sgg. (nuova traduzione in Giustizia poetica, Mimesis, Milano, 2012)
[9] WALLACE STEVENS, L’immagine del giovane come poeta virile, in L’angelo necessario, cit., p. 50.
[10] WALLACE STEVENS, Il nobile cavaliere e il suono delle parole, in L’angelo necessario, cit., p. 37.
[11] WALLACE STEVENS, L’immagine del giovane come poeta virile, cit., p. 55.
[12] Ibidem, p. 44.
[13] WALLACE STEVENS, Una poesia di Marianne Moore, in L’angelo necessario, cit., p. 87.
[14] Cfr. FERDINANDO TARTAGLIA, Tesi per la fine del problema di Dio, Milano, Adelphi 2002.
[15] WALLACE STEVENS, L’immagine del giovane come poeta virile, cit., p. 50.
[16] WALLACE STEVENS, Effetti dell’analogia, in L’angelo necessario, cit., p. 113.
[17] Ibidem.
[18] PAUL CELAN, Il meridiano, in La verità della poesia, cit., p. 17.
[19] WALLACE STEVENS, Il nobile cavaliere e il suono delle parole, cit., p. 35.
[20] SEAMUS HEANEY, Sia dato spazio alla poesia, in Id., Sulla poesia, Milano, Archinto 2005, p. 33.
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