Dal 1° marzo, tra non pochi dubbi, sono entrate in vigore le nuove regole di privacy di Google. Piccolo viaggio tra i sistemi per regalare il meno possibile di se stessi al sistemi di tracciamento dei servizi di Mountain View di IVAN FULCO
Secondo i teorici del Grande Fratello (quello orwelliano, non quello Endemol), lo scambio non è per nulla equo: ogni giorno, Google permette ai suoi utenti di accedere a decine di servizi online in forma gratuita, ma il prezzo da pagare – per quanto non monetario – è comunque troppo alto. Sono tutti i dati che quotidianamente condividiamo con Mountain View (registrando un Google Account o anche solo eseguendo una ricerca), e che entrano nell’ecosistema del mercato pubblicitario a disposizione di decine di società. Google conosce il tuo nome, la tua posizione geografica, utilizza la tua cronologia di navigazione. Tutto con un obiettivo primario: fornire agli utenti inserzioni pubblicitarie mirate, per alimentare quel business che, solo nel 2011, ha stabilito un nuovo record, con un utile trimestrale di 9,72 miliardi di dollari.
Dopo l’esordio, Il primo marzo, delle norme unificate sulla privacy1, il fronte degli scettici ha trovato tuttavia nuovi protagonisti. L’Unione Europea ha espresso “profonda preoccupazione” per le nuove regole2, sollevando dubbi sulla loro legalità. Il Presidente Obama3 ha avviato un piano per la protezione dei dati dei consumatori. Per diffondere una maggiore consapevolezza, una start-up italiana, Iubenda, sta sviluppando un servizio4 che mostri in tempo reale la diffusione dei nostri dati in Rete. Ma per un normale utente che non voglia condividere informazioni con Mountain View, qual è la soluzione?
Le armi di Google contro Google. Gli strumenti primari, paradossalmente, sono forniti da Google stessa. La pagina degli “Strumenti per la privacy”5, per iniziare, illustra tutte le procedure attraverso cui monitorare e cancellare i propri dati dagli archivi Google. È possibile eliminare elementi dalla cronologia di ricerca (“Controlli della Cronologia web”) o disattivare la registrazione delle chat (“Chat di Gmail non salvate nel registro”), ma soprattutto usare gli strumenti del “Data Liberation Front” che, per ogni servizio, spiega passo passo come esportare in locale i propri dati per poi cancellarli dai server remoti.
Dalla pagina degli “Strumenti per la privacy” è inoltre possibile accedere alla Dashboard personale6, che raccoglie le informazioni relative a tutti gli account creati con i servizi Google. Un pannello centralizzato che, per molti utenti, può rappresentare un riepilogo quasi completo delle proprie attività in Rete, dal quale gestire contatti, email, calendari, ma anche le impostazioni di Google+, YouTube, Picasa o di eventuali account esterni collegati, come quelli di Facebook e Twitter. Qui è possibile persino compiere il proprio “suicidio internettiano”: un clic su “Gestisci account”, poi su “Chiudi l’intero account ed elimina tutti i servizi e le informazioni associati” e la nostra identità web sarà storia. Ovviamente, da maneggiare con cautela.
Oltre Google: navigazione privata ed estensioni. Per chi non vuole combattere il nemico con le armi del nemico, molti sviluppatori offrono strumenti ad hoc per preservare la privacy. Ogni browser moderno – come Internet Explorer, Firefox, Chrome o Safari – dispone ormai di una propria modalità per la navigazione privata (o “in incognito”). Queste ultime, tuttavia, cancellano prevalentemente le tracce locali della navigazione, influendo solo in parte sui dati che vengono registrati da Google.
Nel caso specifico di Safari, sia in versione desktop che mobile, la situazione è più complessa. Il browser di Apple blocca automaticamente i tentativi di tracking, rendendo teoricamente impossibile per Google la consultazione della nostra cronologia. Un articolo recente del Wall Street Journal ha però rivelato come, inserendo una porzione di codice nei propri siti, Mountain View abbia aggirato questa protezione, di fatto spiando gli utenti Mac, iPhone e iPad.
Se invece si vuole un reale livello di sicurezza extra, può essere quindi utile installare specifiche estensioni sul browser. Tra i più diffusi c’è Ghostery7 – ironicamente sviluppato da un ex-dipendente Google – disponibile per Firefox, Chrome, Safari, Opera e Internet Explorer. Agendo in background, Ghostery impedisce la diffusione di dati verso l’esterno, arrivando persino a bloccare specifici elementi delle pagine web e mostrando verso quali servizi vengono dirottate le nostre informazioni. Il software può essere usato anche su iPhone/iPad, scaricando l’app gratuita8 e utilizzandolo al posto di Safari.
Anche in questo caso, le alternative non mancano. Tra le principali vanno segnalate Do Not Track Plus9, TrackMeNot10 o Trackerblock11, che permettono di ottenere risultati simili semplicemente installandoli sul browser. Persino Google ha sviluppato la sua estensione personale, intitolata Keep My Opt-Outs12, attraverso la quale è possibile disattivare il tracciamento dei dati e la pubblicità personalizzata.
Strumenti per esperti
Per compiere il salto di qualità in termini di privacy, serve tuttavia una minima competenza tecnica. L’anonimato assoluto si può raggiungere infatti solo con strumenti più complessi, come Tor13, un software open source che nasconde l’utente confondendone le tracce all’interno della Rete, eludendo così i tentativi di intercettazione di qualsiasi genere, non solo quelli di Google.
Chi è alla ricerca di uno strumento più accessibile, può invece rivolgersi ai numerosi proxy disponibili gratuitamente in Rete. Sono siti come Proxify14, Anonymouse15 o Proxybrowsing16, per citarne alcuni, che “filtrano” la navigazione impedendo ai nostri dati di essere rilevati. È sufficiente accedere al servizio, senza iscrizione, e digitare l’indirizzo web da visitare. E la privacy è tratta, pur al prezzo di una navigazione più lenta e meno agile. Si tratta degli stessi strumenti, a margine, che vengono utilizzati dai navigatori più esperti per aggirare i blocchi regionali, come accade in Italia per alcuni siti pirata o di scommesse illegali. Ma questa è un’altra battaglia, forse più ambigua ed eticamente meno nobile.
Tratto da: http://www.repubblica.it/tecnologia/2012/03/05/news/come_difendersi_da_google-30868982/?ref=HRERO-1
ESTENSIONI ANTI-TRACKING PER BROWSER
Cosa sanno di noi i siti che visitiamo? Una startup italiana ci aiuta a scoprirlo
Nelle ore del no della Unione europea a Google, alla vigilia dell’entrata in vigore delle nuove norme sul trattamento dei dati personali, ha aperto i battenti Iubenda, sito ideato e gestito da giovani italiani che si offre di aiutarci a a capire – con pochi click – quanto delle nostre informazioni entra nella disponibilità dei siti e dei servizi che frequentiamo di MAURO MUNAFO’
ROMA – Che cosa sanno di noi i siti che visitiamo ogni giorno? Posizione geografica, indirizzo Ip, account di Facebook, nomi, email : ogni volta che ci colleghiamo a una pagina decine di dati transitano sulla rete e vengono gestiti da diverse piattaforme per gli scopi più vari. Difficile però che un utente comune possa risalire a tutti gli usi fatti dei suoi dati, a meno che non abbia profonde conoscenze tecniche o molto tempo da dedicare alla lettura delle “privacy policy”, quei documenti obbligatori per legge, lunghi e noiosi, confinati spesso in link nascosti. Eppure a questa situazione potrebbe presto porre un rimedio una startup tutta italiana, Iubenda1, lanciata da poche ore ma assai promettente.
L’idea di Iubenda, semplice e al tempo stesso rivoluzionaria, è questa: mostrare in una rapida schermata e con un click tutti gli usi che vengono fatti delle informazioni personali su un sito, senza spulciare documenti o improvvisarsi avvocati. E che la gestione della privacy online sia un argomento delicato lo dimostrano i fatti di cronaca, anche recente: lo stop imposto dall’Unione Europea a Google2, l’accesso ai numeri della rubrica del social network Path o le periodiche polemiche sulle impostazioni di Facebook, tanto per fare un esempio.
“Lavorando su altri progetti mi scontravo sempre con il problema di creare una policy sulla gestione della privacy”, spiega a Repubblica.it Andrea Giannangelo, fondatore di Iubenda. “Ormai il sistema di Creative Commons (gestione dei diritti d’autore ndr) esiste da anni, ma qualcosa di simile non c’è per la privacy e per chi lavora sul web si tratta di una enorme perdita di tempo”.
Da una parte ci sono quindi i gestori dei siti che percepiscono come un peso (obbligatorio per legge) il dover spiegare l’uso dei dati sui propri portali, e dall’altra gli utenti che poi quelle spiegazioni neppure le leggono.
“Noi offriamo un servizio semplice ed elegante e con pochi click si può generare una policy riferita alla normativa europea, una delle più stringenti – continua Giannangelo – mentre un team legale è costantemente all’opera per monitorare eventuali modifiche, in modo che chi gestisce un sito non debba più preoccuparsi di questi aspetti”.
Nella prova di Repubblica.it, Iubenda si è rivelato semplice da usare per chi vuole generare la sua policy e di facile consultazione per l’utente finale. La creazione del documento passa infatti attraverso un sistema di widget: basta aggiungere i servizi che il proprio sito utilizza, siano essi il pulsante like di Facebook o Google analytics (che prevedono l’uso dell’indirizzo ip e la creazione di un cookie tramite browser) o un altro tra i 27 servizi più usati.
Se dal lato gestore tutto fila liscio, va anche meglio su quello utente. Il documento finale generato ha infatti due diverse visualizzazioni: c’è quella più strettamente “legale” e quella semplificata, che attraverso delle icone fa emergere a colpo d’occhio quali dati il sito tratta e quale uso ne viene fatto. Il risultato ha portato Iubenda a generare in un solo giorno 1.500 policy, oltre a raccogliere recensioni positive anche dalla stampa di settore anglosassone.
“Il nostro obiettivo è semplificare il mondo legale attraverso la tecnologia”, continua Giannangelo. “E ci sono tantissime altre novità che introdurremo nei prossimi mesi”.
Quanto promettente possa rivelarsi il settore lo dimostra poi il finanziamento di 100mila euro ricevuto da Iubenda da investitori noti nella scena tecnologica italiana come Marco Magnocavallo, Andrea Di Camillo e dal fondo Digital Investment Sca Sicar, con advisor dPixel.
Ma quella di Iubenda è una storia che va oltre il prodotto che offre e parte dal fondatore Andrea Giannangelo, startupper di 22 anni, abruzzese di origine e bolognese d’adozione. Oltre a lui il team di Iubenda include Domenico Vele, sviluppatore di 38 anni, e Carlo Rossi Chauvenet, legale trentenne, divisi tra Milano e Bologna. Idea, team e finanziamenti italiani dimostrano una volta di più la vivacità anche nel nostro paese del settore web, che negli ultimi anni sembra essersi risvegliato dal torpore seguito alla fine della bolla delle dotcom, come la vittoria dell’italiana Beintoo all’ultima edizione di LeWeb 3 3 ha di recente dimostrato.
“Nella mia esperienza il fatto di trovarmi in Italia non è mai stato un grande limite – spiega Giannangelo – l’ambiente italiano ha delle differenze e bisogna esser capaci di trarre vantaggio da queste. Restare in Italia non è una religione, così come non lo è andare via, ma le cose stanno cambiando a grande velocità e il sistema ha cominciato a muoversi insieme, a sostenersi a vicenda e a lavorare di squadra”.
(29 febbraio 2012)
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