Da Effetto risorse, blog di Ugo Bardi, docente di chimica e fisica dell’Università di Firenze.
“L’entropia è il prezzo della struttura”, questa famosa frase di Ilya Prigogine schiude come un vaso di Pandora l’origine di gran parte dei mali che si stanno abbattendo su di un’umanità che credeva di aver oramai acquisito il controllo del pianeta.
Perché? Perché tutte le grandi conquiste di cui andiamo (in molti casi giustamente) orgogliosi sono il prodotto di processi fisici: abbiamo dissipato dell’energia per ottenere un incremento del nostro capitale complessivo. Che si tratti del numero di persone (popolazione), di infrastrutture ed oggetti materiali di ogni genere (capitale materiale), di denaro (capitale finanziario) di conoscenze (capitale culturale) e quant’altro, la fisica del sistema non cambia: si dissipa energia per aumentare la quantità di informazione contenuta in una parte del meta-sistema, scaricando l’entropia corrispondente su altri sotto sistemi. Da quando Claude Shannon dimostrò la corrispondenza inversa fra informazione ed entropia, sappiamo che qualcuno o qualcosa deve pagare affinché qualcun altro possa acquisire conoscenze supplementari, così come qualcuno o qualcosa deve pagare perché altri possano realizzare strumenti, case, oggetti e quant’altro.
Perlomeno entro certi limiti, possiamo decidere a chi far pagare questa “bolletta”. L’entropia può essere infatti scaricata in vario modo su altri territori ed altri popoli, su altre classi sociali, sui propri discendenti o combinazioni fra queste, ma comunque qualcuno perde. Dunque, il progresso culturale di cui andiamo tanto orgogliosi ha un prezzo che può prendere la forma di povertà, consumo di suoli o di biodiversità, inquinamento, disparità sociale e tantissime altre, ma non è mai privo di “effetti collaterali” , come ampiamente documentato da Nicholas Georgescu-Roegen negli anni ’70.
Eppure, si potrebbe facilmente obbiettare, proprio il progresso culturale è stata la peculiarità che ha reso la nostra specie così straordinariamente dinamica e vincente; perfino troppo vincente, secondo alcuni. Anzi, persone intelligenti ed informate sostengono che il progresso tecnologico (quindi la crescita dell’informazione) sia proprio la chiave che può evitare il cupo futuro pronosticato da “picchisti” e “decrescisti” (si veda qui per un esempio divulgativo di buon livello).
Hanno ragione? Sarebbe bello, ma probabilmente no.
Per quanto ne sappiamo, la cultura in senso attuale compare con la nostra specie non prima di 40.000 anni fa circa. Molto prima si sapevano fare oggetti utili ed anche accendere il fuoco, ma per quanto possiamo arguire non esistevano forme di arte e dunque non c’erano artisti; tantomeno scienziati e filosofi. Viceversa, coloro che 17 o 18.000 anni fa dipinsero la grotta di Lascaux erano certamente degli straordinari professionisti che avevano dedicato la loro intera vita a raffinare la propria arte, mentre altri si preoccupavano di provvedere alle loro necessità. E sicuramente già da molto prima esistevano poeti, musicisti e danzatori.
Molto più costosa è sempre stata la scienza. E’ probabile che la prima branca scientifica ad essere affrontata da professionisti sia stata la medicina, già nel paleolitico. La seconda, all’inizio del neolitico, fu l’astronomia, come testimoniato all’antichità e dalla diffusione di imponenti costruzioni che hanno tutta l’aria di essere, in buona sostanza, degli osservatori astronomici. Non prima, probabilmente perché all’epoca della fioritura delle civiltà del tardo paleolitico la nostra base energetica era costituita dalla mega fauna (elefanti, rinoceronti, uri, bisonti, cavalli) e dunque conoscere il comportamento degli animali era molto più importante che osservare nel dettaglio i movimenti degli astri. L’estinzione della megafauna e l’avvento dell’agricoltura cambiarono tutto questo in maniera irreversibile.
Per costruire strutture come Stonehenge, l’intera popolazione di una vasta zona dovette sobbarcarsi una mole notevole di lavoro supplementare e rinunciare a più di un buon pasto per nutrire i cavatori e gli studiosi. Parecchia gente è morta per realizzare le meraviglie archeologiche che troviamo sparse in tutto il mondo. Perché affrontare simili sacrifici? Per la follia di un sacerdote o di un despota fanatico? Assai improbabile. Gli osservatori astronomici consentivano la realizzazione di calendari e di prevedere i movimenti degli astri il che, a sua volta, consentiva di realizzare raccolti mediamente migliori, come ogni buon contadino ancora oggi sa bene. Un vantaggio che, nel tempo, ripagava ampiamente i sacrifici necessari.
Lo stesso, in ultima analisi, vale ancora oggi: l’arte e la scienza sono degli accumuli di informazione che per essere generati e conservati necessitano di un corrispondente aumento di entropia di cui la società si fa carico sapendo, o sperando, di esserne ripagata.
Non a caso, l’astronomia costituisce un caso speciale. Finché le uniche fonti di energia disponibili furono il cibo ed il legname, i campi più battuti rimasero quelli della speculazione logica, della letteratura, della musica e della danza proprio perché consentivano risultati notevoli (in molti casi straordinari) al solo prezzo di mantenere un certo numero di distinti signori in grado di studiare e pensare, anziché lavorare e combattere. C’erano, è vero, anche attività molto più energivore come la scultura, l’architettura e l’astronomia che, però, davano evidentemente dei risultati tali da essere comunque sviluppate. Almeno nei periodi di fioritura delle civiltà, per essere poi abbandonate nei periodi di decadenza delle medesime.
La nostra civiltà attuale funziona sostanzialmente alla stessa maniera di quelle che la hanno preceduta, ma ha alcune caratteristiche uniche, a cominciare dalla quantità di energia che è stata in grado di mobilitare a proprio favore. Questo ha consentito un accumulo di informazione assolutamente senza precedenti e non si tratta solo informazione inedita, sconosciuta alle precedenti civiltà.
L’archeologia, la storia, il restauro dei monumenti, il recupero e la pubblicazione di documenti antichi sono solo alcuni dei lussi estremi che l’opulenza della società occidentale ha reso possibile nei suoi due secoli di fioritura. Un fatto questo senza precedenti, se si eccettuano piccole collezioni private, alcune biblioteche e poco più.
Quando sono nate le principali istituzioni scientifiche, i maggiori musei, le grandi biblioteche contemporanee? Praticamente fra la metà del XIX e la metà del XX secolo, talvolta da zero e talvolta da istituzioni precedenti, molto più modeste. Un accumulo di informazione stupefacente e giustamente entusiasmante, ma che rischia un drastico ridimensionamento nel giro di pochi decenni, forse di anni. Disfattismo? Me lo auguro, ma i segnali di allarme, in questo come in molti altri casi, suonano da un pezzo.
Prendiamo ad esempio l’Università italiana, per non andare lontano. La “riforma Ruberti” è del 1990. Sostanzialmente, con la scusa dell’efficienza produttiva, si tagliavano i fondi alla ricerca di base dicendo ai ricercatori che dovevano arrangiarsi a trovare dei finanziatori privati che ritenessero interessanti i loro progetti. Destino analogo hanno avuto altri cosiddetti “enti esperti” come l’ENEA e, più recentemente, lo stesso CNR. Cosa significa tutto ciò? Semplicemente che la struttura sociale in cui queste attività si svolgono comincia a pensare che non vale più la pena di farsene carico o, perlomeno, non completamente.
Non è che non ci siano più mezzi a disposizione; semplicemente non ce ne sono più abbastanza per tutto e si comincia ad abbandonare alcuni settori per rilanciarne altri. Ma anche in materia di accumulo di informazione vale la fatale legge dei “Ritorni Decrescenti”. Per fare un esempio, uno dei campi attualmente più avanzati e robustamente finanziati è la fisica delle particelle; penso che un confronto a colpo d’occhio fra l’apparecchio usato da Joseph John Thomson nel 1896 per dimostrare l’esistenza e valutare la massa dell’elettrone con l’apparecchio utilizzato nel 2012 per dimostrare l’esistenza del Bosone di Higgs sia più convincente di qualunque discorso. Oppure pensiamo a quello che la società ha investito per consentire a Mendel di zappare il suo orto e riflettere, in confronto con il progetto “Genoma Umano” che è costato circa 3 miliardi di dollari ed ha coinvolto migliaia di ricercatori in 7 paesi diversi.
Negli anni fra il 1939 ed il 1945 tutti i paesi coinvolti nella guerra, nei limiti del possibile, si preoccuparono di proteggere il loro patrimonio culturale: monumenti furono coperti con sacchi di sabbia, collezioni e biblioteche furono spostate in zone rurali o nascoste in tunnel, ecc. Fra il 1941 ed il 1942 Albert Speer fece costruire una serie di vere e proprie fortezze antiaeree che protessero efficacemente sia alcuni centri storici, che buona parte delle raccolte dei musei di Berlino, Amburgo e Vienna.
A quando delle “primavere europee”? Si spera mai, ma possiamo esserne sicuri? Fra l’altro, più tempo passa prima che cose del genere accadano in casa nostra, minori saranno i fondi ed i mezzi disponibili per farvi fronte. A questo genere di discorsi mi si risponde spesso che Internet può risolvere il problema perché delocalizza l’informazione sul mondo intero. Il che è vero, ma chi la pensa in questo modo non tiene conto di almeno due fattori: il primo è che una parte immensa del nostro patrimonio culturale è fatto di roccia, di legno ed altri materiali solidi che non possono essere delocalizzati in rete. La seconda è che la rete esiste come prodotto di punta di quella civiltà industriale dal cui collasso ci dovrebbe proteggere. Si stima che internet oggi assorba circa il 2% dei consumi mondiali di energia, mentre l’intero comparto minerario globale ne assorbe fra il 5 ed il 10% .
– Seppellire le zone archeologiche. Non tutte e non subito, naturalmente, ma già oggi l’incuria sta distruggendo oggetti che sottoterra erano rimasti integri per centinaia od anche migliaia di anni. Coprirli con un telo di geotessile e rimetterci sopra la terra li proteggerebbe sia dalle intemperie che dalla violenza. Magari in futuro altri archeologi le riscopriranno per la felicità dei nostri discendenti.
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