L’oligarchia è una forma di potere minoritario che trova il suo fondamento nella ricchezza materiale. Le democrazie capitalistiche contemporanee combinano il suffragio universale e la libertà d’espressione con forme oligarchiche di concentrazione del potere. Dato che il potere degli oligarchi è basato sulla ricchezza, è proprio la distribuzione della ricchezza, piuttosto che l’inclusione partecipativa, che può contrastare il loro potere. Tratto da Micromega.
Introduzione
La democrazia e le oligarchie sono forme di governo incompatibili l’una con l’altra? O è invece possibile avere democrazie all’interno delle quali il potere politico effettivo è nelle mani delle oligarchie? Qual è la fonte del potere delle oligarchie? E come opera questo potere? In cosa le oligarchie si differenziano dalle élite? Questi sono i temi affrontati da Jeffrey Winters nelle sue ricerche, temi che hanno una rilevanza cruciale per il dibattito sul populismo e sulla crisi della democrazia rappresentativa che questa rubrica sta ospitando[i].
Le ricerche di Winters esplorano il fenomeno oligarchico nel tempo e nello spazio: Atene e Roma, l’Europa medievale, gli Stati Uniti dal diciottesimo secolo ad oggi, l’Indonesia degli ultimi trent’anni, ecc. La sua monografia, dal titolo Oligarchy, ha ricevuto nel 2012 il premio come miglior libro di politica comparata dall’Associazione Americana di Scienze Politiche. Nel libro, Winters argomenta che l’oligarchia è una forma di potere minoritario – una forma di dominazione politica di una minoranza d’individui sull’intera collettività – che trova il suo fondamento nella ricchezza materiale. Questo fa dell’oligarchia un fenomeno storicamente più robusto e più insidioso delle élite. E questo differenzia l’oligarchia da altre forme di potere minoritario, come le élite politiche, burocratiche, tecnocratiche o intellettuali. Diversamente da ciò che molti credono, la democrazia non esclude l’oligarchia. Secondo Winters, le democrazie contemporanee mettono insieme suffragio universale e libertà d’espressione con forme estreme di concentrazione del potere che dipendono da forme estreme di concentrazione della ricchezza. In questa prospettiva, allargare la partecipazione dei cittadini alle istituzioni democratiche non è necessariamente sufficiente per contrastare il potere oligarchico; vi è bisogno piuttosto di meccanismi che contrastino le concentrazioni di ricchezza. Se Winters ha ragione, ogni dibattito sul futuro della democrazia deve affrontare il tema dell’oligarchia. Per gentile concessione dell’autore, vi proponiamo qui un intervento di Winters, finora inedito, che comparirà prossimamente nell’originale in inglese all’interno dell’Encyclopedia of Political Thought curata da Michael T. Gibbons. L’articolo riassume in maniera concisa le tesi che Winters elabora e documenta dettagliatamente nel suo libro.
Che cos’è l’oligarchia?
[Jeffrey Winters]
L’oligarchia è una forma di potere minoritario concentrato. Anche nelle società democratiche con suffragio universale e partecipazione libera, piccoli segmenti della popolazione possono avere un potere sproporzionato rispetto al resto della popolazione, in svariati modi e con diversi effetti. Gli oligarchi si distinguono da altri individui o gruppi di potere per il fondamento della loro influenza politica eccessiva, che si deve al controllo personale su ricchezze enormi. Le élite costituiscono un’altra forma di potere minoritario. Esse differiscono dalle oligarchie per due motivi: il fondamento del potere sproporzionato delle élite non è l’enorme ricchezza personale e, inoltre, in parte perché le fonti del potere delle élite sono varie, vi è meno coesione all’interno delle élite che tra gli oligarchi. La concentrazione della ricchezza, sia in quanto fondamento del potere politico delle oligarchie che in quanto fonte costante di tensioni sociali, sta alla base della coesione politica tra gli oligarchi, indipendentemente dall’esistenza o meno di network formali che colleghino gli oligarchi tra loro. Il potere e gli interessi degli oligarchi sono un elemento intrinseco alla loro posizione di vertice nelle stratificazioni sociali che dipendono dalla ricchezza materiale.
Ispirata agli scritti di Aristotele, la definizione moderna che comunemente viene data di oligarchia è “governo dei pochi”. La parola stessa deriva dal Greco classico, oligoi (pochi) e archein (governare). Questa definizione, basata sull’etimologia, è però di scarsa utilità e omette gli aspetti più importanti del pensiero di Aristotele sull’oligarchia. L’enfasi sul numero di persone che detiene il potere politico focalizza l’analisi su categorie di sistemi di governo che si escludono l’un l’altro. Secondo questo modo di pensare, l’oligarchia si contrapporrebbe sia in teoria che in pratica alla democrazia (governo dei più), alla monarchia (governo di uno solo) e all’anarchia (governo di nessuno). Su queste basi, la ricerca dovrebbe dunque limitarsi ad assegnare ogni singola società umana a una sola di queste categorie e al descrivere le transizioni da una forma di governo all’altra – ad esempio da democrazia a oligarchia, o viceversa.
Una lettura più attenta rivela che in Aristotele la differenza fra oligarchia e democrazia è fondamentalmente una questione di ricchezza e non di numeri. Nella Politica si dice esplicitamente che oligarchia si riferisce al potere nelle mani dei più ricchi:
“il numero di coloro che governano, sia esso ampio, come nella democrazia, o più ristretto, come nell’oligarchia, è contingente e dipende dal fatto che dappertutto i ricchi sono pochi e i poveri sono molti”.
La ricchezza è la caratteristica dirimente per Aristotele, anche nel caso assai improbabile che i ricchi non costituiscano una minoranza della popolazione. Un’oligarchia esiste, insiste Aristotele,
“ogniqualvolta quelli che detengono il potere politico sono tali in ragione della loro ricchezza, siano essi pochi o molti” (Aristotele, Politica 3.8, 1279b 35-9 e 1280a 1-3).
La definizione di oligarchia come “governo dei pochi ricchi” ha dominato il dibattito dall’età classica fino ai lavori dei teorici delle élite comparsi alla fine del diciannovesimo secolo e all’inizio del ventesimo secolo, come quelli di Mosca (1939 [1896]), di Pareto (1935[1916], 1968[1901]) e di Michels (2001[1911]). Questi analisti spostarono l’attenzione sui gruppi ristretti di potere considerati indipendentemente dalla fonte del loro potere ed enfatizzarono l’osservazione generalmente valida che le organizzazioni complesse finiscono il più delle volte per essere dominate da un gruppo ristretto di individui privilegiati. Michels chiamò inappropriatamente legge ferrea dell’oligarchia questa importante intuizione, con la conseguenza che nei decenni a seguire, nelle discussioni critiche sulla democrazia, la distinzione tra élite e oligarchie diventò molto confusa e sfuocata. Verso la metà del ventesimo secolo la teoria oligarchica era allo sbando. L’attenzione verso i rapporti fra ricchezza e potere venne rimpiazzata da una prospettiva istituzionalistica centrata sul potere delle élite (Mills 1956). In misura sempre crescente, i termini oligarchia ed élite furono usati intercambiabilmente. Payne (1968) dichiarò che il concetto di oligarchia era diventato “un pasticcio”.
Un ritorno a un’interpretazione materialista delle oligarchie è oggi sempre più evidente, non solo nel discorso politico comune ma anche nelle analisi accademiche dedicate alla definizione di tale concetto e alla spiegazione delle importanti differenze che possono esserci fra le varie forme di potere delle minoranze (Winters 2011). L’allontanamento da categorie concettuali discrete e basate sul numero di persone che detengono il potere facilita le indagini su come certe forme di governo dei pochi, ad esempio le oligarchie, possano mescolarsi con forme di governo in cui il potere politico è nelle mani di tutti, come quelle che garantiscono l’uguaglianza formale di diritti politici. Aristotele credeva che democrazia e oligarchia potessero e dovessero essere combinate e fuse insieme, e che fossero incompatibili solo nelle loro forme più estreme. Aristotele si riferiva alla possibilità che i ricchi escludessero integralmente i poveri, sia materialmente che politicamente, e alla possibilità che i poveri allo stesso modo usassero la loro preponderanza numerica per “opprimere” i ricchi e per approvare leggi che distribuissero la ricchezza al punto tale da eliminare gli oligarchi, cancellando la fonte di potere che li caratterizza. Questa era esattamente la paura espressa dagli oligarchi nei dibattiti del diciottesimo e del diciannovesimo secolo sull’estensione dei diritti di cittadinanza ai non possidenti. Una parte importante della storia della democrazia riguarda il fatto che il suffragio universale diventò possibile solo quando furono identificati meccanismi istituzionali di salvaguardia che depotenziassero questo rischio (Nedelsky 1990).
Aristotele pensava non solo che oligarchia e democrazia potessero essere mescolate, ma anche che tale fusione fosse la soluzione migliore ai conflitti materiali cronici, e spesso destabilizzanti, fra ricchi e poveri. La sua miscela preferita, che chiamava politeia o governo costituzionale, era una “fusione di oligarchia e democrazia” basata su “una mescolanza dei due elementi, vale a dire i ricchi e i poveri” (Politica 4.8, 1293b 34-6 e 1294a 22-4). Se oligarchia e democrazia sono combinate a regola d’arte,
“entrambi gli elementi dovrebbero essere ben visibili, e allo stesso tempo nessuno dei due deve prevalere” (Politica 4.9 1294b 35-6).
Un approccio materialista all’oligarchia inizia dall’osservazione che le diseguaglianze economiche estreme sono intrinsecamente conflittuali e che è difficile per i super-ricchi difenderle a fronte di minacce e contestazioni di vario tipo. Tali minacce possono arrivare dal basso, cioè dalle masse dei non possidenti, o lateralmente da altri oligarchi, oppure dall’alto, quando gli oligarchi non hanno un controllo diretto dello stato. Gli oligarchi si sono da sempre assicurati una posizione apicale nella gerarchia economica tramite una combinazione di giustificazioni, legittimazioni e il ricorso all’uso della forza. Per la teoria materialista dell’oligarchia che qui presentiamo è centrale il fatto che i più ricchi, in società molto diseguali, si trovino ad affrontare minacce comuni. Qualsiasi altra cosa li divida socialmente e politicamente, gli oligarchi condividono certi interessi chiave legati alla protezione della loro fortuna e del loro reddito. Il progetto politico centrale degli oligarchi può essere descritto in breve come wealth defense, o difesa della ricchezza. Prima della nascita di stati con strutture burocratiche e legali che potessero garantire il valere dei diritti di proprietà, gli oligarchi erano costretti ad armarsi personalmente o comunque a impegnarsi direttamente in qualche sistema di governo dotato di efficaci capacità coercitive. Le capacità di coercizione degli stati moderni hanno quasi eliminato l’esigenza degli oligarchi di ricorrere a forze coercitive private e di partecipare direttamente al governo.
Se gli oligarchi, nel corso della storia, s’identificano come quegli attori che detengono il potere in virtù della concentrazione della ricchezza, e se la wealth defense è il progetto che tutti oligarchi hanno in comune, allora il termine oligarchia si riferisce alla varietà di modi in cui la wealth defense è stata attuata in tempi e società diverse. L’oligarchia è un processo politico nel quale gli oligarchi, da soli o di concerto, usano le loro ricchezze come risorsa di potere per contrastare le minacce ai propri averi e alle proprie entrate. La contrapposizione con le élite è qui importante. Malgrado anch’esse siano forme di potere minoritario, le élite si differenziano dalle oligarchie perché le basi del loro potere sono molteplici e diversificate, e comunque diverse dalla ricchezza. Gli appartenenti alle élite sono potenti perché occupano cariche ufficiali in particolari strutture gerarchiche (pubbliche, private, laiche, religiose), o perché possono controllare il dibattito ideologico e mobilitare un gran numero di persone, o perché hanno a disposizione l’uso di mezzi coercitivi potenti, oppure perché godono di uno status politico e sociale privilegiato (ad esempio, possiedono cittadinanza e libertà e non sono stranieri o schiavi).
La variabilità delle fonti del potere delle élite rende il loro profilo politico e sociale molto più frammentato di quello delle oligarchie. Questo spiega come mai un tema importante per i teorici delle élite sia la descrizione delle connessioni e dei network fra i vari gruppi d’élite – ad esempio, la descrizione delle strette relazioni che legano il mondo degli affari, le gerarchie militari, e le élite intellettuali a livello locale, nazionale e internazionale. Lo scopo di questi teorici è quello di mostrare non solo che i membri delle élite sono più potenti dell’individuo medio, ma anche che le élite hanno interessi in comune e, soprattutto, che questi interessi divergono da quelli del resto della popolazione. Nel caso non si possa dimostrare in modo convincente che è effettivamente così, allora si dovrebbe ammettere che ci sono una pluralità di élite, con progetti politici distinti, molti dei quali vanno in direzioni opposte o sono comunque controbilanciati dalle procedure politiche pluraliste.
Malgrado oligarchie ed élite siano entrambe forme di potere minoritario, queste differenze suggeriscono che le prime non sono un sottoinsieme delle altre. Ci sono oligarchi che non hanno potere politico elitistico e ci sono membri delle élite che non hanno ricchezze personali che possano essere impiegate a fini politici. La storia ci fornisce molti esempi di persone che combinano al potere oligarchico l’appartenenza a qualche élite. Ma a partire dal sedicesimo secolo la radice del potere dell’oligarchia e quella delle élite si sono distanziate sempre più.
Se nella storia si osserva grande variabilità nelle oligarchie, come possiamo allora differenziare tra loro le diverse forme di oligarchia? È utile identificare quattro tipi principali di oligarchia: ci sono quelle belligeranti, quelle governanti, quelle sultanistiche e quelle civili. La wealth defense, nelle sue due forme di difesa del patrimonio e difesa del reddito, è fondamentale per tutte le forme di oligarchia. Ma queste forme si differenziano lungo due dimensioni cruciali che hanno a che fare col modo in cui la ricchezza viene difesa. La prima dimensione riguarda il grado di partecipazione diretta degli oligarchi nel governo e nel sistema coercitivo che protegge la proprietà in generale e più in particolare gli averi degli oligarchi stessi. La seconda dipende dall’organizzazione di tali strumenti coercitivi, che può essere di natura frammentaria e personalistica oppure collettiva e istituzionalizzata. Le oligarchie belligeranti hanno accesso diretto all’uso delle armi, sono più atomizzate nella difesa della ricchezza e controllano in maniera diretta persone e territori. In contesti dove esistono oligarchie belligeranti, le minacce laterali tra oligarchi costituiscono uno dei più gravi problemi per la wealth defense. Esempi importanti di questo tipo di oligarchia sono quei signori della guerra e quei capi di vario tipo presenti sin dalla preistoria, ma anche i cavalieri e i vassalli medievali, i moderni mafiosi, i clan familiari coinvolti in faide, certi leader ribelli e i boss del narcotraffico.
Nelle oligarchie governanti, gli oligarchi gestiscono il potere politico in maniera collettiva, mettono insieme eserciti finanziandoli con fondi comuni e solitamente si alternano nelle cariche di potere. La stabilità di questa forma di oligarchia dipende dal disarmo almeno parziale delle oligarchie, soprattutto nei luoghi dove esse esercitano il potere collettivo. Nel tentativo di gestire i conflitti laterali, gli oligarchi di tipo belligerante delle mafie statunitensi e italiane tentarono di costituire dei comitati che potessero funzionare con le caratteristiche di un’oligarchia governante. Tali tentativi fallirono però, perché non vi fu alcun parziale disarmo e non vennero create modalità per l’esercizio collettivo della capacità coercitiva.
L’antica Atene e Roma sono esempi classici di oligarchie governanti, dove ricchi senatori detenevano il potere in modo collettivo anche grazie a un parziale disarmo – specialmente quando si trovavano in prossimità, come nella città (in contrasto a quanto accadeva nelle loro terre, dove agivano da latifondisti e schiavisti) o anche in veste di generali dell’impero. Le Filippine (dopo il 1986) o l’Indonesia (dopo il 1998) sono esempi contemporanei di oligarchie governanti nelle quali alcuni super-ricchi si sono appropriati dei sistemi elettorali democratici – il che ci fa capire che le oligarchie governanti possono essere sia autoritarie sia proceduralmente democratiche. È significativo che né la nomenklatura dell’URSS né il comitato centrale del partito comunista, sia in Cina che in Vietnam, siano esempi di oligarchie governanti. Si tratta invece di casi di dominazione delle élite, perché il potere degli attori al vertice della gerarchia si basa sull’appartenenza ai quadri del partito e non su enormi ricchezze personali, le quali furono cancellate dalle rivoluzioni. Da quando la Cina e il Vietnam sono diventati di fatto regimi capitalistici e hanno permesso nuovamente l’accumulo di fortune private, in questi paesi sono rapidamente comparsi alcuni super-ricchi – individui che spesso hanno usato le cariche politiche o altre posizioni d’élite per diventare oligarchi.
Le oligarchie sultanistiche sono dominate da un singolo oligarca detentore del potere, un leader personalistico che primeggia sugli altri oligarchi e, allo stesso tempo, ne garantisce la ricchezza e il prestigio. Gli oligarchi sultanistici cercano di disarmare gli oligarchi a loro sottomessi, o almeno di intimidirli con le forze soverchianti dello stato. Esempi di spicco includono il governo autocratico di Cesare a Roma, Suharto in Indonesia, Marcos nelle Filippine, Somoza in Nicaragua, Mubarak in Egitto, le famiglie reali degli Shah in Iran e l’Arabia Saudita sotto la dinastia Saud. Le oligarchie sultanistiche si affidano per la loro stabilità a un delicato equilibrio tra la difesa della proprietà degli oligarchi in generale e l’uso accorto del potere personalistico e del clientelismo per minacciare proprietà e ricchezza di specifici oligarchi, così che il leader possa dominare e addomesticare l’intero gruppo di super-ricchi.
Le oligarchie civili sono le uniche nelle quali gli oligarchi non governano direttamente ma piuttosto contano interamente sul potere della loro ricchezza per garantirsi l’influenza politica e per proteggere i propri averi. Le oligarchie civili sono completamente disarmate e il potere coercitivo che difende le loro fortune è gestito interamente da uno stato armato che governa in modo impersonale tramite istituzioni legali e burocratiche. Come nel caso delle oligarchie governanti, le oligarchie civili possono essere democratiche, come negli Stati Uniti, o autoritarie, come a Singapore. In questo tipo di oligarchie, poiché la protezione della proprietà tramite diritti e leggi formali è molto affidabile, la politica della wealth defense si concentra invece sulla difesa del reddito da uno stato in grado di usare lo strumento fiscale in modo estrattivo e, in alcuni casi, redistributivo. Le imponenti spese in questo senso degli oligarchi americani nella seconda metà del ventesimo secolo hanno generato un’industria efficiente e potente, la quale ha come unico fine la difesa del reddito di chi paga i suoi servizi. In tutte le oligarchie civili, gli oligarchi si sottomettono e sono in pratica indociliti dallo stesso sistema di leggi che protegge le loro proprietà.
Non tutte le teorie dell’oligarchia mettono in evidenza il nesso fra potere e ricchezza. Sotto l’influenza della teorie delle élite, alcuni si concentrano più sulle organizzazioni che sugli individui che ne fanno parte. Chen (2008: 637) sostiene che un’organizzazione è oligarchica
“se la sopravvivenza dell’organizzazione e gli interessi dei leader si sostituiscono agli obiettivi dell’organizzazione”.
Leach (2005:329), sulla scia della tradizione dei movimenti sociali, espande la definizione di oligarchia fino a comprendere tutte le situazioni in cui una qualche minoranza organizzata domina la maggioranza delle persone. La sua formulazione è centrata sul grado di legittimità della leadership e sulla possibilità o meno di sostituire i leader. Leach definisce l’oligarchia:
una concentrazione di autorità e/o capacità d’influenza che è illegittima e radicata e che si trova nelle mani di una minoranza, concentrazione che permette il prevalere dell’opinione di tale minoranza anche quando è in aperto contrasto con i desideri della maggioranza (indipendentemente dal fatto che questi desideri siano stati espressi attivamente o passivamente).
In questa definizione, il fondamento del potere della minoranza non conta. Ciò che conta è l’esistenza di un conflitto d’interessi tra i pochi e i molti, un conflitto d’interessi dove sono i pochi a prevalere sistematicamente. I conflitti fra ricchi e poveri sono un esempio di conflitto fra i pochi e i molti, ma la definizione appena riportata si applica a qualsiasi situazione nella quale una minoranza organizzata prevale sistematicamente sui desideri della maggioranza. Questo fenomeno potrebbe venir chiamato elitismo “nocivo”, per distinguerlo dalle situazioni relativamente innocue in cui le élite rappresentano fedelmente e portano avanti ciò che vogliono le maggioranze. Le patologie emergerebbero solo quando le minoranze potenti agiscono a proprio favore e contro i più. Un approccio di questo tipo ha però diverse limitazioni. Uno dei problemi riguarda l’illegittimità dei leader. Leach sostiene che le minoranze che controllano un’organizzazione o una collettività sono illegittime solo se le maggioranze ritengono di essere oppresse e solo se allo stesso tempo ci sono sintomi di resistenza a tale oppressione. Un’altra limitazione riguarda l’ampiezza della definizione: essa non dà modo di distinguere tra forme di potere oligarchiche e forme di potere elitistiche. Gli oligarchi sarebbero semplicemente un tipo di élite, per quanto un tipo nocivo. Più che definire l’oligarchia, questo approccio la elimina, facendola sparire all’interno di una teoria delle élite.
L’argomento più robusto contro questo mescolamento di categorie è che una teoria materialista delle oligarchie ci aiuta a spiegare perché un grado maggiore di partecipazione non si traduca sempre nella sconfitta del potere minoritario – il che suggerisce che ha senso distinguere nettamente tra oligarchie ed élite, in modo da potersi concentrare su questa differenza. L’evidenza dimostra chiaramente che la partecipazione delle maggioranze è un antidoto potente contro forme di potere elitistiche e contro l’esclusione, antidoto che però non funziona contro il potere e l’influenza degli oligarchi. La partecipazione politica della società civile, l’attivismo delle assemblee locali e la mobilitazione dal basso sono freni importanti al potere e all’autonomia delle élite. Questi meccanismi non hanno però un effetto paragonabile sulle oligarchie. Le democrazie capitalistiche combinano forme diffuse di potere politico, basate sul suffragio universale e la libertà d’espressione, con forme di concentrazione del potere basate sulla ricchezza.
Dal momento che il potere degli oligarchi è basato sulla ricchezza, è proprio la distribuzione della ricchezza, piuttosto che l’inclusione partecipativa, che può contrastare il loro potere. Gli oligarchi ci sono sia in sistemi che prevedono un’ampia partecipazione delle masse, sia in sistemi che non la prevedono – sebbene la natura dell’oligarchia, e in particolare le forme specifiche della politica di wealth defense che le oligarchie mettono in atto possano variare anche drammaticamente da contesto a contesto. Ciò spiega perché ci siano oligarchie all’interno di sistemi politici molto diversi, e spiega la capacità delle oligarchie di adattarsi e persistere a dispetto di transizioni politiche anche radicali (come per esempio la transizione da dittatura a democrazia), e spiega anche come sia possibile che le diseguaglianze nella ricchezza possano aumentare anche là dove il sistema politico diventi più democratico e partecipativo.
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