Stiglitz non è certo il primo a sostenerlo [si veda sotto il video denuncia di Unite Squeezed Britain] ma ora, il teorema del premio nobel per l’economia dimostra l’esistenza della correlazione tra l’aumento dell’Indice di Gini (indice di diseguaglianza) e la diminuzione degli investimenti, dunque la stagnazione della crescita economica.
Come bene illustrato nell’articolo di Vladimiro Giacché (in coda) si tratta della terza confutazione consecutiva agli assunti di base dell’economia mainstream, dopo quella della tesi che il taglio del deficit abbia una modesta ricaduta (o,50%) sul PIL e la denuncia dell’errore di Rogoff e Rheingold nei calcoli a sostegno della tesi che l’oltrepassamento della soglia del 90% nel rapporto deficit/PIL inneschi la recessione economica.
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Roberto Petrini, Repubblica del 31 maggio 2013
È la diseguaglianza il vero killer del Pil. Nei paesi dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri il Prodotto interno lordo segna il passo e, a volte precipita. Nelle nazioni dove si estende una grande middle class si affaccia invece la prosperità. Il premio Nobel Joseph Stiglitz rompe gli indugi e formalizza in un vero e proprio teorema, come egli stesso lo definisce, la sintesi degli studi che conduce da anni.
Il teorema di Stiglitz dal fronte keynesiano getta una bomba oltre le trincee liberiste. Si fonda sul meccanismo di quella che gli economisti chiamano «propensione al consumo»: i ricchi ce l’hanno più bassa del ceto medio, dunque se la distribuzione del reddito li favorisce lo shopping, contrariamente a quanto si potrebbe pensare intuitivamente, si deprime. E’ invece il ceto medio a consumare quasi tutto quello che ha in tasca e a spingere Pil ed economia, quando la distribuzione del reddito lo favorisce. La prova? Il grafico di Stiglitz è inattaccabile: quando i ricchi (ovvero l’ 1 per cento più ricco della popolazione) si è appropriano del 25 per cento del reddito scoppia la «bomba atomica economica».
E’ successo con la Grande Crisi degli Anni Trenta e con la Grande Recessione di questo secolo. Altro che teorie liberiste che hanno segnato gli ultimi trent’ anni:
«Gli apologeti della diseguaglianza sostengono che dare più soldi ai più ricchi – scrive Stiglitz nella sua relazione – sarà un vantaggio per tutti, perché porterebbe ad una maggiore crescita. Si tratta di una idea chiamata “trickle-down economics” (economia dell’ effetto a cascata). Essa ha un lungo pedigree e da tempo è stata screditata».
L’ occasione per presentare gli straordinari risultati delle ricerche di Stiglitz in una sorta di anteprima mondiale, è il convegno organizzato a Roma dalla Sieds (la Società italiana di economia, demografia e statistica), cominciato ieri, dove il premio Nobel invierà le considerazioni conclusive, scritte a quattro mani, con il suo più stretto collaboratore italiano dell’ Università Politecnica delle Marche, Mauro Gallegati.
Così il mainstream va nell’angolo. Il teorema è chiaro e lucido come una formula chimica o una relazione fisica: se l’indice di Gini (ovvero l’ indicatore di diseguaglianza inventato da un economista italiano, appunto Corrado Gini) aumenta, dunque aumenta la diseguaglianza, il «moltiplicatore» degli investimenti diminuisce e dunque il Pil frena.
L’equazione di Stiglitz rischia di essere il terzo colpo agli assunti della teoria economica dominante ormai vacillanti. Il primo è stato nei mesi scorsi quello che ha messo in crisi il «dogma» dell’ austerità: l’ Fmi ha infatti calcolato che il taglio del deficit di 1 può ridurre il Pil di 2 e non solo – come si credeva fino ad oggi – di mezzo punto. L’ altro colpo mancino è stato quello che ha smontato, smascherando un errore «Excel», la teoria del debito di Rogoff e Reinhard secondo la quale oltre il 90 per cento nel rapporto con il Pil porta inevitabilmente alla recessione.
Ma il nuovo assalto di Stiglitz rischia di essere ancora più pericoloso rispetto alle tesi dello status quo economico. La diseguaglianza infatti per il premio Nobel, fiacca fino ad uccidere il Pil, non solo per via della caduta dei consumi ma anche perché il sistema è «inefficiente» se prevalgono rendite e monopoli. «Spesso la caccia alla rendita – concludono Stiglitz e Gallegati – comporta un vero spreco di risorse che riduce la produttività e il benessere del paese».
Valdimiro Giacché, Gli errori degli economisti 2.0
Nelle ultime settimane è diventato di dominio pubblico che su due argomenti chiave (rapporto tra debito pubblico e crescita e relazione tra produttività e andamento dei salari) i dati usati per giustificare le politiche adottate in Europa erano sbagliati, incompleti o esposti in modo tendenzioso. Ecco perchè sono necessari centri di ricerca, e anche un sistema dell’informazione, realmente indipendenti.
Il rapporto dell’opinione pubblica e della politica con gli economisti, nel corso di questa lunga crisi, è stato contraddittorio e altalenante.
Per un verso non ha giovato alla buona fama degli economisti il fatto di aver ignorato (salvo pochi lodevoli casi) la gravità della crisi e di non averne inteso le vere cause. Nel 2008 fu la stessa regina d’Inghilterra a porre a un’imbarazzata platea di economisti la fatidica domanda: “perché nessuno si è accorto dell’arrivo di questa crisi?”. Le risposte avute non devono essere state troppo convincenti, se nel dicembre dello scorso anno, durante una visita alla Banca d’Inghilterra, è tornata sull’argomento osservando, con un tono che a qualcuno è apparso ironico, che “è davvero difficile prevedere le crisi”. D’altra parte, molte delle politiche adottate per contrastare la crisi in Europa – e che in realtà l’hanno aggravata – si sono avvalse di una copertura teorica fornita da economisti e centri studi.
Nelle ultime settimane, però, sono avvenuti alcuni episodi che hanno sollevato in modo esplicito il problema del controllo sulla qualità di questi dati e di queste ricostruzioni teoriche.
Si è infatti scoperto che, almeno su due argomenti chiave, rapporto tra debito pubblico e crescita e relazione tra produttività e andamento dei salari, i dati usati per giustificare le politiche adottate in Europa erano sbagliati, incompleti o esposti in modo tendenzioso. Vediamo.
Caso 1. La “legge del 90%”. Possiamo definire così la correlazione tra alto debito e bassa crescita resa famosa da un bestseller economico sulla crisi scritto da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff: un rapporto debito/pil superiore al 90% – questa la loro tesi – sarebbe indissolubilmente legato a una bassa crescita. Conseguenza pratica: per far ripartire la crescita bisogna abbattere il debito pubblico. Anche se nell’immediato la cosa avesse conseguenze negative sui redditi personali (e quindi sulla domanda interna e per questa via sulla crescita), questo sarebbe comunque benefico nel lungo periodo. Questa “legge” ha circolato molto negli ultimi anni, e ha rappresentato uno dei più citati argomenti in favore delle politiche di austerity. Bene, recentemente due professori della University of Massachusetts, Robert Pollin e Michael Ash, hanno affidato a un loro studente, Thomas Herndon, il compito di rifare i calcoli sulla base dati considerata da Reinhart e Rogoff. I risultati, pubblicati il 15 aprile 2013 in un saggio che ha subito fatto il giro del mondo, sono stati decisamente sorprendenti. Le medie erano sbagliate: a causa dell’esclusione arbitraria di alcuni dati, di un modo non corretto di ponderazione dei dati e – dulcis in fundo – per un errore di codice nel foglio excel adoperato. Rifatti i calcoli, si è scoperto che i paesi con debito superiore al 90% del prodotto interno lordo non vedono un calo del pil, ma una sua crescita media del 2,2%! Reinhart e Rogoff hanno ammesso pubblicamente l’errore. Lo stesso non ha fatto però il commissario europeo Olli Rehn, il quale aveva affermato: “è ampiamente riconosciuto, sulla base di una seria ricerca scientifica, che quando i livelli di debito pubblico salgono oltre il 90% tendono a presentare una dinamica economica negativa, la quale si trasforma in bassa crescita per molti anni”.
Caso 2. “Per far crescere la competitività bisogna ridurre i salari”. In occasione del Consiglio Europeo del 14 marzo 2013, il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ha effettuato una presentazione su “Situazione economica dell’eurozona e i fondamenti della crescita”. Tra i grafici presentati, alcuni mettono a confronto produttività e crescita dei salari. Risultato: in tutti i paesi in deficit (tra cui l’Italia) i salari sono aumentati molto di più della produttività del lavoro. Ergo, la chiave per risolvere i problemi di competitività in Europa è ridurre i salari. Piccolo problema: la crescita dei salari esposta nei grafici è espressa in termini nominali (cioè senza tener conto dell’inflazione), mentre quella della produttività è espressa in termini reali (cioè tenendo conto dell’inflazione). In questo modo, ovviamente, si sovrastima la crescita dei salari. Ma soprattutto si rappresenta come un mondo ideale quello in cui i salari scendono permanentemente in termini reali: infatti, anche considerando il tasso d’inflazione “regolare” secondo la BCE, quello pari all’1,9%, proiettato su 10 anni diventa un’inflazione pari a circa il 20%. E se configuro i miei grafici senza tenerne conto, una crescita dei salari nominali del 20% in dieci anni sembrerà un inaccettabile frutto dell’esosità dei lavoratori, anziché quello che è veramente: una crescita zero dei salari reali, ossia la semplice conservazione del potere d’acquisto di 10 anni prima. Ciò che è peggio, sembra che questa presentazione di Draghi abbia avuto l’effetto di tacitare Hollande nel Consiglio Europeo di marzo, “dimostrandogli” che il problema in Europa non sono le politiche di austerity e il dumping salariale tedesco, ma – al contrario – il lusso immotivato in cui vivrebbero i lavoratori dei paesi latini. La circostanza è stata notata da Andrew Watt, dell’Institut für Makroökonomie und Konjunkturforschung, secondo il quale la presentazione di Draghi sarebbe illuminante da un solo punto di vista: perché farebbe luce sull’ideologia del suo autore.
Conclusioni. Cosa concludere da tutto questo? La prima considerazione da fare riguarda la necessità, per l’opinione pubblica, di una considerazione critica dei dati che le vengono proposti. A questo scopo è necessaria l’opera di centri di ricerca, e anche di un sistema dell’informazione, realmente indipendenti.
“Indipendenza” significa non soltanto indipendenza dal potere politico, ma anche dal potere economico e finanziario. Sembra evidente che, nei nostri paesi sia precisamente questa la condizione difficile da assolvere. Questo vale, spesso e volentieri, anche per le università, che sempre più di frequente sono costrette dai vincoli di bilancio ad accettare generose sponsorizzazioni private, quando non a istituire cattedre finanziate dal big business e a produrre ricerche finalizzate a premere su governi e parlamenti per ottenere una legislazione più favorevole ai committenti.
Ma l’indipendenza più importante, in fondo, è ancora un’altra. È quella nei confronti dei dogmi del “pensiero unico” neoliberista che si è affermato dagli anni Novanta in poi. È precisamente l’obbedienza nei confronti di quei dogmi che può indurre ad accettare come plausibili ricostruzioni non sufficientemente fondate, o a forzarne le conclusioni per restare in linea con l’ortodossia.
È uno schema che abbiamo già visto in opera in passato, nei paesi dell’Est europeo. Non è andata a finire bene.
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