Karl Marx, La cacciata dei contadini dalla terra

by gabriella

Dalle prime recinzioni descritte da Thomas More nel XVI secolo, alla massiccia espulsione dei contadini dalla terra del XVII e XVIII secolo. Marx fotografa questo momento fondativo del capitalismo che, nel primo libro del Capitale (sez. 24), chiama accumulazione originaria.

La sua tesi è che il modo di produzione capitalistico (cioè “moderno”, per usare il lessico attuale della sociologia), basato sullo sfruttamento del lavoro e l’accumulazione del profitto (capitale) si sviluppa sulla base di due condizioni: 1. la liberazione del lavoro dalla servitù feudale (nella quale il contadino era legato alla terra) e la nascita del lavoro salariato (in cui il proletario diventa libero di vendere le sue braccia per un salario) e 2. l’espulsione dei contadini dalla terra (con la prima pauperizzazione delle classi popolari, espropriati della capacità autonoma di reddito, legata al lavoro servile e alle libertà comunali).  

«Fu così che i contadini, dapprima espropriati con la forza delle proprie terre, cacciati dalle proprie case, trasformati in vagabondi e poi frustati, marchiati, torturati in base a leggi grottescamente terribili, furono condotti alla disciplina necessaria per il sistema salariale»

Karl Marx, Il capitale, I, VII.

La struttura economica della società capitalistica è uscita dal grembo della struttura economica della società feudale. La dissoluzione di questa ha messo in libertà gli elementi di quella.

Il produttore immediato, o diretto, cioè l’operaio, poteva disporre della sua persona solo dopo aver cessato d’essere legato alla gleba, e servo di un’altra persona o infeudato ad essa. Per divenire libero venditore di forza lavoro, che porta la sua merce dovunque essa trovi un mercato, doveva inoltre sottrarsi al dominio delle corporazioni di mestiere, delle loro clausole sugli apprendisti e sui garzoni, dei vincoli delle loro prescrizioni sul lavoro.

Così il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati appare da un lato come loro liberazione dalla servitù feudale e dalla coercizione corporativa; e, per i nostri storiografi borghesi, è questo il solo lato che esista. Ma dall’altro, i neo-emancipati diventano venditori di se stessi solo dopo di essere stati depredati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie offerte alla loro esistenza dalle antiche istituzioni feudali […] Il punto di partenza dello sviluppo che genera tanto l’operaio salariato, quanto il capitalista, fu la servitù del lavoratore. Il suo prolungamento consistette in un cambiamento di forma di tale servitù, nella trasformazione dello sfruttamento feudale in sfruttamento capitalistico […] L’espropriazione del produttore agricolo, del contadino, dal possesso del suolo, costituisce la base dell’intero processo. La sua storia prende sfumature diverse nei diversi paesi e percorre le diverse fasi in ordini di successione diversi e in epoche storiche differenti. Solo in Inghilterra, che quindi prendiamo ad esempio, essa possiede forma classica […]

Nell’ultima parte del secolo XIV, in Inghilterra la servitù della gleba era di fatto scomparsa. L’enorme maggioranza della popolazione consisteva allora, e ancor più nel secolo XV, di liberi coltivatori diretti, sotto qualunque blasone feudale la loro proprietà potesse nascondersi. Sui maggiori fondi signorili, il bailiff (castaldo) un tempo anch’egli servo della gleba, era stato soppiantato dal libero fittavolo. Gli operai salariati dell’agricoltura consistevano in parte di contadini che mettevano a frutto il loro tempo libero lavorando presso grandi proprietari fondiari, in parte di una classe indipendente, poco numerosa sia relativamente che in assoluto, di veri e propri salariati. Di fatto, anche questi erano nello stesso tempo piccoli contadini indipendenti, perché oltre al salario ricevevano 4 o più acri di terreno coltivabile e un cottage. Inoltre partecipavano coi veri e propri contadini all’usufrutto delle terre comuni sulle quali il loro bestiame pascolava e che fornivano loro il combustibile; legna, torba, ecc.c […]

I primi albori del rivolgimento che creò la base del modo di produzione capitalistico si hanno nell’ultimo terzo del secolo XV e nei primi decenni del XVI. Lo scioglimento dei seguiti feudali, che, come osserva giustamente sir James Steuart, «riempivano dovunque inutilmente casa e castello», gettò sul mercato del lavoro una massa di proletari senza terra e dimora […] il grande signore feudale creò un proletariato incomparabilmente più numeroso, scacciando con la violenza i contadini dal suolo sul quale essi avevano il medesimo titolo di diritto feudale, ed usurpandone le terre comuni. A questo sviluppo in Inghilterra diedero l’impulso immediato principalmente la fioritura della manifattura laniera nelle Fiandre e il conseguente aumento dei prezzi della lana. Le grandi guerre feudali avevano inghiottito la vecchia nobiltà feudale; la nuova era figlia del proprio tempo, vedeva nel denaro il potere di tutti i poteri. Trasformazione degli arativi in pascoli da ovini fu, quindi, la sua parola d’ordine.

HarrisonHarrison, nella sua Description of England. Prefixed to Holinshed’s Chronicles descrive come l’espropriazione dei piccoli contadini mandi a catafascio il paese. «What care our great incroachers» (Che gliene importa ai nostri grandi usurpatori?). Le abitazioni dei contadini e i cottages dei lavoratori vennero abbattuti con la violenza, o abbandonati a lenta rovina.

«Chi voglia confrontare i più antichi inventari di qualunque maniero», dice Harrison «troverà che sono scomparse innumerevoli case e piccole proprietà contadine, che la terra nutre molte meno persone, e che molte città sono decadute benché ne fioriscano di nuove… Potrei narrare qualche cosa di città e villaggi, che sono stati distrutti per farne pascoli e in cui rimangono ormai soltanto le abitazioni dei signori».

Per quanto sempre esagerate, le lamentele di quelle vecchie cronache rispecchiano fedelmente l’impressione sui contemporanei della rivoluzione avvenuta nei rapporti di produzione […]. Di questo rivolgimento la legislazione si intimorì […] Una legge di Enrico VII, 1489, c. 19, vietò la distruzione di ogni casa colonica alla quale appartenessero almeno 20 acri di terreno […] Le lagnanze popolari, e la legislazione contro l’espropriazione dei piccoli affittuari e contadini, che dura per 150 anni da Enrico VII in poi, rimasero egualmente infruttuose […].

La proprietà comune – ben distinta dalla proprietà statale or ora considerata – era un’autentica istituzione germanica sopravvissuta sotto il manto del feudalesimo. Si è visto come la sua violenta usurpazione, per lo più accompagnata dalla trasformazione di arativi in pascoli, abbia inizio alla fine del secolo XV e si prolunghi nel secolo XVI. Ma allora il processo si compì come atto di violenza individuale invano osteggiato per 150 anni dalla legislazione; il progresso del secolo XVIII, invece si manifesta nel fatto che la stessa legge diventa il veicolo del furto di terre del popolo, benché i grandi fittavoli non cessino parallelamente di servirsi dei loro piccoli e indipendenti metodi privati. La forma parlamentare della rapina è quella dei Bills for Inclosures of Commons (leggi per la recinzione di terre comuni): insomma, decreti in virtù dei quali i proprietari terrieri fanno dono a se stessi, proprietà privata, di suolo pubblico; decreti di espropriazione del popolo […]

 

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