Tratto da Per un nuovo occidente che raccoglie testi di Polany scritti dal 1919 al 1958 [Il Saggiatore, 2013]. Grazie a Ilaria Monti per la segnalazione.
La società nella quale viviamo, a differenza delle società tribali, ancestrali o feudali, è una società di mercato.
L’istituzione del mercato costituisce qui l’organizzazione di base della comunità. Il legame di sangue, il culto degli antenati, la fedeltà feudale sono sostituiti dalle relazioni di mercato. Una siffatta condizione è nuova, in quanto un meccanismo istituzionalizzato offerta/ domanda/ prezzo, ossia un mercato, non è mai stato nulla più che una caratteristica secondaria della vita sociale.
Al contrario, gli elementi del sistema economico si trovavano, di regola, incorporati in sistemi diversi dalle relazioni economiche, come la parentela, la religione o il carisma. I moventi che spingevano gli individui a prendere parte alle istituzioni economiche non erano, solitamente, di per sé «economici », ossia non derivavano dal timore di rimanere altrimenti privi degli elementari mezzi di sussistenza. Quel che era ignoto alla maggior parte delle società – o meglio a tutte le società, a eccezione di quelle del laissez-faire classico, o modellate su di esso – era esattamente la paura di morire di fame, quale specifico stimolo individuale a cacciare, raccogliere, coltivare, mietere.
Infatti, la produzione e la distribuzione di beni materiali e servizi nella società non sono mai state organizzate, prima del XIX secolo, attraverso un sistema di mercato. Quest’innovazione prodigiosa fu realizzata includendo i fattori della produzione, il lavoro e la terra, all’interno di quel sistema.
Il lavoro e la terra furono essi stessi trasformati in merci, cioè, vennero regolati come se si trattasse di beni prodotti per la vendita. Ovviamente essi non costituivano vere e proprie merci, dal momento che o non erano stati affatto «prodotti» (come la terra), o, comunque, non lo erano «per la vendita» (come il lavoro). La reale entità di un siffatto mutamento può essere misurata se si ricorda che il «lavoro» è soltanto un altro nome per l’uomo, come la «terra» lo è per la natura.
La costruzione fittizia della merce consegnò il destino dell’uomo e della natura alle dinamiche di un automa, che si muove sui propri binari ed è governato unicamente dalle proprie leggi. L’economia di mercato creò così un nuovo tipo di società. Il sistema economico o produttivo fu affidato a un dispositivo autoregolantesi. Un meccanismo istituzionale controllava tanto le risorse della natura quanto gli esseri umani nelle loro attività quotidiane.
In questo modo venne a esistenza una «sfera economica», la quale era nettamente separata dalle altre istituzioni sociali. Poiché nessuna comunità umana può sopravvivere senza un apparato produttivo funzionante, ciò ebbe l’effetto di trasformare il «resto» della società in una mera appendice di tale sfera. Questa sfera autonoma, ripetiamo, era regolata da un meccanismo che controllava il suo funzionamento. Di conseguenza, quel meccanismo di controllo divenne determinante per la vita dell’intera compagine sociale. Non v’è da stupirsi che l’aggregazione umana emergente fosse «economica » a un livello al quale in precedenza non ci si era mai nemmeno avvicinati. I «moventi economici» regnavano allora supremi nel loro proprio mondo; l’individuo era costretto ad agire secondo la loro logica, a pena della propria estinzione.
In realtà, l’individuo non è mai stato così egoista come preteso dalla teoria. Benché il meccanismo di mercato renda manifesta la sua dipendenza dai beni materiali, le motivazioni «economiche» non hanno mai costituito per l’uomo l’unico incentivo al lavoro. Invano gli economisti e i moralisti utilitaristi lo hanno esortato a non considerare negli affari se non motivazioni di carattere economico, ad esclusione di tutte le altre. Osservando più da vicino il suo comportamento, è apparso evidente, tutt’al contrario, come questo rispondesse ad una serie di motivazioni di natura significativamente «composita », ivi comprese quelle derivanti dal senso del dovere verso se stesso e verso gli altri (e forse, persino, godendo in segreto del lavoro come fine in sé).
Tuttavia, non dobbiamo qui occuparci dei moventi reali, ma soltanto di quelli presunti, dal momento che le teorie sulla natura umana non sono fondate sulla psicologia, bensì sull’ideologia della vita quotidiana. Di conseguenza, la fame e il profitto vennero isolati come «moventi economici» e si iniziò a presumere che l’uomo agisse, in concreto, in base a essi, mentre le altre motivazioni apparivano più eteree e distaccate dai fatti prosaici dell’esistenza quotidiana. L’onore e l’orgoglio, il senso civico e il dovere morale, persino il rispetto di sé e la comune decenza, furono ora ritenuti irrilevanti per i rapporti produttivi e significativamente compendiati nella parola «ideale». Si ritenne, perciò, che nell’uomo fossero presenti due elementi, uno maggiormente attinente alla fame e al profitto, l’altro all’onore e al potere. L’uno «materiale», l’altro «ideale»; l’uno «economico», l’altro «non economico»; l’uno «razionale», l’altro «non razionale».
L’immagine dell’uomo e della società risultante da tale premessa era la seguente. Rispetto all’uomo, fummo indotti ad accettare la teoria per cui i suoi moventi possono essere descritti come «materiali » e «ideali» e gli stimoli, sulla base dei quali è organizzata la vita quotidiana, derivano dai moventi «materiali». Rispetto alla società, fu propugnata una tesi analoga, secondo la quale le sue istituzioni sono «determinate» dal sistema economico. In un contesto di economia di mercato entrambe le asserzioni erano, ovviamente, vere. Ma soltanto all’interno di un simile assetto economico.
Rispetto al passato, tale prospettiva era nulla più che un anacronismo. Rispetto al futuro, essa era un mero pregiudizio. Ciò perché questo nuovo mondo dei «moventi economici» era basato su un errore. Intrinsecamente, la fame e il profitto non sono più «economici » dell’amore o dell’odio, dell’orgoglio o del pregiudizio. Nessun movente umano è di per sé economico. Non esiste alcuna esperienza economica sui generis, nello stesso senso in cui l’uomo può avere esperienze religiose, estetiche o sessuali, che diano origine a moventi i quali tendano globalmente a suscitare esperienze simili. Questi termini non hanno alcun significato immediato in relazione alla produzione materiale.
Così vacue sono, pertanto, le fondamenta del determinismo economico. I fattori economici influenzano il processo sociale (e viceversa) in innumerevoli modi; tuttavia, in nessun caso, se non sotto un sistema di mercato, i suoi effetti si rivelano più che limitanti. Né la sociologia, né la storia contraddicono questo assunto. E gli antropologi negano, a ragione, che la particolare connotazione di una determinata cultura sia dipendente dall’assetto tecnologico o persino dall’organizzazione economica.
Non spetta all’economista, ma al moralista e al filosofo, decidere quale tipo di società debba essere ritenuta desiderabile. Una cosa abbonda in una società industriale, e cioè il benessere materiale, oltre il necessario. Se, in nome della giustizia e della libertà di restituire significato e unità alla vita, fossimo mai chiamati a sacrificare una quota di efficienza nella produzione, di economia nel consumo, o di razionalità nell’amministrazione, ebbene una civiltà industriale potrebbe permetterselo. Il messaggio degli storici dell’economia ai filosofi dovrebbe essere, oggi, il seguente: possiamo permetterci di essere, allo stesso tempo, giusti e liberi [Traduzione di Giorgio Resta].
Pier Luigi Fagan, E’ ora di ridiscutere il nostro contratto sociale
La recensione di Pier Luigi Fagan agli inediti di Karl Polanyi 19-58 pubblicati da Il Saggiatore.
E’ uscito di recente Per un nuovo Occidente, edito da Il Saggiatore. Una collezione di scritti inediti, prodotti tra il 1919 ed il 1958, che risulta un ottimo compendio sintetico alle tesi polanyiane, già prodotte nella Grande trasformazione (1944), Traffici e mercati negli antichi imperi (1957), Economie primitive, arcaiche e moderne (1968), La sussistenza dell’uomo (1977).
Ecco in breve, l’articolazione del pensiero di questo grande studioso:
1. Ciò che chiamiamo capitalismo è una forma di economia ordinata dal mercato, mercato non solo dei beni, ma anche della terra (natura) e del lavoro (uomo).
7. Esistono almeno due occidenti. Quello anglosassone (inglese, britannico, nord-americano) che è la culla storica di questo assetto di società di mercato e la cui forma politica è la democrazia liberale e quello continentale (europeo) la cui forma politica è la democrazia egalitaria. Tra uguaglianza e libertà, sino ad oggi, è esistito un conflitto di compatibilità.Ne segue la speranza di poter impiantare un nuovo Occidente. Un Occidente democratico, pluralista, centrato su i valori umani della libertà, sulla giustizia sociale, su una comunità di cultura, aperto al dialogo ed all’interrelazione paritaria con le altre civilizzazioni, ovvero il simmetrico contrario di ciò che l’Occidente sta diventando nella nostra contemporaneità. La forma economica di questa possibile nuova condizione, dovrebbe essere quella di un diverso tipo di economia di mercato basata su una forma di socialismo cooperativo, ri-embedded in una società governata dal principio politico democratico. Non c’è tanto quindi un ricetta economica specifica per originare il cambiamento, il vero cambiamento si avrà soltanto quando il fatto economico tornerà ad essere dominato dalla società, dal suo fatto politico.
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Nel libro c’è anche di più. Una serrata ed inesorabile critica al determinismo economicista che secondo Polanyi purtroppo unisce tanto la posizione liberale che quella marxista. La distruzione di quegli insostenibili assiomi sull’homo oeconomicus che sostengono l’impianto dell’economia utilitaristica neo-classica e contemporanea, assiomi per altro oggi erosi anche dai convincimenti della nuova economia comportamentale e cognitiva (H.Simon, D.Kahneman, V.Smith, R.J.Shiller). La valorizzazione di quella antropologia economica (da Thurnwald a Malinowski a Boas, poi ripresi da Mauss e Caillè oggi alla base dell’antropologia dell’economia della decrescita) che dimostrò l’esistenza passata di forme economiche perfettamente funzionanti anche senza il paradigma del mercato moderno. La valorizzazione dello sguardo istituzionale, sostanziale (cosa l’economia è) e non formale (come l’economia funziona), come base per il sapere economico. Valorizzazione oltretutto necessaria per uscire dal grave errore di leggere l’economia passata (ogni altra forma possibile del fatto economico) secondo i paradigmi di quella presente, errore che riporta ad un certo determinismo evolutivo che vorrebbe il capitalismo come una forma progredita delle forme economiche come se queste esistessero in sé per sé. Polanyi chiama questa “fallacia economicista”, oggetto di un altro libro edito da Jaca Book nel 2011, Il sofisma economicista, con contributi di Alain Caillé, J.-L. Laville e J. Maucourant. Sguardo istituzionale che oltretutto permette di leggere con chiarezza, quanto questo sistema fosse dipendente per il suo impianto e sviluppo, dal potere politico-pubblico-statuale, diversamente da quanto sostenuto dai corifei liberali. Modo di concepire l’economia come un frame dell’umano e del sociale, da illuminare coi saperi antropologici, psicologici, sociologici, della scienza politica e non solo con la grigia luce della perfezione formale algoritmica di quell’economia che si vuole “scienza”.
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Walter Benjamin ha ben illustrato la dimensione religiosa che il totalitarismo economicista ha preso pur partendo da presupposti originari di estrema razionalità e liberalità e sentiamo oggi tutti la mancanza di un Feuerbach che critichi in profondo questo ennesimo riproporsi della fede irrazionale alla base delle nostre “credocrazie” poco liberali e molto liberiste. Il pensiero di Polanyi ci può aiutare ad immaginare un futuro occidentale che non sia lucrativo, orientato al profitto, egoista, individualista, competitivo, combattivo, gerarchico, alienante, ossessionatamente esibitivo (in omaggio a T.Veblen), ingiusto. Questo pensiero ha il suo fulcro nella rimozione del concetto di mercato come principio ordinatore del nostro vivere assieme (non del mercato tout court ma del suo ruolo di ordinatore “unico” della convenzione sociale), un mercato a cui, nella parole dell’ungherese:
“manca l’organo per capire come si forma la salute, il riposo, l’essere spirituale e morale dei produttori e di chi risiede intorno ai luoghi di produzione, come il bene generale è favorito o pregiudicato da questo o quell’orientamento della produzione o del modo di produzione attraverso i loro lontani effetti retroattivi. Ancora meno riesce a favorire i fini positivi del bene generale: le mete spirituali, culturali e morali della comunità, in quanto la loro realizzazione dipende di mezzi materiali. Infine deve rinunciare completamente dove gli obiettivi economici toccano i fini generali dell’umanità, come l’aiuto internazionale e la pace dei popoli” [K.Polanyi, La libertà in una società complessa, Bollati Boringhieri, Torino, 1987, pg.19].
Se il mercato va in crisi e come abbiamo detto, va in crisi quasi sempre per ragioni legate allo scenario internazionale, la priorità diventa proteggere la società. Favorire le forme di reciprocità, riattivare la redistribuzione, secondo il figlio Karl Polanyi-Levitt (economista, professore a Montreal) il padre avrebbe senz’altro approvato la redistribuzione di un quoziente del prodotto sociale come diritto di cittadinanza, difendere i beni pubblici globali, riprendere il controllo sulle banche e su i movimenti di capitale.
Ma, aggiungiamo noi, ci sembra che la natura strutturale ed irreversibile di questa profonda crisi del capitalismo occidentale dovrebbe portare a ripensamenti ancor più profondi. La riduzione dell’orario di lavoro come redistribuzione del lavoro stesso ad esempio. Ma più ancora, una convinta ripresa dell’impegno di tutti a riattivare la democrazia, la partecipazione, la conoscenza, l’impegno a riportare l’economia, gli economisti, i banchieri, i rentier e gli speculatori, sotto il dominio della società, del nostro stare assieme secondo un nuovo regolamento.
E’ giunta l’ora di ridiscutere il nostro contratto sociale, se vogliamo che l’Occidente sopravviva ai tempi nuovi.
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