Tratto da Angela Frulli Antiocchieno, Mestieri da donna. Le italiane al lavoro tra ‘800 e ‘900, Venezia, 2002.
Le filande erano opifici importanti in cui i bozzoli del baco da seta venivano trasformati in matassa di seta. Gli stabilimenti erano collocati in vari comuni settentrionali. Le filande rappresentavano l’unica possibile realtà occupazionale per molte donne ed in esse trovavano lavoro, di regola, anche bambine di circa dodici anni. Le operaie di una filanda dette filandale avevano compiti diversi ed erano, pertanto, suddivise in tre categorie: batusèti, tacarèni, filèri.
Le prime erano bambine inesperte, al primo lavoro, che avevano il compito di immergere i bozzoli in vasche piene di acqua bollente e, con l’ausilio di una piccola spazzola, trovare il filo iniziale del bozzolo, per poi darlo alle filèri. Queste dovevano inserire i numerosi fili di seta nelle filiere, sorvegliando che tutto procedesse nel migliore dei modi. Le filèri erano poi aiutate dalle tacarèni, che avevano il compito più arduo, cioè quello di riannodare i capi in fretta e con mani esperte quando, durante il passaggio nelle filiere, i fili si rompevano.
Se il lavoro riusciva male, si applicava una sospensione che andava da due, a tre a otto giorni, a seconda della gravità del danno. Si trattava di una punizione molto dura per le povere operaie, specialmente per le madri che avevano una famiglia da mantenere o da aiutare. II salario oscillava da 45 a 90 centesimi al giorno, a seconda dell’abilità e dell’anzianità delle operaie; per le aiutanti invece, era di 40-45 centesimi; le bambine con meno di dodici anni prendevano 20 centesimi e lavoravano solo mezza giornata. Queste ultime, durante i rari controlli da parte delle autorità competenti, venivano nascoste e minacciate di licenziamento in caso di lamentela.
Poiché il lavoro in filanda poteva essere svolto da individui senza alcuna preparazione, i proprietari delle filande trovavano facilmente personale da inserire, e la sostituzione di un operaio poteva avvenire, senza particolari difficoltà. Per le filandale, pertanto, il pericolo di perdere il posto era alto e reale, l’instabilità era una situazione sentita, che poteva comportare il venir meno di un salario già misero, ma da cui dipendeva la sussistenza di alcune famiglie.
Le condizioni lavorative si caratterizzavano, oltre che per i bassi salari, per una situazione igienica scadente e per estenuanti orari di lavoro: tutti gli operai addetti alla torcitura della seta, di qualunque età e sesso, lavoravano quasi sempre nei mesi di giugno, luglio, agosto, settembre e molti anche in ottobre, mentre le ore di lavoro variavano, a seconda dei mesi e della richiesta di seta, dalle 11 alle 14 ore e mezza al giorno. Le operaie erano costrette a lavorare in un ambiente afoso, a circa 50 gradi di temperatura. L’aria era carica di un vapore nauseabondo, che tendeva a trasformare l’ambiente in una sorta di stufa permanente; le finestre dovevano rimanere chiuse, per evitare che l’aria spostasse il filo di seta negli aspi e per mantenere un’umidità costante, necessaria a filare la seta. L’ambiente risultava, quindi, costantemente immerso in una nebbia calda, certamente non benefica per la salute delle lavoratrici.
Da una lettera al Prefetto di Meldola del Settembre 1893 si legge che le donne della zona:
“si occupano esclusivamente nell’industria della trattura e filatura della seta. Da tale lavoro le famiglie operaie nostre traggono sufficiente vantaggio economico, ma purtroppo le condizioni in cui si compie, influisce ad alterare lo stato di salute delle nostre classi povere. L’eccessivo calore, l’atmosfera sempre umida, il dovere esercitare le mani sempre nell’acqua quasi bollente, l’immobilità per 12 ore, sono tutte cause, onde abbiasi a danneggiare la salute di quelle operaie e più ancora quella dei loro nati giacché molte di esse seguitano a lavorare fino a che giungono agli ultimi giorni di gestazione.
Da una relazione presentata all’Esposizione Internazionale Operaia di Milano nel 1894, si legge di una indagine svolta a Cremona da parte della Camera del Lavoro della città sulle condizioni igienico sanitarie delle filande. In essa venne evidenziato come l’ambiente malsano ed il genere di lavoro, l’assenza di precauzioni igieniche, i contatti tra individui ammalati ai primi stadi ed individui con organismi debilitati ed esauriti per cattiva alimentazione, favorivano il contagio e la diffusione di malattie quali la tubercolosi. Lo sfruttamento di questa mano d’opera era, inoltre, facilitato dalla scarsa organizzazione sindacale a tutela del lavoro femminile.
Commenti recenti