I filosofi incarnano, da sempre, la libertà di pensiero e il rischio della verità: un fatto di giustizia, non solo di forma logica. La terza questione affrontatata da Filosofia. Corso di sopravvivenza [Milano, Ponte alle grazie, 2001, pp. 9-13] di Girolamo De Michele.
Come Anassimene scriveva a Pitagora: «con che coraggio posso perdere il mio tempo a conoscere il segreto delle stelle, quando davanti agli occhi ho sempre presente o la morte o la schiavitù?», ognuno deve dire così: «Agitato dall’ambizione, dalla cupidigia, dalla temerarietà, dalla superstizione, e avendo dentro di me altri simili nemici della vita, mi metterò a pensare al moto del mondo?».
Michel de Montaigne, Essays, 26
La morte di Giordano Bruno ci ricorda un altro aspetto della filosofia: che è, come recita il titolo di un bel libro di Luciano Canfora, un mestiere pericoloso. Non è una costante, non sempre è così (grandi filosofi sono stati servili e sottomessi al potere), ma capita che con il solo uso del pensiero alcuni filosofi abbiano conosciuto la galera e l’esilio e abbiano rischiato, e a volte perso, la vita: Democrito, Anassagora, Protagora, Socrate, Platone, Seneca, Ipazia, Boezio, Sigieri di Brabante, Dante Alighieri, Guglielmo di Ockham, Niccolò Machiavelli, Giordano Bruno, Galileo Galilei, Giulio Cesare Vanini, Karl Marx, Giuseppe Mazzini, Antonio Gramsci, Camillo Berneri, Walter Benjamin, Theodor W. Adorno, Hannah Arendt, Gùnther Anders, Karl Lowith, Evgenij Bronislavovic Pasukanis, Emmanuel Lévinas, Toni Negri, Paolo Virno, Ramin Jahanbegloo (e molti altri ancora) hanno conosciuto la persecuzione, l’esilio, e anche la morte. Non sempre hanno cercato la persecuzione, ma l’hanno subita.
Com’è possibile che il potere politico e religioso abbia sprecato tempo, risorse ed energie per perseguitare non azioni, ma parole? Che abbia incarcerato i corpi per impedire i concetti? La risposta è nel fatto che i concetti non sono “cose” né parole; non sono degli “stati di fatto”, ma delle possibilità. La filosofia (come l’arte o la matematica) serve a capire la realtà di ciò che è possibile; aiuta a comprendere che è “reale” non solo quello che ci sta davanti (la parola “oggetto”, dal latino objectum, significa per l’appunto questo), ma anche ciò che potrebbe essere, ma ancora non è. E dunque che non c’è un solo mondo, ma diversi mondi; che le cose hanno una ragione, e spesso più d’una, per essere come sono, ma potrebbero essere diverse da quel che sono; che gli “altri”, ad esempio, non sono solo delle realtà, ma dei mondi possibili. Il che, in genere, non piace a chi detiene il potere.
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