La professione di fede del Vicario savoiardo

by gabriella

émileQuesto passo dell’Émile (1762) costò a Rousseau invettive dal pulpito e aggressioni fisiche. Il filosofo lo aveva scritto probabilmente alcuni anni prima, in occasione della sua ri-conversione al calvinismo (1756). [J.-J. Rousseau, Emilio, Bari-Roma, Laterza, 2003, pp. 193-205].

La prima parte della professione è dedicata alla presentazione dei principi su cui si regge la religione naturale, con la quale Rousseau si oppone al radicalismo scettico di molti philosophes. La seconda parte contiene la critica alle religioni rivelate (o positive), considerate come causa di conflitti tra gli uomini.

 La professione di fede nella religione naturale:

Il primo frutto che trassi da queste riflessioni fu d’imparare a limitare le mie ricerche a ciò che m’interessava immediatamente, ad accettare con serenità una profonda ignoranza su tutto il resto e a non lasciarmi tormentare dal dubbio, se non per ciò che realmente m’importava sapere.
Compresi inoltre che i filosofi, anziché liberarmi dai miei inutili dubbi, avrebbero soltanto moltiplicato quelli che mi tormentavano, senza risolverne alcuno. Mi scelsi dunque un’altra guida e dissi a me stesso: consultiamo il lume interiore, esso mi svierà meno di quanto costoro non facciano e, in ogni caso, il mio errore sarà soltanto mio; mi corromperò meno seguendo le mie proprie illusioni che abbandonandomi alle loro menzogne.

I tre articoli di fede del vicario savoiardo (il mondo è retto da una volontà intelligente, l’uomo è una creatura spirituale dotato di anima e volontà libera):

Io credo che una volontà muova l’universo e animi la natura. Se la materia in quanto mossa mi rivela una volontà, la materia mossa secondo precise leggi mi rivela un’intelligenza. L’uomo è dunque libero nelle sue azioni e, come tale, animato da una sostanza immateriale.

Le regole di condotta sono scritte in fondo al cuore dell’uomo:

Così, dopo aver dedotto dall’impressione degli oggetti sensibili e dal sentimento interno, che mi porta a giudicare delle cause secondo le mie cognizioni naturali, le principali verità che m’importava conoscere, mi resta da ricercare quali massime debba trarne per la mia condotta e quali regole debba prescrivermi per assolvere il compito toccatomi sulla terra, secondo le intenzioni di colui che mi ci ha posto. Seguendo sempre il mio metodo, non desumo tali regole dai principi di un’alta filosofia, ma le trovo in fondo al mio cuore scritte dalla natura a caratteri indelebili […] la coscienza non inganna mai, è la vera guida dell’uomo: è per l’anima quel che l’istinto è per il corpo; chi la segue obbedisce alla natura e non teme di smarrirsi […] Tutta la moralità delle nostre azioni è nel giudizio che noi stessi ne diamo.

 

La professione di fede del Vicario Savoiardo

Questa « Professione di fede » si può dividere in tre parti: 1) racconto delle disavventure personali che misero il Vicario in uno stato d’animo di incertezza e di dubbio, avendo scosso la sua fede nella giustizia, e vano ricorso ai filosofi per averne illuminazione; 2) delinea­zione in forma argomentativa di un completo sistema di religione naturale; 3) discussione sul problema della ri­velazione e su quello della preferibilità di una o di un’al­tra particolare religione rivelata. Qui di seguito saranno in parte riportate, in parte maggiore riassunte le parti 2) e 3).

Compresi che, lungi dal liberarmi dai miei dubbi inutili, i filosofi non avrebbero fatto che moltiplicare quelli che mi tormentavano e non ne avrebbero risolto alcuno. Presi dunque un’altra guida e mi dissi: consultiamo il lume interiore, esso mi svierà meno che quelli non mi sviino o in ogni caso il mio er­rore sarà il mio, e mi depraverò meno seguendo le mie proprie illusioni che abbandonandomi alle loro menzogne.

Portando dunque in me per tutta filosofia l’amore della verità, e per solo metodo una regola facile e semplice che mi dispensa dalla vana sotti­gliezza degli argomenti, io riprendo, alla luce di que­sta regola, l’esame delle cognizioni che mi interessano, deciso ad ammettere per evidenti tutte quelle alle quali, nella sincerità del mio cuore, non potrei rifiu­tare il mio consenso, per vere tutte quelle che mi sembreranno avere un legame necessario con le prime, e di lasciare tutte le altre nell’incertezza, senza né rigettarle né ammetterle, e senza darmi la pena di chiarirle quando esse non conducono a niente di utile per la pratica.

Ma chi sono io? che diritto ho io di giudicare le cose? e cos’è che determina i miei giudizi? Se essi sono forzatamente comportati dalle impressioni che ricevo, mi affatico invano in queste ricerche, esse non si faranno affatto, o si faranno da sé, senza che io mi immischi a dirigerle. Devo dunque dirigere per prima cosa i miei sguardi su me stesso per conoscere lo strumento di cui mi voglio servire, e sapere fino a che punto mi posso fidare di usarlo.

Io esisto, e ho dei sensi per mezzo dei quali sono impressionato. Ecco la prima verità che mi colpisce, e alla quale sono forzato ad assentire. Ho un senti­mento proprio della mia esistenza o non la sento che per mezzo delle mie sensazioni? Ecco il mio primo dubbio, che mi riesce, per il momento, impossibile a risolversi. Infatti, essendo continuamente impressio­nato da sensazioni, o immediatamente o tramite la memoria come potrei sapere se il sentimento dell’io è qualcosa al di fuori di queste stesse sensazioni, oppure può essere da esse indipendente?

Le mie sensazioni si svolgono in me, poiché esse mi fanno sentire la mia esistenza; ma la loro causa mi è estranea, poiché esse mi impressionano mio malgrado, e non dipende da me né produrle né annul­larle. Concepisco dunque chiaramente che la sensa­zione che è in me, e la sua causa o il suo oggetto che sono fuori di me, non sono la stessa cosa. Così, non soltanto io esisto, ma esistono degli altri esseri, cioè gli oggetti delle mie sensazioni; e quand’anche questi oggetti non fossero che delle idee, è sempre vero che queste idee non sono io.

Ora, tutto quello che sento fuori di me e che agisce sui miei sensi, io lo chiamo materia; e tutte le porzioni di materia che concepisco riunite in esseri individuali, le chiamo corpi. Così tutte le dispute de­gli idealisti e dei materialisti non significano niente per me: le loro distinzioni sull’apparenza e la realtà dei corpi sono delle chimere.

Eccomi già affatto sicuro sia dell’esistenza del­l’universo che della mia. Quindi rifletto sugli oggetti delle mie sensazioni e, trovando in me la facoltà di confrontarli mi sento dotato di una forza attiva che prima non sapevo di avere.

Le prime cause del movimento non sono affatto nella materia; essa riceve il movimento e lo comu­nica, ma non lo produce. Più osservo l’azione e reazione delle forze della natura agenti le une sulle altre, più trovo che, d’effetto in effetto, bisogna sem­pre risalire a qualche volontà come causa prima; ammettere infatti un regresso di cause all’infinito equivale a non ammettere niente. In una parola, ogni movimento che non è prodotto da un altro, non può venire che da un atto spontaneo, volontario; i corpi inanimati non agiscono che per mezzo del movimento, e non vi sono affatto delle vere azioni senza volontà. Ecco il mio primo principio. Io credo dunque che una volontà muove l’universo e anima la natura. Ecco il mio primo dogma, o mio primo articolo di fede.

Come una volontà possa muovere la materia non è certo cosa facile a concepirsi, tanto nell’universo che nel­l’essere umano: « sia quando sono passivo, sia quando sono attivo, il mezzo di unione delle due sostanze mi pare assolutamente incomprensibile ». Però quel materia­lismo che assegna il movimento alla materia è ancora più assurdo: o si tratta di un movimento caotico dai quale può uscire solo il caos stesso, o si tratta di un movi­mento determinato che suppone « una causa che lo de­termini ».

Se la materia mossa mi mostra una volontà, la materia mossa secondo certe leggi mi mostra una intelligenza: questo è il mio secondo articolo di fede. Agire, confrontare, scegliere, sono le operazioni di un essere attivo e pensante: dunque questo essere esiste. Dove lo vedete esistere? mi state per dire. Non soltanto nei cieli che ruotano, nell’astro che ci rischiara; non soltanto in me stesso, ma nella pecora che pascola, nell’uccello che vola, nella pietra che cade, nella foglia che trasporta il vento.

Io giudico dell’ordine del mondo quantunque ne ignori il fine, perché per giudicare di quest’ordine pii basta confrontare le “parti fra loro, studiare il loro concorso, i loro rapporti, notarne l’accordo. Ignoro perché l’universo esiste, ma non cesso mai di “^guar­dare come è modificato: non cesso di percepire l’in­tima corrispondenza per cui gli esseri che lo compon­gono si prestano uno scambievole aiuto. Sono come un uomo che vedesse per la prima volta un orologio aperto, e che non smettesse di ammirarne l’opera, pur non conoscendone l’uso e non avendone visto il quadrante. Io non so, direbbe, a che serve tutto questo; ma vedo che ciascun pezzo è fatto per l’altro; ammiro l’operaio nei particolari della sua opera, e sono ben sicuro che tutte queste ruote non vanno così di concerto che per un fine comune che mi è impossibile scoprire.

È impossibile pensare che quest’armonia venga dal caso, per quanto possa supporre immenso il numero dei casi possibili Sarebbe come pensare che « dei caratteri di stampa, gettati a caso, hanno dato 1 ’Eneide bell’e for­mata ». Il mondo è dunque « governato da una volontà potente e saggia ». Le varie difficoltà metafisiche che pos­sono sorgere passano in seconda linea di fronte a questa verità luminosa. « Questo essere che vuole e che può, questo essere attivo per se stesso, questo essere infine, qualunque esso sia, che muove l’universo e ordina tutte le cose, io lo chiamo Dio. Unisco a questo nome le idee di intelligenza, di potenza, di volontà, che ho già riu­nite, e quella di bontà che ne è una conseguenza neces­saria. » Tuttavia di questo essere so ben poco, per quanto lo veda dappertutto nelle sue opere.

Se poi mi volgo a considerare qual posto occupo io, uomo, nell’ordine delle cose, sono colpito dalla mia ec­cellenza. L’uomo è veramente « il re della terra che abi­ta », la sua perfezione è incommensurabilmente maggiore di quella di ogni altra cosa o essere vivente. Ciò suscita in me un «sentimento di riconoscenza e di benedizione per l’autore della mia specie, e da questo sentimento viene il mio primo omaggio alla divinità benefattrice. Adoro la potenza suprema e mi intenerisco sui suoi be­nefici».

Ma se poi considero la società umana come tale, il quadro muta totalmente, non vi vedo che confusione e disordine, e nasce il problema di spiegare « il male sulla terra ».

Credereste voi, mio buon amico, che da queste tristi riflessioni e da queste contraddizioni apparenti si formarono nel mio spirito le sublimi idee dell’anima che non erano risultate fino allora dalle mie ricerche?

nimento è compensata dalla quantità delle gettate ». L’espres­sione, che viene dal gioco dei dadi, « quantità delle gettate » ricorre anche in R., inoltre Diderot aveva usato lo stesso esem­pio dei caratteri a stampa, soltanto riferendosi ad altri poemi anziché all’Eneide, per dire tutto il contrario di ciò che dice R. e cioè che casi del genere non sarebbero impossibili quando il numero delle « gettate » fosse enormemente grande. Qui il bersaglio di R. è dunque Diderot. Si tratta dell’eterna disputa fra finalisti e meccanicisti, qui già posta in quei termini di « probabilità » che avranno in seguito tanta importanza fino ai nostri giorni.

Meditando sulla natura dell’uomo, ho creduto di sco­prirvi due princìpi distinti, di cui l’uno lo elevava allo studio delle verità eterne, all’amore della giu­stizia e della bellezza morale, alle regioni del mondo intellettuale la cui contemplazione fa la delizia del saggio, e di cui l’altro lo riportava in basso, in lui stesso, lo asserviva al dominio dei sensi, alle passioni che sono i loro ministri, e contrariava per loro mezzo tutto ciò che il sentimento del primo gli ispirava. Sentendomi trascinato, combattuto da questi due mo vimenti contrari, mi dicevo: No, l’uomo non è uno: io voglio e non voglio, mi sento ad un tempo schiavo e liberò; vedo il bene, l’amo, e faccio il male; sono attivo quando ascolto la ragione, passivo quando le mie passioni mi trascinano; e il mio peggior tor­mento, quando soccombo, è di sentire che avrei po­tuto resistere.

Questo contrasto, ed il sentirmi giudicante ed attivo, cosa impossibile per un essere puramente ma­teriale, mi dimostra che oltre al corpo ho anche un’a­nima immateriale, che giudica e sceglie, ed è il prin­cipio attivo del mio essere.

L’uomo è dunque libero nelle sue azioni, e come tale animato da una sostanza immateriale, questo è il mio terzo articolo di fede. Da questi primi tre dedurrete facilmente tutti gli altri, senza che io con­tinui a tenerne il conto.

Iddio ha preferito farmi libero, lasciandomi con ciò la possibilità di volgermi al male, piuttosto che farmi buono per forza: « E che! per impedire all’uomo di es­sere cattivo, bisognava limitarlo all’istinto e farlo bestia? ».

Il male dell’uomo non dipende che dall’uomo stesso. II fatto poi che malgrado tutto, malgrado la soddisfazione interiore dell’operare bene, spesso il giusto non sia fe­lice, ci deve far credere, che l’anima, immateriale, sia anche immortale, e dopo la morte possa godere del ri­cordo del bene compiuto e della contemplazione del suo Creatore. L’inferno, invece, è poco probabile che esista.

Messo assieme così questo corpo di credenze essen­ziali, rimane il problema delle massime da trarne per la mia condotta. Esse si trovano in fondo al mio cuore, nella mia coscienza che è la migliore guida, « il migliore di tutti i casisti », con la quale non si mercanteggia. « La coscienza è la voce dell’anima, le passioni sono la voce del corpo. » La voce della coscienza, pur debole, è pre­sente in tutti, e non ha nulla a che fare con l’interesse, Troviamo i suoi dettami essenziali affermarsi più o meno presso tutti i popoli e in tutte le epoche. Essa non è un portato dell’educazione. Sua funzione è di indicarci dei « beni morali » per conseguire i quali si affronta talvolta anche la morte. Ma com’è possibile che la coscienza si imponga al nostro essere sensitivo? È perché essa stessa è piuttosto un sentimento, un istinto, che un’idea astratta.

Esistere per noi è sentire; la nostra sensibilità è incontestabilmente anteriore alla nostra intelligenza, e noi abbiamo avuto sentimenti prima che idee. Quale che sia la causa del nostro essere essa ha provveduto alla nostra conservazione dandoci dei sentimenti con­venienti alla nostra natura; e non si potrebbe negare che almeno quelli siano innati. Questi sentimenti, quanto all’individuo, sono l’amore di sé, la paura del dolore, l’orrore della morte, il desiderio del benessere. Ma se, come non si può dubitare, l’uomo è socievole per sua natura, o almeno fatto per diventarlo, egli non può esserlo che per altri sentimenti innati,

relativi alla sua specie; infatti, a non considerare che il bisogno fisico, questo deve certamente disperdere gli uomini anziché avvicinarli. Ora è dal sistema mo­rale formato per mezzo di questo duplice rapporto con se stesso e con i suoi simili che nasce l’impulso della coscienza 1“. Conoscere il bene non è amarlo: l’uomo non ne ha una conoscenza innata; ma non ap­pena la sua ragione glielo fa conoscere, la sua co­scienza lo porta ad amarlo; è questo sentimento che è innato.

Non credo dunque, amico mio, che sia impossi­bile spiegare per mezzo di conseguenze della nostra professione della ragione, se non si fondasse in concreto su di un « bisogno naturale del cuore umano » e precisamente sul bi­sogno che l’uomo ha di espandersi e di identificarsi con altri esseri. Già nella prefazione al Discorso sull’ineguaglianza si parlava di due principi « anteriori alla ragione », grosso modo tendenza al benessere e pietà, e ciò proprio per negare l’esi­stenza di ” un princìpio innato di « sociabilità ». Ambedue, secondo l’impostazione della prima parte del libro IV, dovreb­bero scaturire dallo stesso « amor di sé », mentre qui si parla delle tendenze sociali come   di « sentimenti    innati », distin­guendoli dall’«  amore di sé ». Ma si badi che lo stesso amore di sé è stato, per così dire, particolarizzato, gli sono stati messi accanto, come se non ne facessero parte, « paura del dolore », « orrore della morte », « desiderio del benessere ». Si noti che comunque qui non si ha altro che un nuovo tentativo di riaf­fermare il principio della continuità naturalistica messo in mora dal dualismo di spirituale e corporeo; si vuole infatti mostrare, come è detto poco più sotto, che « il principio im­mediato della coscienza » può essere spiegato « per mezzo di conseguenze della nostra natura ».

15 Comunque si debba interpretare la genesi dell’impulso alla socialità, questo accenno ad una possibile origine .sociale della coscienza      è di estremo interesse, anche    se R. io consi­dera poco più     che ipotetico   e non vi si sofferma. Non solo

nell’accezione morale (senso dell’obbligo) ma anche in quella intellettuale (consapevolezza delle proprie attività deliberative), la coscienza è considerata, da alcune correnti filosofiche con­temporanee, come legata all’interazione sociale. Particolare im­portanza è attribuita a questa interpretazione della genesi della coscienza da Giovanni Dewey, che è anche quello che l’ha più largamente sviluppata, soprattutto nell’opera Esperienza e Natura.

natura il principio immediato della coscienza, indi- pendente dalla ragione stessa. E quand’anche fosse impossibile, non sarebbe necessario: infatti, poiché quelli che negano questo principio ammesso e ricono­sciuto da tutto il genere umano non provano affatto che non esiste, ma si accontentano di affermarlo; quando noi affermiamo che esiste, siamo altrettanto ben fondati quanto loro, ed in più abbiamo la testimo­nianza interiore, e la voce della coscienza che depone per se stessa.

Coscienza! coscienza! istinto divino, immortale e celeste voce; guida sicura di un essere ignorante e li­mitato, intelligente e libero; giudice infallibile del bene e del male, che rendi l’uomo simile a Dio, sei tu che fai l’eccellenza della sua natura e la moralità delle sue azioni; senza di te non sento niente in me che mi elevi al di sopra delle bestie, salvo il triste privilegio di sviarmi di errore in errore con l’aiuto di un intelletto senza regola e di una ragione senza principi.

Grazie al cielo, eccoci liberati da tutto questo spa­ventevole apparato di filosofia: possiamo essere uo­mini senza essere sapienti; dispensati dal consumare la nostra vita nello studio della morale, abbiamo a minor prezzo una guida più sicura in questo dedalo immenso delle opinioni umane. Ma non è sufficiente che la guida esista, occorre saperla riconoscere e se­guire.

Ma credete voi che vi sia su tutta la terra un solo uomo tanto depravato da non aver mai abban­donato il suo cuore alla tentazione di far bene? Questa tentazione è così naturale e così dolce, che è impos­sibile resisterle sempre; e il ricordo del piacere che essa ha prodotto una volta è sufficiente a richiamarla senza posa. Disgraziatamente essa è dapprima penosa a soddisfare; vi sono mille ragioni per rifiutarsi al­l’inclinazione del proprio cuore; la falsa prudenza lo rinserra nei limiti dell’io umano; occorrono mille sforzi di coraggio per osare di superarli. Compiacersi di far bene è il premio per aver fatto bene, e questo premio non lo si ottiene che dopo averlo meritato. Niente è più amabile della virtù; ma bisogna gioirne per trovarla tale. Quando la si vuole abbracciare, simile al Proteo della favola, prende dapprima mille forme spaventevoli, e non si mostra infine sotto la sua che a coloro che non hanno mai lasciato la presa.

Quando il Vicario ha finito il suo ispirato discorso, nel quale R. vede, su per giù, « il teismo [13] o la religione naturale, che i cristiani affettano di confondere con l’atei­smo o l’irreligione, che è la dottrina direttamente oppo­sta », il giovane suo ascoltatore chiede che gli parli della Rivelazione, delle Scritture, dei dogmi.

Il Vicario sembra cambiare tono: in queste questioni non vede che « imbarazzo, mistero, oscurità », non vi sente che « incertezza e diffidenza ». Inizia criticando l’idea di Rivelazione, per l’impossibilità stessa di provarla tale. I miracoli, a parte la loro attendibilità, non provano niente neanche per il credente: « dopo aver provato la dottrina per mezzo del miracolo, bisogna provare il mira­colo per mezzo della dottrina, per paura di scambiare l’opera del demonio con l’opera di Dio »; infatti le stesse Scritture dicono che i miracoli di un profeta annunziante degli dèi stranieri sono buone ragioni per metterlo su­bito a morte. Le profezie sarebbero credibili solo da chi ne fosse testimonio diretto, e fosse poi altresì testimo­nio dell’avvenimento, e potesse tassativamente escludere che si tratti di coincidenza fortuita.

Si tratterebbe semmai di scegliere tra le diverse re­ligioni razionalmente, in base ad un giudizio motivato. Ma come fondare un tale giudizio? Dove una religione predomina, le ragioni delle altre vengono distorte, e nep­pure i pochi che le professano hanno il coraggio di esporle senza riserve. Se gli uomini volessero sul serio operare una tale scelta, dovrebbero viaggiare e studiare tutta la vita, e nel mondo non si farebbe più altro, se pure la società potesse sussistere.

Unica rivelazione, unico « libro » è quello della na­tura. La « santità del Vangelo » è un argomento che parla al cuore, ma perciò appunto siamo autorizzati a trarne tutto quanto il cuore approva e cosi la nostra ragione, non le « cose incredibili », le « cose che ripugnano alla ragione », che pure vi sono.

Ecco lo scetticismo involontario nel quale sono rimasto; ma questo scetticismo non mi è per niente penoso, perché non si estende affatto ai punti essen­ziali per la pratica, e perché io sono ben deciso sui principi di tutti i miei doveri. Io servo Dio nella semplicità del mio cuore. Non cerco di sapere che ciò che è importante per la mia condotta. Quanto ai dogmi che non influiscono né sulle azioni, né sulla condotta, e per i quali tanta gente si tormenta, io non ci sto punto in angustie. Considero tutte le reli­gioni particolari come tante istituzioni salutari che prescrivono in ciascun paese una maniera uniforme di onorare Dio per mezzo di un culto pubblico, e che possono tutte aver le loro ragioni in base al clima, al governo, al genio del popolo, o a qualche altra causa locale che rende l’una preferibile all’altra, secondo i tempi e i luoghi. Io le credo tutte buone quando vi si serve Dio convenientemente. Il culto essenziale è quello del cuore.

La conclusione cui giunge il Vicario è che ciascuno farebbe bene ad accettare completamente la religione del suo paese, con questa sola, ma decisiva riserva: di op­porsi ad ogni suo aspetto di intolleranza. Perciò consiglia al giovane Rousseau di tornarsene a Ginevra e di ripren­dere la. religione dei suoi padri, giacché « nell’incertezza in cui siamo, è una presunzione imperdonabile il profes­sare un’altra religione che non sia quella in cui si è nati ». ” Figlio mio, tenete la vostra anima in stato da deside­rare che vi sia un Dio, e non ne dubiterete mai », asse­risce il Vicario come ultimo succo di tutti i suoi ragiona­menti, e conclude con un’ultima puntata polemica contro le « desolanti dottrine » dei filosofi materialisti, che pure « si vantano ancora di essere i benefattori del genere umano ».

La verità, essi dicono, non è mai nociva agli uo­mini. Anch’io lo credo come loro, e questa è, a mio avviso, una gran prova che ciò che essi insegnano non è la verità.

 


[9] La polemica è particolarmente diretta contro La Mettrie ed Helvetius, che consideravano la materia dotata di movimento spontaneo e di una embrionale sensibilità. R. invece, nel suo rigido dualismo materia (passiva)-spirito (volontà attiva), ri­mane assai più vicino a Cartesio.

[10] Diderot nei suoi Pensieri filosofici, cap. xxi, aveva scritto: « non devo essere affatto sorpreso che ima cosa suc­ceda quando essa è possibile e quando la difficoltà dell’awe-

[11] Questo dualismo etico affermato nella « Professione » è fondamentalmente assente nel resto dell’Emilio. Si noti che con ciò non vien già meno l’eudemonismo (si tratta sempre di perseguire la propria felicità, sia pur sacrificando una parte del nostro essere all’altra, la carne allo spirito) ma sembra venir meno la fiducia altrove dimostrata in una piena conti­nuità naturalistica daU’amor di sé all’amor di tutti e alla coscienza.

[12] È questo l’unico passo in cui R. parli di « sentimenti innati » di tal genere, in un certo senso non riconducibili all’« amor di sé ». Si confronti questo passo con l’inizio del cap. 3 di questo stesso libro, e con la nota che R. stesso vi appose. Lì Rousseau sottolineava soltanto il fatto che la legge naturale non avrebbe nessuna realtà se fosse solo un’escogita-

[13] Noi oggi useremo in questo senso piuttosto il vocabolo « deismo », teismo avendo assunto un altro significato, e preci­samente quello di sistema che afferma la centralità e assolutezza dell’essere divino e nello stesso tempo lo distingue nettamente dal creato. « Deismo » è invece semplicemente sinonimo di re­ligione naturale, cioè di complesso di credenze religiose di qualunque indirizzo fondato sulle sole basi dell’osservazione, del ragionamento e del sentimento morale.

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