Un vecchio, ma interessante articolo riproposto da Salvatore Lo Leggio sul declino della civiltà micenea e le misteriose orgini della civiltà greca classica.
Omero, nell’VIII secolo a.C., descrisse un mondo, un codice d’onore, un complesso di costumi che, ai suoi tempi, erano già dileguati da 400 anni almeno, come fece l’Ariosto con le gesta di Orlando. Dal catalogo degli eroi e delle loro navi – Agamennone ne aveva 100, Achille 50, Ulisse soltanto 12, – dalle armi, dalle suppellettili, da tutto il comportamento dei guerrieri si direbbe che essi, sovrani ciascuno nella sua piccola reggia, appartenessero a una cultura uniforme dal punto di vista etnico e linguistico e che l’affronto fatto a uno di loro li avesse spinti a muovere dalla Grecia continentale e dalle isole dello Jonio e dell’Egeo per vendicarlo; o, secondo una versione più realistica, per assicurarsi la navigazione sui Dardanelli.
L’omogeneità di stirpe e di istituzioni, quale risulta dalla cultura detta “dei palazzi”, fu dimenticata durante una eclissi che durò più o meno dal XII all’VIII secolo: il cosiddetto Medioevo greco. A provocarla fu una catastrofe che rovesciò quelle dinastie feudali e distrusse le residenze dei re (o erano sacerdoti?) di cui restano le rovine a Cnossos, a Micene, a Pilos. Ad onta delle differenze nei regimi e nei dialetti, col tempo l’uniformità fu ricostruita tra le città, cementata dagli incontri ginnici e diplomatici di Olimpia, dai culti comuni a Delfi, a Eleusi, a Epidauro, dalle guerre combattute insieme (e instancabilmente celebrate) contro i Persiani. Finì per diventare superba consapevolezza della propria identità etnica: le opere d’arte, figurative e letterarie, non dicono che questo. Nella tragedia di Euripide, Ifigenia accetta volentieri d’esser sacrificata come vittima propiziatoria affinché Artemide conceda vento propizio alle navi degli Achei: è loro, di diritto, la vittoria e il dominio, per la superiorità culturale che possiedono sugli altri popoli:
“Degli Elleni – essa dice – è propria la libertà, dei barbari il servire”.
Cent’ anni dopo, Aristotile, precettore d’ un greco d’elezione, Alessandro il Macedone, ammoniva il suo discepolo di trattare i Greci da uomini, gli altri popoli alla stregua di animali privi della ragione. Ma chi erano, da dove venivano questi famosi Greci che non si chiamano con un solo nome – come gli Etruschi, i Fenici, i Romani – ma con molti e diversi, Achei, Danai, Elleni, Pelasgi, mentre le loro aree culturali e le fasi della loro civiltà si distinguono in cicladica, cretese, micenea, elladica, ellenica, dorica, jonica, ecc? E’ l’interrogativo al quale hanno cercato di rispondere studiosi di molti paesi convenuti a Roma nell’aprile del 1983 per un congresso, durante il quale hanno sviscerato il problema da ogni angolo possibile. Le relazioni pronunciate in quella sede – “Atti” che di solito figurano in raccolte accademiche da consultare nelle biblioteche specialistiche e non in volumi offerti in vendita ai profani – sono ora pubblicate da Laterza, a cura di Domenico Musti, in un volume di 414 pagine: Le origini dei Greci. Dori e Mondo Egeo, lire 55.000. Il fine del convegno, come della successiva pubblicazione, scrive Musti nell’ introduzione, non è stato di esporre “conclusioni univoche”; ma piuttosto di comunicare “opinioni argomentate e diverse tra loro”; il lettore può confrontarle, misurarne la validità, trarne, se ci riesce, le sue conclusioni, sempre che riesca a orientarsi e, se non altro, “fare il punto” sulle questioni essenziali.
Noi non possiamo, come faceva Omero, invocare le Muse – erano figlie, si noti, di Mnemosyne, la Memoria – per conoscere tutta la verità sul passato:
“Voi, dee, tutto sapete / Noi la fama ascoltiamo, ma nulla vedemmo”.
Non disponiamo di archivi, di registri, di documenti, di annali su epoche tanto remote. Come in tutte le indagini, si procede aggrappandosi a indizi, a confronti con altri indizi d’altri paesi, a tracce archeologiche, a frammenti di ceramica, a dati linguistici, toponomastici e, soprattutto, a ipotesi. Si cerca di appurare che cosa c’è di vero nella notizia, già messa in dubbio nel secolo scorso, che la distruzione dei palazzi da Creta al Peloponneso sia avvenuta per l’irruzione massiccia d’ un popolo rude e guerriero che sarebbe calato dal Nord: i Dori. Essi avrebbero imposto la lingua, i loro dèi olimpici, maschilisti e tracotanti; relegate le donne nei ginecei, avrebbero costretto i signori d’un tempo alla vanga e all’ aratro. Le devastazioni, la miseria, lo spopolamento avrebbero soffocato quello spirito che negli antichi palazzi aveva creato un sistema di produzione controllata, una rigorosa amministrazione centralizzata, opere d’arte squisite, un’architettura, una religione. Ma non lo spensero. Dopo secoli di silenzio, l’anima dei popoli oppressi risorse in forme stupende: la ceramica di stile geometrico, l’ epica, i primi interrogativi sull’universo e sull’uomo.
A questa versione tradizionale sono state opposte obiezioni autorevoli e fondate. Forse non andò così.
“L’archeologia rivela catastrofi” – scrive Moses Finley nel lucido volumetto La Grecia dalla preistoria all’età classica – “ma non può dirci quali ne furono le circostanze e i protagonisti”.
Non ci si discosta molto da questa affermazione. Archeologia e linguistica, efficaci ausiliarie della storia, non provano l’improvvisa irruzione di genti nordiche, portatrici d’una propria cultura; e nemmeno invasioni a ondate successive. Forse furono soltanto lente, graduali infiltrazioni di genti che riuscirono a prevalere sugli abitanti perché i regimi aristocratici erano già indeboliti (a seguito della prolungata assenza dei re nella guerra di Troia?) o addirittura caduti per catastrofi naturali o rivoluzioni. Le caratteristiche linguistiche, istituzionali, religiose che si usa distinguere con il nome di “doriche”, riscontrate in molte regioni della Grecia, potrebbero essere il frutto di evoluzioni spontanee, verificatesi per diversi condizionamenti storici; i dialetti, a loro volta, possono essere il parlato del popolo, che finisce sempre per prevalere, come il “volgare” sul latino, il valzer sul minuetto, il jazz sulla sinfonia. Era certamente diverso dalla lingua dei signori e dalle formule usate dagli scribi: questi registravano le materie prime assegnate ai lavoratori, i prodotti finiti resi a palazzo, i compensi in generi alimentari corrisposti a una mano d’opera composta principalmente di donne e bambini. Tale è il contenuto delle famose tavolette d’argilla coperte di quella scrittura che è detta Lineare B. Ormai sono state rinvenute a migliaia. Non contengono leggi, né testi liturgici, né trattati, né carmi. Il fuoco degli incendi le ha preservate, cuocendole, e sono arrivate intatte fino a noi. La prodigiosa decifrazione di quei rendiconti da contabile ha stimolato molte illazioni interessanti: da quella scrittura sillabica è stato possibile arguire l’esistenza d’una mano d’opera specializzata nelle mansioni relative alla lavorazione della lana, dei metalli, dell’agricoltura, il perfetto funzionamento d’un sistema centralizzato, d’una organizzazione politica ed economica che è la stessa, o fortemente simile, in tutti i palazzi.
Uno dei saggi più stimolanti del volume è quello di Anna Sacconi: dall’esame di questi elenchi – che rispecchiano “il quotidiano” di pochi giorni, gli ultimi del palazzo di Pilos – la studiosa ha riscontrato una serie di misure d’ emergenza che permettono di supporre nei dirigenti la consapevolezza o il timore d’ un pericolo incombente: sono provvedimenti da preallarme, preparativi per la difesa. Si dispongono guardie costiere lungo una costa di 150 km, si ordina di riparare armature, elmi, pugnali, carri, si requisisce persino il bronzo dei templi, si concede esonero fiscale ai 270 fabbri attivi nella comunità. Se ne può dedurre scarsità di metalli, dovuta a insicurezza nelle rotte commerciali. E’ lecito desumere da questi dati l’imminenza d’ una invasione dal mare? Forse avvenne. Ma la Sacconi conclude che non ne esistono prove certe e non è dimostrabile l’insediamento d’un diverso elemento etnico. Dei famosi Dori, del resto, non si conoscono tracce culturali antecedenti la loro presenza nei luoghi altamente civili dove regnava la cultura del palazzo e che possono esser stati sconvolti non dagli invasori ma da terremoti, da alluvioni, da incendi o da rivoluzioni sociali. E’ una storia irta di “forse”; il metodo scientifico più rigoroso, la più vasta dottrina procedono di pari passo con l’immaginazione. Tra le disquisizioni su forme verbali, dittonghi, accenti, su tecniche costruttive e materiali usati, su riti funerari e nomi di monti e fiumi, lampeggiano le cripto-verità dei miti, che parlano del ritorno nel Peloponneso dei discendenti di Eracle. Una sola certezza emerge: quel sistema feudale raffinato, minuzioso, oppressivo crollò, non sappiamo come né perché. Dopo chissà quali devastazioni e sofferenze su quelle rovine fiorì la civiltà che chiamiamo greca, nacquero Omero e Talete.
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