Tratto da La Stampa del 18 gennaio 2019, p. 23.
Il nostro sistema sanitario ha da poco compiuto 40 anni e ce lo dobbiamo tenere stretto. Sì, perché in termini di risultati, abbiamo valori indiscussi di alto livello, con una speranza di vita tra le più elevate al mondo.
E’ un sistema universalistico il nostro e, in quanto tale, rappresenta una risorsa preziosa per i cittadini perché promuove l’equità.
Ma attenzione, ciò non può semplicemente rimanere sulla carta, sulla sanità dobbiamo investire, non possiamo permetterci di disinvestire, perché anche nella sanità si rispecchiano le disuguaglianze del Paese e, anche se minori rispetto agli altri Paesi europei, non vanno assolutamente sottovalutate.
Le persone delle classi sociali più alte stanno meglio delle altre, e vivono più a lungo. Gli uomini con al massimo la licenza media inferiore presentano, secondo l’Istat, 3 anni di svantaggio di speranza di vita rispetto a quelli con la laurea.
Tra le donne le disuguaglianze sono meno pronunciate (1,5 anni) ma emergono comunque. La forte carenza di risorse e competenze agisce in negativo sulla salute, indipendentemente dalle zone del Paese.
Ma a ciò va aggiunto che il Sud e le Isole presentano comunque una speranza di vita più sfavorevole in tutte le fasce di istruzione, esiste cioè una differenza territoriale che incide di per sé. […]
Un interessante studio sulle diseguaglianza sociali è stato condotto su Torino dall’epidemiologo Giuseppe Costa, particolarmente attento a queste tematiche: ebbene un uomo che attraversa la città, dalla collina alto borghese dove si concentrano le persone con più alto reddito alla barriera operaia nel Nord Ovest, dove vivono quelle a più basso reddito, vede ridursi la speranza di vita di sei mesi per ogni chilometro percorso.
Più di 4 anni di speranza di vita separano i benestanti della collina dagli abitanti più poveri del quartiere Vallette.
Le evidenze statistiche sono forti, vanno abbattute le barriere all’equità nella salute. Se le differenze sono socialmente determinate, ciò vuol dire che si può agire per modificarle e soprattutto per evitarle. E per farlo servono politiche sanitarie e non sanitarie.
Le politiche di inclusione sociale sono certamente fondamentali, la riduzione della povertà porta ad un miglioramento anche dell’equità nella salute. Ma non sono sufficienti. Bisogna dotarsi di un nuovo approccio strategico in sanità. Una riflessione va fatta sul finanziamento del nostro sistema sanitario e sulla crescita della spesa sanitaria a carico dei cittadini, accanto alla diminuzione di quella pubblica. Il disagio nelle spese sanitarie raggiunge il 12% dei cittadini in alcune regioni meridionali.
Dobbiamo reinvertire la rotta e ricordarci che il diritto alla salute è un diritto costituzionale. Prolungare una situazione di scarso finanziamento del sistema pubblico non può che portare all’incremento delle disuguaglianze in sanità.
Abbiamo un sistema sanitario che ha dato grandi esiti in tutto il Paese anche grazie a molte eccellenze nel
personale sanitario. Ma non si può più continuare senza un forte ricambio generazionale ben transitato, e una forte spinta all’innovazione. Dobbiamo reinvestirci.
La povertà di risorse per il settore pubblico danneggerà tutti, ma soprattutto i poveri e ci renderà più disuguali.
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