Tratto da U. Carlone, «Se fosse più vissuto sarebbe più sicuro». Capitale sociale e insicurezza urbana a Perugia, Perugia, 2013, pp. 27-40.
Insicurezza e criminalità
Il concetto di insicurezza è assai ampio e può essere analizzato seguendo molteplici punti di vista e considerando diverse dimensioni.
La sicurezza può essere interpretata innanzitutto come esigenza di vivere e operare in una società nella quale i comportamenti altrui siano in una certa misura prevedibili (Ceri 2008; Antonilli 2012), come il più immediato dei bisogni primari dell’individuo, la cui soddisfazione è propedeutica a tutti gli altri (Maslow 1995; Inglehart 1983 e 1997). È possibile fare riferimento a molti ambiti in cui incontrare il tema: l’economia e l’occupazione; i conflitti globali e il terrorismo; la salute degli individui; gli incidenti sul lavoro; la sicurezza stradale; e poi, certo, il crimine (Diamanti 2008, 2).
Molti autori hanno provato a distinguere tra diversi tipi: Castel (2004), ad esempio, individua una sicurezza «civile», che difende il cittadino dalle sopraffazioni fisiche e morali e che riguarda la persona, i beni, ma anche la libertà di parola, di pensiero, di associazione; e una sicurezza «sociale», che garantisce al cittadino un reddito contro i rischi della vita e del mercato (vecchiaia, malattia, disoccupazione, infortuni).
Secondo Bauman (2000), invece, nel «calderone dell’insicurezza» confluiscono tre dimensioni principali: la safety, che riguarda le minacce all’incolumità di vita e all’integrità fisica e psichica; la security, che riguarda la contrazione delle protezioni connesse alla partecipazione al lavoro e alla cittadinanza sociale; la certainty, che riguarda l’orientamento cognitivo, l’indebolimento delle capacità di padroneggiare il mondo e la scomparsa di punti saldi di riferimento simbolico.
Oggi la sicurezza è al centro di un dibattito molto ricco e articolato. Soprattutto, sembra essere diventata un’esigenza assai diffusa nella società contemporanea e un bisogno da soddisfare quasi a tutti i costi (Bordoni 2012; Fortin e Colombo 2011; Antonilli 2012). Nonostante il fatto che, da qualunque prospettiva voglia guardarsi,
«raramente nella storia l’essere umano ha goduto della quantità e qualità di sicurezza di cui fruisce oggi in Occidente», forse inaspettatamente «la domanda di questo bene non solo non accenna ad attenuarsi, bensì sembra dilatarsi a un ritmo esponenziale» (Battistelli 2008, 15).
Si tratta senz’altro di un paradosso: la società contemporanea non è oggettivamente più rischiosa di quelle passate (Furedi 2006) e le opportunità di esistenza sicura sono molto maggiori rispetto al pre-moderno (Giddens 1994); tuttavia, l’«evidenza oggettiva» è che l’interesse per la sicurezza è enormemente maggiore rispetto a prima (Bauman 2000).
Secondo Galantino (2008), ciò significherebbe che il bisogno di sicurezza da un lato ha carattere permanente (cfr. Castel 2004); dall’altro si situa in una dimensione contingente e situazionale, cioè varia al variare delle circostanze e del modo in cui gli individui lo interpretano. Insomma – aggiungiamo noi – una specie di fame perenne, da soddisfare con cibo diverso a seconda dei tempi e dei contesti in cui si vive.
Oggi, a causa di una sorta di slittamento semantico del termine (Naldi 2004), nel discorso pubblico la sicurezza sembra corrispondere sempre più, per riprendere le definizioni di Bauman, all’incolumità, quindi alla preoccupazione per la propria integrità fisica e per la criminalità, piuttosto che all’insicurezza di tipo economico-lavorativo o a quella di tipo cognitivo:
Di fronte a una serie di rischi soft e impalpabili, per i quali è difficile individuare responsabili e soluzioni possibili, le preoccupazioni e le ansie convergono su una dimensione più hard, immediatamente visibile nel proprio spazio di vita [dove] non solo è possibile individuare gli attori che ne sono causa (i criminali), ma anche quelli preposti a darvi soluzione (le istituzioni politiche e le forze dell’ordine) (Galantino 2008, 54).
Il timore della criminalità assume dunque una valenza preponderante, specialmente nei contesti urbani più degradati. Detto altrimenti, l’insicurezza, che
«si confonde e si nutre di ogni sorta di paure», tende «a esprimersi più facilmente come insicurezza attribuita alla criminalità» (Palidda 2001, 273); quindi, il suo significato prevalente oggi coincide in misura sempre maggiore con il «venir messi al riparo quanto più possibile dal rischio di rimanere vittime di reati» (Pitch 2008, 110).
In particolare, è la cosiddetta microcriminalità che attualmente sembra essere strettamente connessa al tema dell’insicurezza. Essa indica reati di minore gravità (rispetto a omicidi, sequestri, violenze sessuali, etc.), come scippi, borseggi, furti su e di auto, furti in appartamento, piccole truffe, etc.; ma anche una serie di comportamenti illegali e a volte anche non illegali dal punto di vista strettamente giuridico (le cosiddette inciviltà, di cui parleremo: atti di vandalismo di vario tipo, accattonaggio molesto, urla, rumori notturni, incuria degli spazi comuni, etc.), diffusi nelle aree urbane.
Non sono dunque i crimini più feroci a turbare il senso di sicurezza quotidiano, quanto piuttosto i reati minori: solo questi rappresentano una vera e propria insidia alla sfera privata (Diamanti e Bodignon 2001). Infatti, gli eventi più gravi sono per lo più considerati inevitabili o troppo diffìcili da affrontare, mentre i reati comuni hanno come bersaglio le persone, appunto, comuni, quindi potenzialmente l’intera cittadinanza; sono temi di grande successo mediatico (suscitano inquietudine ma anche interesse); hanno, in quanto tali, anche grande rilevanza politica (Diamanti 2008).
Secondo Arcidiacono (2008), la microcriminalità è notevolmente aumentata nell’ultimo mezzo secolo (in modo diverso nelle varie zone), per vari motivi: innanzitutto, il baby boom postbellico ha comportato la presenza di più giovani, categoria che commette in misura maggiore reati comuni; poi, secondo l’autore, è cambiato il «sistema delle opportunità nella società contemporanea», per cui sono mutate le abitudini, le donne lavorano, le case sono meno custodite rispetto al passato, c’è maggiore disponibilità di oggetti di consumo di massa facilmente asportabili; infine, vanno tenute presenti le trasformazioni delle città, caratterizzate sempre più dall’assenza di vincoli di vicinato, da un certo individualismo diffuso e dall’anonimato di molte zone e quartieri.
L’associazione tra livello di insicurezza percepita e andamento oggettivo della criminalità è comunque «tutta da dimostrare»: «è quantomeno azzardato affermare che la crescente attenzione rivolta al tema della sicurezza nel discorso pubblico in questi ultimi anni sia imputabile alla lieve crescita dei reati registrata nelle statistiche» (Galantino 2008, 55).
L’aumento dell’insicurezza va perciò legato anche a questioni di carattere più generale, cui possiamo solo accennare. Esso si sarebbe verificato perché alcuni fenomeni si sono manifestati e sono cresciuti ad un ritmo molto elevato (basti pensare, ad esempio, all’immigrazione nel nostro Paese13), perché l’insicurezza sembra coinvolgere oggi strati sociali prima esclusi dal problema (come i ceti medi) e pure per le modalità sovente allarmistiche con cui i mezzi di comunicazione di massa trasmettono le informazioni (Battistelli e Paci 2008, 8-9).
Più analiticamente, e riassumendo il dibattito sul tema, Diamanti e Bordignon (2001, 116-7) individuano una serie di fattori che sarebbero alla base dell’aumento dell’insicurezza:
- il fattore criminale, associato alla reale evoluzione dei reati e alla loro articolazione, che influenzerebbe direttamente gli atteggiamenti;
- il fattore istituzionale, che dipende dal grado di fiducia verso le istituzioni, prese nel loro complesso e dal giudizio sulla loro capacità di garantire il controllo e di rassicurare;
- il fattore politico, per il quale gli attori politici fanno leva (con la complicità dei mass-media) sulle paure della cittadinanza;
- il fattore solidarietà sociale, legato alla riduzione delle reti di reciprocità, delle relazioni interpersonali, dei legami comunitari, fenomeno che abbassa le difese nei confronti dell’ambiente circostante, rendendo i cittadini più soli e disorientati;
- il fattore globalizzazione, con il conseguente spaesamento cognitivo derivante da problemi ed eventi lontani e incontrollabili, ma con conseguenze vicine e dirette.
Criminalità reale e criminalità percepita
Amendola (2008, 4) sostiene che la paura per la (micro)criminalità ha, nella società contemporanea, caratteristiche ben precise: è senza distinzioni di sesso, età, classe, stile di vita, opinione politica, luogo di residenza; è indipendente dal rischio di essere vittima di un reato; è contagiosa; è tautologica, cioè «giustificata dal fatto stesso di avere paura»; si è diffusa con grande rapidità, miche nel nostro Paese; è pervasiva e quotidiana. Garland (2004) parla di crime complex, cioè di una «sindrome sociale da crimine», caratterizzata dal considerare gli alti indici di criminalità come un atto normale; da un intenso investimento emotivo; dalla politicizzazione del problema; dall’attenzione spostata sulle vittime, anziché sugli autori del reato; dalla convinzione dell’inadeguatezza e dell’inefficacia della giustizia penale; dalla diffusione di comportamenti e strategie difensive private e dal conseguente aumento del mercato della sicurezza; dall’istituzionalizzazione del problema criminale nei media e nella cultura popolare.
E lecito però domandarsi se la paura della criminalità e l’insicurezza colpiscano gli individui in maniera omogenea, senza distinzione. I risultati di molte ricerche sul tema mostrano che esistono, in realtà, disuguaglianze non di poco conto nella paura del crimine. Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio, l’indagine sulla sicurezza dei cittadini dell’Istat (2010), che approfondiremo più avanti, mette in luce una sorta di stratificazione sociale della paura: i più colpiti sarebbero le donne, gli anziani e chi ha bassi titoli di studio. Da altre ricerche si evince che esiste una differenziazione anche di tipo geografico e spaziale: l’insicurezza sarebbe più diffusa tra chi vive in determinate aree del Paese (soprattutto al Nord), nei centri urbani e, in particolare, in specifici quartieri delle città (Galantino 2008). Inoltre, alcuni studi a carattere locale (ad es. Medec 2002) fanno emergere delle differenze anche tra chi abita nella stessa area urbana.
Il livello personale di paura, poi, è influenzato, oltre che da fattori socio-anagrafici, anche dal grado di vulnerabilità dei soggetti. Secondo Warr e Stafford (1983), l’insicurezza dovuta al crimine dipende dalla percezione del rischio di subire un reato unita a quella delle sue conseguenze. Essa è, cioè, una «funzione moltiplicativa» del rischio percepito (perceveid risk) e della gravità delle conseguenze del rischio stesso (perceived seriousness). Detto altrimenti, l’approccio della vulnerabilità nello studio della paura del crimine mette in luce che chi la subisce non si sente protetto né dal reato in quanto tale, né dalle sue conseguenze. Ciò spiegherebbe il carattere anticipatorio piuttosto che reattivo della paura (Skogan e Maxfield 1981). Ad esempio, sono più spaventate le persone che non possono correre velocemente, non hanno sufficiente forza fisica, non possono proteggere la propria abitazione e necessitano di un lungo periodo per riparare le perdite materiali e psicologiche (Triventi 2008)14.
Da quanto detto consegue che la percezione dell’insicurezza può risultare maggiore del rischio effettivo di subire un reato. Tuttavia, anche se il fenomeno può essere frutto «più di una percezione che di effettivi stati del mondo, non significa che esso non sia reale sul piano sociale» (Battistelli 2008, 15). In pratica, «non ha molto senso […] contrapporre alla percezione soggettiva i dati di fatto, perché la valutazione razionale dei rischi non serve a spiegare né a determinare il senso di insicurezza individuale» (Galantino 2008, 52).
E noto del resto il teorema di Thomas, secondo il quale la definizione reale di una situazione comporta conseguenze reali: quindi, porre l’accento
sulle mutate modalità di percepire, interpretare e affrontare il rischio non può esimerci dal riconoscere che le ansie e le preoccupazioni per la sicurezza espresse dai cittadini hanno un’origine reale e un’altrettanto reale influenza sui comportamenti individuali e sulle domande sociali (ibidem).
Come conseguenza di ciò,
«le reazioni collettive non possono essere prese alla leggera, attribuendole a subculture locali o a spinte puramente isteriche da curare con autobotti di valium» (Amendola 2008, 2).
Sentirsi insicuri, al di là della reale corrispondenza con l’effettiva possibilità di subire un reato, è un fatto che in quanto tale produce conseguenze non di poco conto: nella vita quotidiana di molte persone può portare a modifiche e limitazioni anche importanti di comportamenti e movimenti, influisce sugli stati d’animo, inibisce attività di tipo prosociale, modifica relazioni sociali e fruizioni di spazi pubblici, provoca fenomeni di migrazione e fuga da determinate zone, comporta un aumento dei costi individuali e collettivi relativi alle spese per la sicurezza, influenza le scelte politiche, fino ad arrivare a condizionare l’assetto urbanistico, la forma e l’organizzazione delle città (Arcidiacono 2004; Chiesi 2004; Amendola 2008):
Criminalità e insicurezza possono condizionare la vita di una città, così come il funzionamento e l’attrattiva di alcune aree urbane. Quando le persone si sentono minacciate, modificano il loro stile di vita e, di conseguenza, il modo in cui usano la città quotidianamente. Molti non escono la sera, non usano i trasporti pubblici negli orari di minori presenze, evitano i parcheggi sotterranei, non frequentano gli spazi pubblici (parchi, piazze, etc.) e finiscono per rinchiudersi in appartamenti o quartieri blindati. Le fasce più vulnerabili della popolazione, quali anziani e donne, possono sentirsi particolarmente minacciate; la perdita di libertà che ne consegue è un peso opprimente da portare, e la qualità della vita ne risente seriamente (AA.VV. 2008, 2).
Detto ciò, però, è opportuno distinguere sul piano analitico i diversi fenomeni. Lo facciamo, schematicamente, riadattando una classificazione di Beato (2008), che distingue:
- criminalità ufficiale;
- criminalità nascosta16;
- criminalità reale;
- criminalità percepita.
La prima è quella che compare nelle statistiche ufficiali; la seconda equivale ai reati commessi ma non denunciati; la terza è la somma delle prime due; la quarta «si costituisce come dato soggettivo dei percettori ed è il prodotto di due fattori: le peculiarità soggettive degli individui e le informazioni di cui possono disporre […]. Questo processo di costruzione della realtà» è influenzato da diversi fattori, ma, come vedremo meglio, «non è compieta- mente arbitrario e irrazionale» (ivi, 161).
L’insicurezza coinvolge, come abbiamo visto, vari stati d’animo e provoca reazioni di diverso tipo. Per quanto riguarda gli stati d’animo, seguiamo le analisi di Comedi (2004a e 2004b), per il quale la paura della criminalità in senso stretto può essere definita una «emozione che nasce dalla percezione di una minaccia imminente messa in atto da altre persone e che innesca una reazione psicofisica». Si tratta di un’«emozione circostanziata in rapporto ad un’esperienza vissuta (2004b, 72) e non va confusa con altri stati d’animo: l’ansietà generica (detta anche formless fear negli studi anglosassoni), che è una sorta di inquietudine continua, non generata da un concreto segnale di pericolo, un presentimento non basato su segnali concreti che qualcosa di spiacevole stia per accadere, un sentimento generico di malessere nel vivere quotidiano; la preoccupazione, che si fonda sulla percezione della realtà, è mediata da valori e da giudizi personali sulla stessa e deriva da qualche problema che occupa la mente (anche riferito, ovviamente, alla criminalità); la valutazione del rischio, che è un giudizio di probabilità che un evento (in questo caso un reato) possa accadere e non necessariamente provoca paura che quell’evento accada (2004a, 110).
Altri studiosi distinguono, con riferimento alle reazioni al crimine, tra concern about crime e fear of crime (Furstenberg 1992): entrambe riguardano la «sfera emotiva dei soggetti», ma mentre con la prima si intende la preoccupazione per la criminalità che sfocia nelle opinioni espresse in pubblico, la seconda coincide con la vera e propria paura di subire un reato, con un senso di apprensione personale espressa dall’individuo (Arcidiacono e Sacchini 2004). Il primo aspetto interessa gli studi più strettamente sociologici: esso «non provoca obbligatoriamente paure e timori», ma «determina rabbia, senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni e degli altri. È questo il sentimento d’insicurezza che porta a comportamenti di autodifesa, a forme di chiusura nei confronti degli altri e tanto più verso gli immigrati, alla partizione dello spazio sociale, fino a mettere in discussione la stessa convivenza civile» (Arcidiacono 2004, 99).
[…] La sindrome securitaria segna l’esperienza quotidiana di un gran numero di cittadini (Garland 2004) ed è secondo molti uno dei tratti caratterizzanti l’esperienza urbana. Oggi, perciò, nel linguaggio comune, nei media e nella ricerca sociale si parla soprattutto proprio di insicurezza urbana. E infatti a livello di città che è più diffusa la paura per la criminalità e che i temi legati alla incolumità fisica prendono corpo e visibilità più facilmente rispetto ad altri contesti. A questo livello il problema è senz’altro più sentito: «sentirsi sicuri in città» è importante
Perché [essa] è un luogo di relazioni controllabili, di azioni di cui ci sentiamo padroni, di vissuti che ci appartengono nel mezzo di un mondo il cui controllo appare sempre più difficile. […] Il “locale” è qualcosa di più di un rifugio, e anche di più di un semplice luogo di esistenza: è, per molti almeno, l’unico reale terreno di socialità (Amerio 2003, 10).
[…] Non va certamente sottovalutato il ruolo dei mass-media in questo processo. Secondo Ceri (2008) l’insicurezza oltre ad avere basi reali ne ha anche di artificiali, alla cui costruzione contribuiscono in maniera determinante proprio i mass-media, che avrebbero una grande responsabilità nella scelta e nella drammatizzazione di taluni eventi. Anche per Naldi (2004) è lecito ipotizzare che i mass-media giochino un ruolo importante nella percezione (spesso distorta) dell’insicurezza. Secondo questo autore, esistono infatti due contraddizioni nel modo in cui il tema è dibattuto, che fanno pensare a un intervento decisivo delle comunicazioni di massa: l’impossibilità di dimostrare l’aumento dell’insicurezza con una corrispondente crescita effettiva della criminalità; la sottovalutazione di alcuni concreti fattori di rischio per l’incolumità a favore di una sottolineatura eccessiva per un particolare tipo di criminalità (ivi, 120).
Ovviamente, sul banco degli imputati si trova soprattutto la televisione. Essa contribuirebbe alla diffusione della paura soprattutto all’interno delle abitazioni; come afferma, forse enfaticamente, Galdini:
La televisione, unico varco verso l’esterno della fortezza-casa a non essere blindato, ha rovesciato sulla famiglia, terrorizzandola, una valanga di messaggi ansiogeni formati da un impasto non separabile di notizie, fiction, opinioni e proclami (2008a, 28).
In un’accezione ampia dell’insicurezza urbana rientrano anche fenomeni diversi dai reati comuni. Si tratta delle cosiddette inciviltà, che si concretizzano in una grande varietà di forme: atti di vandalismo, scritte sui muri, accattonaggio molesto, schiamazzi, urla, rumori notturni, bisogni corporali in pubblico, presenza di bottiglie vuote e rifiuti, sporcizia nelle superfici comuni, etc. Esse costituiscono «trasgressioni di norme condivise riguardanti i comportamenti negli spazi pubblici» (Farruggia 2008, 103) e hanno a che vedere con gli standard di convivenza di un gruppo, di una zona, di un territorio. Chiesi (2004, 132) le suddivide in ambientali (violazione di standard di cura e mantenimento del territorio) e sociali (violazione di standard di convivenza tout court) e ne parla come di condotte quasi mai sanzionabili penalmente: si tratta di comportamenti illegittimi o «al limite dell’illegittimità, o anche, più semplicemente, inaccettabili per quote rilevanti della popolazione che li subisce».
Sebbene non entrino a far parte delle statistiche ufficiali sulla delittuosità, le inciviltà sono molto visibili e immediate (al contrario di parecchi reati veri e propri (Sampson e Raudenbush 1999), anche perché ricollegabili facilmente a fenomeni di degrado urbano, più che di criminalità in senso stretto. Questa loro caratteristica spiegherebbe, secondo alcuni, almeno una parte dell’insicurezza che non può derivare dall’effettivo rischio di subire un reato o dalla presenza reale di criminalità. Esse sono infatti un segnale di indebolimento della capacità di cura di una certa zona o quartiere, denotano un abbandono e una mancata attenzione verso gli spazi che ne sono teatro. A questo livello, la percezione è fondamentale:
come nota ancora Chiesi (2004, 134), ciò che noi vediamo nello spazio pubblico ha un forte effetto «sulle nostre inferenze riguardo alle comunità di cui facciamo una qualche esperienza: ciò che è visibile, infatti, costituisce una sorta di presentazione pubblica dello spazio e questa determina, in larga parte, le valutazioni e predizioni compiute da chi vive e soprattutto da chi lo attraversa».
Le inciviltà, cioè, «costituiscono parte assai rilevante dei segni a partire dai quali costruiamo la nostra immagine dei luoghi urbani» e hanno «un impatto non mediato, ma piuttosto diretto e profondo sulla nostra percezione ecologica dell’ambiente che ci circonda» (ivi, 133-6).
Un ambiente degradato provoca «nella comunità un senso di abbandono, di mancata attenzione da parte delle autorità» e «eleva la soglia di indifferenza», facilitando i comportamenti devianti, tra cui quelli criminali (De Giorgi 2000,16). Ovviamente, non è affatto scontato che all’aumentare dei fenomeni di inciviltà, cresca anche la commissione di reati; però, è nota la teoria del vetro rotto (Wilson e Kelling 1982), secondo la quale se in uno spazio non ci si cura di contrastare infrazioni anche piccole e si tollerano comportamenti poco corretti, da un lato si può favorire il consolidamento di culture criminali, dall’altro si induce chi abita nella zona a pensare che la commissione di un reato possa essere più facile e accettata.
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