A metà 2012 la Banca mondiale ha reso note le stime di crescita dell’economia mondiale. Il risultato atteso è di una crescita del 2,5%, trainata quasi esclusivamente dalle economie emergenti. Si potebbe dunque credere che la recessione mondiale stia finendo e che, seppure a fatica, le economie BRICS continuano ad alimentare il ciclo espansivo su cui si basa l’economia di mercato, tenendo in vita le asfittiche realtà dei paesi sviluppati. In un saggio pubblicato su Connessioni, Antonio Carlo dà una lettura diversa dei dati forniti dalle fonti ufficiali, mostrando che:
i paesi ricchi sono fermi in tendenziale ristagno, e per stare fermi devono continuare ad indebitarsi a ritmo crescente […], se fossero imprese private sarebbero fallite da tempo. Quanto ai paesi emergenti, che sono in netta flessione di crescita, per essi un ritmo del 5% o poco più, rapportato alla modestissima base di partenza (l’India ha un PIL procapite di poco superiore ai 1000 dollari, quello della Cina è più elevato ma enormemente inferiore a quello delle province più povere del sud Italia) è irrisorio; la Cina, il colosso tra gli emergenti, dovrebbe crescere quest’anno del 7,5% (obiettivo del governo cinese fissato in marzo 2012), ma come vedremo l’indice PMI , che misura l’attività manifatturiera centrale per quel paese, si è collocato spesso sotto livello 50 che segna lo spartiacque tra sviluppo e ristagno o recessione4, in altre parole con 7,5% di crescita del PIL la Cina è in ristagno, ma gli altri paesi emergenti stanno peggio, l’India crescerà quest’anno sotto il 5% e l’anno prossimo rimbalzerà (si fa per dire) al 6%. Il mondo [insomma] è fermo e non sa come ripartire […].
La sovraproduzione di forza lavoro (disoccupazione)
Nel corso dell’anno vengono diffusi i dati dell’OCSE e dell’ILO sulla disoccupazione: 205 milioni a livello mondiale (75 milioni giovani), 50 milioni in più rispetto alla fase pre-crisi, nell’OCSE siamo a 48 milioni, 15 in più rispetto al periodo pre-crisi. Rispetto al picco della crisi (2009) solo una lieve limatura (allora era a 212 milioni), più formale che reale perché è cresciuto il numero degli scoraggiati che non cercano più lavoro e che formalmente non sono considerati disoccupati; solo in USA sono una cifra maggiore della lieve “limatura” realizzata. A questi poi bisognerebbe aggiungere quelli che il lavoro non lo hanno mai cercato, pur essendo in età da lavoro: il tasso di attività media a livello mondiale si colloca intorno al 60%7 (così anche in USA e Giappone), nella UE siamo al 63,9%, in Italia al 56,9% (Eurostat): in sostanza a livello mondiale su 5 persone in età da lavoro ne sono occupate solo 3.
Ma non è tutto, accanto alla disoccupazione c’è il fenomeno della sottoccupazione, che l’ILO considerava il vero problema occupazionale dei paesi emergenti: nel suo rapporto del 1976 si rilevava che la disoccupazione nei paesi poveri era solo al 5% contro il 36% della sottoccupazione. Ma chi sono i sottoccupati? Nel rapporto ILO del 2005 si dice che sono persone che non hanno “a decent work”, ciò che concretamente significa che si lavora 12-14 ore al giorno per 1-2 dollari al giorno senza diritti sociali o sindacali, per cui se hai un infortunio sul lavoro il problema è solo tuo. Il disoccupato, invece, vive, nelle aree povere del mondo, di lavori occasionali, carità, piccola delinquenza, prostituzione etc., una situazione per certi versi migliore del sottoccupato o comunque non peggiore. Ma quanti sono i sottoccupati? Nel rapporto del 1976 erano stimati in 500 milioni ed in quelli del 2005 erano stimati in 1,2 miliardi pari al 58,7% della forza lavoro dei paesi emergenti e al 49,7% di quella mondiale.
Poi con la crisi la cifra crescerà di altri 200 milioni, il che significa che oggi tra disoccupati e sottoccupati siamo a 1,6 miliardi di persone, ed in più bisognerebbe considerare gli scoraggiati , che il lavoro non lo cercano più, o gli inattivi in età da lavoro che il lavoro non lo hanno mai cercato (pur non studiando né vivendo di rendita). Un panorama globale semplicemente catastrofico. Ma per meglio capire l’entità del problema mostreremo l’andamento della disoccupazione mondiale ufficiale (senza sottoccupati, scoraggiati ed inattivi) dal 1995 (fonte “Economist”).
Come si vede una tenacia estrema delle tendenze di lungo periodo, che oscillano tra il 6-7%, solo nel 2008 scendiamo di un soffio sotto quel livello per poi balzare all’8,1% nell’anno nero della crisi, il 2009.
Spesso si dice che per combattere la disoccupazione occorrerebbe aumentare gli investimenti, però nel mondo negli ultimi anni non si è assolutamente investito poco come evidenzia la tabella che segue (fonte “Economist” e nostre elaborazioni su quei dati).
Come si vede anche in un anno di crisi come il 2009 si investe e non poco sia in % del PIL che in cifra assoluta, il nodo vero non è la quantità ma la qualità degli investimenti che non producono più occupazione, il problema ormai non è il rapporto tra investimenti ed occupazione ma il rapporto tra investimenti e disoccupazione. Si noti poi che se consideriamo la sottoccupazione […] siamo ai 2/3 della forza lavoro mondiale con oltre 11 mila miliardi di dollari di investimento; da una parte una montagna di investimenti dall’altra un mercato del lavoro che si restringe sempre di più.
Ciò avviene perché nei paesi industriali avanzati lo sviluppo tecnologico ha sempre meno bisogno di lavoro e di lavoratori per espandersi, già negli anni ’70 l’ILO rilevò, con alcune documentatissime inchieste che per finanziare lo sviluppo occorrevano solo per il 10% nuove assunzioni mentre l’altro 90% dello sviluppo era finanziato dalla crescita della produttività del lavoro, sicchè le nuove assunzioni erano un fatto sporadico e residuale. La cosa risulterà evidente con la ripresa del ’76-’79 dopo la recessione degli anni precedenti: nei paesi OCSE il PIL cresce del 4,3% anno e la disoccupazione, ereditata dalla crisi, crescerà di oltre il 10%. È questa la situazione che ha davanti agli occhi uno dei più grandi economisti accademici del secondo dopoguerra, il premio Nobel Solow, che a 20 anni interruppe gli studi per arruolarsi nell’esercito USA “perché combattere contro Hitler era più importante dei miei studi”.
Una situazione davanti alla quale risulta evidente il fallimento del mercato, infatti:
“La tensione tra efficienza del mercato e fallimento del mercato viene posta in risalto specialmente nella discussione sul funzionamento del mercato del lavoro, per ovvi motivi (…) la particolare patologia del mercato del lavoro, la disoccupazione, è particolarmente evidente, particolarmente sconvolgente, e particolarmente frustrante”. […]
Da allora, (anni ’80) la situazione si è pesantemente aggravata: negli anni ’60 e ’70 le nuove assunzioni erano un fenomeno residuale e minimo adesso non più, infatti:
“Tra il 2000-2010 i posti di lavoro nell’industria americana precipitano da oltre 17 milioni a meno di 12 con una riduzione del 32,5% nel settore manifatturiero. Eppure nello stesso periodo il valore della produzione manufattueriera aumenta di oltre il 5%, da 3100 miliardi a 3260, mentre il valore della produzione per lavoratore balza di oltre il 50%, passando da 182 mila a 278 mila dollari” [R.M. SOLOW, Crescita, produttività, disoccupazione, Il Mulino, Bologna, 1966, p. 238].
La crescita della produttività serve a creare disoccupati e non occupati. In genere gli economisti liberali osservano che se è vero che il problema esiste si può superarlo ampliando la produzione a nuovi beni, che permetta di recuperare i lavoratori “esuberanti” (si dice così), ma questo è solo un desiderio non certo suffragato da analisi e verifiche empiriche. Anzi se una verifica c’è va in senso contrario: il capitalismo USA ha prodotto nuovi tipi di beni a getto continuo, ad opera di pionieri della innovazione (Gates, Jobs, Zucherberg) ma questo ha prodotto 5 milioni di posti distrutti come si è visto; oltre 30 anni or sono ho evidenziato come le nuove tecnologie permettano di raddoppiare la produzione ogni 5 anni senza aumentare l’occupazione, ma anzi contraendola, ed i nuovi settori non solo producono di più con meno addetti, ma forniscono agli altri settori i mezzi per fare lo stesso (computers o programmi di produzione)per cui il risultato è che puoi produrre masse crescenti di beni con masse decrescenti di lavoratori anche di alta qualifica, poiché le tecnologie moderne richiedono sì lavoratori di alta qualifica ma in misura minima, per cui le professionalità più richieste in futuro saranno baristi, badanti, cuochi, sguatteri etc. molto più degli ingegneri informatici.
Questa è la realtà ed è inutile girarci intorno. Qualcuno, perciò potrebbe obiettare che il fenomeno della “disoccupazione tecnologica” non è nuovo già Marx ne parlava nell’800 (come vedremo tra breve), però perché questa realtà tragica potesse esplicarsi, senza mandare in frantumi il sistema, occorreva che vi fossero aree e settori in cui potesse essere recuperata la forza lavoro liberata dalla crescita della produttività. La legge enunciata da Petty nel 1672, secondo cui la forza lavoro emigrava dal primario (agricoltura) al secondario (industria) e poi al terziario (servizi), si fondava su un presupposto, implicito ma chiaro, che i due settori produttivi di base razionalizzavano (producevano di più con meno addetti), mentre il terziario faceva da spugna; per contro se anche il terziario copia l’efficientismo dell’industria, salta tutto ed esplodono le contraddizioni.
Ed è esattamente quello che è accaduto: non è la società che si è terziarizzata ma è il terziario che si è industrializzato, copiando l’efficientismo dell’industria, in ciò favorito dal fatto che nei servizi dominano imprese multinazionali, gigantesche che operano con criteri capitalistici (produrre di più con meno addetti) che in genere fanno parte di gruppi conglomerati integrati in cui ci sono imprese industriali, banche, finanziarie, imprese commerciali etc. I servizi si industrializzano e tendono a contrarre la forza lavoro occupata21: è sintomatico quello che avviene nel commercio, che è un settore che ancora sembra operare con criteri relativamente “labour intensive”, almeno in rapporto all’industria pertrolchimica o informatica: ebbene la grande catena Wal-Mart, che occupa due milioni di dipendenti in 15 paesi (il più grande datore di lavoro privato del mondo) , fattura 450 miliardi di dollari l’anno tra 1/4 e 1/5 del PIL italiano, se noi avessimo il rapporto prodotto-occupati della Wal-Mart produrremmo il nostro PIL con 9-10 milioni di addetti con un esubero di 12-13 milioni di unità. A livello mondiale il fatturato della Wal-Mart è di un 1/160 circa del PIL mondiale. Se il mondo imitasse la Wal-Mart potrebbe ottenere lo stesso volume di ricchezza con 320 milioni di lavoratori più o meno, ed in questo caso l’esubero supererebbe i 2 miliardi di lavoratori. Il terziario privato, dunque, non può svolgere alcuna funzione di spugna e rimane quindi il terziario pubblico. In USA nel periodo 1950-1966 un quarto dei nuovi posti di lavoro è stato creato nel settore pubblico22; ancora durante la crisi del ’73 – ’75 il settore pubblico ha svolto una funzione di spugna della disoccupazione. Ma c’è un problema: i posti di lavoro nel pubblico impiego richiedono soldi e risorse, se lo Stato non li ha non li può creare e dopo il 1973-75 la situazione si appesantisce: l’evasione fiscale insultante ed elevatissima ed il debito crescente impediscono allo Stato di svolgere questa sua funzione essenziale all’equilibro del mercato del lavoro, per cui occorrerebbero delle risorse che non ci sono più.
I contrappesi alla disoccupazione sono esauriti irrimediabilmente e la disoccupazione stessa esplode, anche se le statistiche si affannano a mascherare il problema chiamando i disoccupati con nomi diversi (inattivi, scoraggiati, missing men) e considerando i lavoratori parziari o precari allo stesso modo dei lavoratori a tempo pieno e indeterminato; è la tipica politica dello struzzo che risolve il problema guardando dall’altra parte.
In parte diverso è il problema dei paesi emergenti dove il livello di produttività del lavoro è molto più basso che nell’area dei paesi ricchi, in Cina siamo al 5% in media della produttività dei paesi avanzati (con punte del 15%), mentre in India siamo addirittura al 2%, eppure la disoccupazione e, soprattutto la sottoccupazione (piaga ancor più grave come si è visto), imperversano. Perché?
Il problema in quella parte del mondo (dove vivono oltre 5 miliardi di persone) è aggravato dalla piaga della sovrapopolazione, di cui vedremo tra breve le cause sociali25. Dove si lavora con metodi arcaici puoi creare masse enormi di disoccupati (o sottoccupati) anche se utilizzi tecniche da società industriale del XIX secolo, usare il telaio meccanico al posto del telaio a mano, oppure macchine primitive dove si usavano solo martelli, scalpelli, badili (o solo le mani), può avere effetti dirompenti. Ciò del resto avveniva anche nell’Inghilterra del XIX secolo, scrive Marx:
“Se si dice che in Inghilterra sarebbero richiesti 100 milioni di uomini per filare con il vecchio filatoio tutto il cotone che oggi viene filato a macchina da mezzo milione, questo naturalmente non significa che la macchina abbia preso il posto di quei milioni di uomini mai esistiti. Significa soltanto che per sostituire le macchine da filare occorrerebbero molti milioni di operai. Se invece diciamo che in Inghilterra il telaio a vapore ha buttato sul lastrico 800 mila tessitori, non si parla di macchinario esistente che dovrebbe essere sostituito da un dato numero di operai, ma si parla di un dato numero, esistente, di operai, che di fatto è stato sostituito ossia soppiantato dalle macchine”.
E qui si parla dell’Inghilterra, un paese con una popolazione irrisoria rispetto all’India o alla Cina attuale e di tecniche che oggi sono tecniche da archeologia industriale, che a quel tempo, però, erano tecniche capital intensive e che oggi invece sarebbero considerate labour intensive. La verità è molto semplice, per chi voglia vederla, la tesi efficientista per cui devi ossessivamente produrre di più con meno addetti in un mondo popolato da oltre 7 miliardi di individui è semplicemente assurda: l’aumento della produttività deve tradursi in riduzione di orario per tutti, senza produrre riduzione di occupati, in un’ottica che metta il lavoro e non il profitto al primo posto, ciò che nel capitalismo è ovviamente impossibile. La tesi secondo cui ciò che va bene alla General Motors deve andare bene all’economia, è assurda come evidenzia il massacro occupazionale che si è verificato nell’industria USA dal 2000 al 2010: ciò che va bene alla GM può essere un disastro per l’economia nel suo complesso.
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