Il drammatico racconto di un vecchio marinaio delle condizioni in cui versa la più grande distesa d’acqua marina della terra.
L’oceano Pacifico è morto, è svuotato di ogni vita. Ci sono solo rifiuti e barche per la pesca industriale intente a saccheggiare accuratamente quel poco che è ancora rimasto.
Sta facendo il giro del mondo, sui media di lingua inglese, il racconto struggente, tragico e a suo modo poetico di un marinaio, Ivan Macfadyen (foto), che ha ripetuto la traversata del Pacifico effettuata dieci anni fa. Allora fra l’Australia e il Giappone bastava buttare la lenza per procurare pranzo e cena succulenti. Stavolta in tutto due sole prede. Dal Giappone alla California, poi, l’oceano è diventato un deserto assoluto formato da acqua e rottami.
Nessun animale. Non un solo richiamo di uccelli marini. Solo il rumore del vento, delle onde e dei grossi detriti che sbattono contro la chiglia. Il racconto di Ivan Macfadyen, vecchio marinaio col cuore spezzato dopo 28 giorni di desolata navigazione nel Pacifico, è stato raccolto dall’australiano The Newcastle Herald ed è stato variamente ripreso da decine e decine di testate, tutte in inglese.
Macfadyen ha navigato con il suo equipaggio a bordo del Funnel Web sulla rotta Melbourne -Osaka – San Francisco. Dice di aver percorso in lungo e in largo gli oceani per moltissimi anni, dice di aver sempre visto uccelli marini che pescavano o che si posavano sulla nave per riposarsi e farsi trasportare. E poi delfini, squali, pesci, tartarughe… Stavolta nulla di tutto ciò: nulla di vivo per oltre 3.000 miglia nautiche.
Unica apparizione, poco a Nord della Nuova Guinea, quella di una flotta per la pesca industriale accanto ad una barriera corallina. Volevano solo il tonno, tiravano e ributtavano in mare – morta – ogni altra creatura marina. E poi la parte più allucinante del viaggio, quella dal Giappone alla California, costantemente accompagnata dalla gran quantità di rottami trascinati in mare dallo tsunami del 2011, quello che ha innescato la crisi di Fukushima.
Rottami, rottami grandi e piccoli ovunque: impossibile perfino accendere il motore. Rottami non solo in superficie ma anche sui fondali, come si vedeva chiaramente nelle acque cristalline delle Hawaii. E poi plastica, rifiuti di plastica dappertutto. Nel racconto di Ivan Macfadyen un solo elemento è direttamente riconducibile ai tre reattori nucleari in meltdown sulla costa giapponese: dice di aver raccolto campioni destinati ad essere esaminati per la radioattività e di aver compilato durante il viaggio questionari periodici in seguito a richieste provenienti dal mondo accademico statunitense.
Però non si può non pensare a Fukushima quando Macfadyen afferma che nelle acque del Giappone il Funnel Web ha perso il suo colore giallo brillante e quando dice che uno dei pochissimi esseri viventi incontrati dal Giappone alla California era una balena che sembrava in fin di vita per un grosso tumore sul capo. Sui social e nei commenti sul web si fa un gran parlare della relazione fra Fukushima e l’assenza di esseri viventi fra Giappone e California.
Io sottolineo tre elementi: primo, la sorgente di radioattività di Fukushima, sebbene molto intensa, paragonata alla vastità dell’oceano diventa come uno sputo in un fiume; secondo, nei dintorni di Fukushima e prima di diluirsi nella vastità dell’oceano la radioattività effettivamente si accumula nella catena alimentare e vi resterà per molti decenni; terzo, una desolazione vasta e assoluta come quella raccontata da Macfadyen si sposa benissimo con gli effetti della pesca industriale dissennata, senza bisogno alcuno di scomodare la radioattività i cui effetti sensibili – stando alle informazioni note – si limitano al tratto di mare davanti ad una parte delle coste giapponesi.
Il Pacifico è morto – si è rotto, per usare l’espressione di Macfadyen – e l’ha ucciso il genere umano, che sta al pianeta come una nuvola di cavallette sta ad un campo di grano. Macfadyen, raccolta il The Newcastle Herald nel seguito della storia, non ha voluto rilasciare altre interviste dopo quella che ha fatto così tanto rumore. Desidera però che il mondo sia consapevole di quanto egli ha visto. Accontentiamolo.
L’isola di plastica del Pacifico
Ci sono voluti undici anni di misure, ma alla fine la quantità di plastica che galleggia al centro del Pacifico Settentrionale, la cosiddetta “Great Pacific Garbage Patch” è stata determinata con una certa accuratezza. Si tratta di un’immensa massa di spazzatura che vaga nell’Oceano Pacifico: oltre 21 mila tonnellate di microplastica, in un’area di qualche milione di kmq con una concentrazione massima di oltre un milione di oggetti per kmq. L’accumulo è noto da parecchio tempo, perlomeno dalla fine degli anni ’80, e ha un’età di oltre 60 anni.
Un gigantesco vortice di correnti superficiali ha concentrato in quest’area i rifiuti formati principalmente da materiali plastici gettati o persi da navi in transito, o scaricati in mare dalle coste del Nord America e dall’Asia. Questa concentrazione, oltre che dall’effetto focalizzante delle correnti, dipende dal fatto che la plastica non è biodegradabile e permane per tempi lunghissimi nell’ambiente. Una lentissima degradazione a opera principalmente della luce del Sole, scompone i frammenti plastici in sottili filamenti caratteristici delle catene di polimeri. Questi residui, non sono metabolizzabili dagli organismi, e finiscono per formare un vero e proprio “brodo” nell’acqua salata dell’oceano.
Effetti tossici
Gli effetti per l’ambiente non sono stati ancora studiati in maniera approfondita e appaiono di difficile valutazione data l’estensione del fenomeno e le scale temporali associate, ma sono probabilmente importanti. Si pensa soprattutto alle alte concentrazioni di PCB (molto tossici e probabilmente cancerogeni) che possono entrare nella catena alimentare visto che i filamenti plastici sono difficilmente distinguibili dal plancton e quindi ingeriti da organismi marini, ma anche alla capacità della microplastica di fornire un supporto alla proliferazione di colonie microbiche di patogeni. Più in generale, è preoccupante la presenza di rifiuti pervasivi e tossici, in un ecosistema fondamentale, durante periodi di decine o centinaia di anni.
Anche nel Mediterraneo?
L’Isola di Plastica, che non e’ presente solo nell’Oceano Pacifico ma anche in Atlantico e probabilmente in Mediterraneo, non è solo un disastro ambientale incalcolabile ma è la metafora più precisa e terribile del fallimento del nostro modello di sviluppo. E’ un’ isola in mezzo all’oceano, quindi non è di nessuno, e nessuno se ne assume la responsabilità, tanto che i dati scientifici sono frammentari e acquisiti per la maggior parte con il contributo di associazioni ambientaliste come la SEA (Sea Education Association) che ha raccolto i dati dell’ultimo studio pubblicato su Environmental Science & Technology. E’, infine, la materializzazione del nostro incubo da “apprendisti stregoni” in un Pianeta che pretendiamo di controllare attraverso scorciatoie di comodo, che non prendono in considerazione l’impatto delle nostre azioni sull’ambiente e che, inevitabilmente, ci si ripercuotono contro.
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