La spinta alla cooperazione nasce da un interesse egoistico. Per questo bisogna prendere le distanze da una metodologia di indagine della realtà che rimuove la centralità dell’individuo nella costruzione dei legami sociali. E’ quanto sostiene Giovanni Jervis nel suo ultimo libro «Individualismo e cooperazione». Ma così facendo l’autore cancella il carattere storico degli stessi concetti. Tratto da Il Manifesto, 27 febbraio 2003.
E’ stata la teoria dei giochi a fornire a biologi e psicologi la «cassetta degli attrezzi» necessaria per stilizzare le forme più semplici della competizione e della cooperazione. Il rapporto tra individui è da allora visto come il confronto tra «razionalità limitate» alla ricerca della migliore strategia per affrontare una situazione «incerta».
L’antica querelle se sia l’individuo ad essere il prodotto della società o la società ad essere il prodotto degli individui ha nella psicologia un suo particolare campo di battaglia. Negli ultimi cento anni, infatti, questa disciplina ha compiuto un tragitto analogo a quello che Marx, nell’Introduzione ai Grundrisse, racconta aver percorso l’economia politica. Così come quest’ultima si costituì come disciplina a sé stante non appena pervenne, per via d’analisi, a isolare concetti e relazioni relativamente semplici (lavoro, bisogno, scambio) con i quali rappresentare in modo «concreto» le totalità viceversa immediatamente «astratte» che le si paravano innanzi (la popolazione, lo stato, il mercato mondiale), allo stesso modo – come racconta Giovanni Jervis in questo suo ultimo lavoro (Individualismo e cooperazione. Psicologia della politica, Laterza, pp. 271, € 16) – la psicologia moderna non parte più «dall’alto», cioè dal mondo socialmente evoluto e dall’autoconsapevolezza dell’adulto, per poi esercitare la riduzione critica e scendere introspettivamente a esplorare l’inconscio e l’influenza degli istinti, ma muove da talune relazioni «semplici» (come funzionano le connessioni fra cellule nervose e in che modo apprendono gli organismi «umilissimi», come i vermi e le lumache) per poi «salire» verso i comportamenti più articolati degli animali e, mano a mano, verso la mente umana e i suoi aspetti sociali e culturali.
Due le conseguenze di rilievo per chi voglia dedicarsi allo studio della vita sociale. In primo luogo, per comprendere come si struttura la cooperazione, bisogna obbligatoriamente prendere le mosse da ciò che, scrive Jervis, «vi è più di elementare nella mente di tutti», pena la produzione di teorie psicologiche approssimative (se non proprio erronee). In secondo luogo, occorre abbandonare quell’anti-individualismo metodologico che, fino a poco tempo fa, aveva improntato di sé le cosiddette scienze sociali: esso, infatti, non appare ulteriormente difendibile di fronte alla moderna psicologia di ispirazione darwiniana, che
«ha dimostrato che la cooperazione e perfino l’altruismo non si affermano contro l’interesse `egoistico’ dell’individuo, ma precisamente a partire da quest’interesse».
È questo, in sintesi, il punto d’approdo della transizione culturale che ha avuto luogo in Occidente a partire dalla rivoluzione del `68. Già nella seconda metà degli anni Settanta, ricorda Jervis, inizia infatti una sorta di «rivincita» del naturalismo, non solo nella psicologia e nella linguistica, ma anche e specialmente nelle scienze sociali, dove l’individualismo metodologico celebra nuovi fasti contro l’opposta tendenza di matrice «progressista» (le virgolette, agli occhi dei critici, sono d’obbligo) che aveva dominato la scena nei trent’anni precedenti – la progressiva svalutazione della macroeconomia keynesiana a vantaggio della microeconomia ne è indubbiamente uno degli esempi più cospicui. Parallelamente, si assiste alla crisi della concezione anti-biologistica del funzionamento della mente umana: l’ipotesi che l’intelletto sia anche qualcosa che risponde a «leggi di natura», considerata fino a quel momento come una minaccia all’autonomia della coscienza e alla libertà della cultura, regredisce via via che il marxismo e la sua idea di fondare un’oggettività della vita sociale nella dialettica del conflitto di classe cedono il passo a concezioni che privilegiano l’autonomia autocostitutiva di «moltitudini» insofferenti verso qualunque forma di autorità, sia essa quella del potere o delle «competenze». E benché, non di rado, questa tendenza sfoci nell’eccesso opposto del «relativismo culturale» e del «multiculturalismo», dietro i quali cresce l’idea un po’ balzana che ognuno abbia il diritto di sostenere quel che gli pare, purché sia in buona fede (salvo poi meravigliarsi quando qualcuno giunge a dire che, siccome tutto è «interpretazione», perfino dell’Olocausto si può discutere se sia realmente accaduto o meno), il suo nocciolo fecondo – secondo Jervis – consiste proprio nell’aver rivalutato l’individuo come produttore di società, aprendo così la porta alla possibilità che le scienze sociali (e in primo luogo la politica) recepissero i progressi nel frattempo compiuti dalla biologia e dalla psicologia.
Ora, tanto i primi (sintetizzabili nel duplice principio secondo cui non esiste una netta linea di demarcazione fra le specie animali e quella umana e non è possibile separare i fattori genetici che incidono sullo sviluppo morfologico di un organismo da quelli che ne indirizzano lo sviluppo comportamentale), quanto i secondi (riassumibili nella scoperta che esistono due sistemi motivazionali fondamentali, quello autoaffermativo, volto alla ricerca del proprio interesse e, proprio per ciò, passibile di indurre alla competizione, e quello cooperativo, che comprende la disponibilità a stare e fare insieme, a chiedere e dare aiuto) mostrano, secondo Jervis, «che le vere unità operative della vita sociale non sono i gruppi ma precisamente gli individui»: per quanto si trovi costantemente immerso in una rete di nessi comunicativi e di significati condivisi, è il singolo, infatti, a muoversi, pensare, decidere; è per il singolo che si pone il problema di sopravvivere, di riprodursi e di creare reti di sicurezza; è il singolo ad amare e a dedicarsi agli altri e a desiderare di essere amato ed accudito dagli altri ed è ancora il singolo a elaborare strategie e a formare alleanze e legami più o meno durevoli.
Non può meravigliare, allora, che sia stata la teoria dei giochi a fornire a biologi e psicologi la «cassetta degli attrezzi» necessaria per stilizzare le forme più semplici della competizione e della cooperazione: il senso ultimo delle ricerche compiute sui geni da Maynard Smith e Dawkins, sugli spinarelli da Milinski, sui pipistrelli vampiri da Wilkinson, nonché sulle molteplici modalità della socializzazione umana sta, infatti, nel convincimento che l’agire «interindividuale» – si tratti di due geni, due pesci, due scimmie o due esseri umani – può essere opportunamente rappresentato come un confronto fra «razionalità limitate» alle prese con il problema di individuare la «strategia» migliore per affrontare una situazione «incerta», vale a dire una situazione in cui il risultato conseguibile dall’uno è inscindibilmente legato al comportamento non perfettamente prevedibile dell’altro, e richiede un grado più o meno consistente di «fiducia», pena – come sottolinea Jervis – il naufragio della cooperazione e l’approdo di entrambi i giocatori alla situazione per nulla soddisfacente del «dilemma del prigioniero». Sotto questo profilo, nota ancora Jervis, la novità della psicologia di impronta darwiniana non sta certo nell’aver «schiacciato» riduzionisticamente la natura umana sulle specie animali, ma nell’aver consentito la chiarificazione di concetti tipici dell’universo antropologico (come «emozione», «coscienza di sé», «legame fra individui», «competizione», «inganno», ecc.) mediante lo studio di come essi si presentano negli animali.
Sennonché, per quanto la teoria dei giochi ambisca a fornire modelli di cooperazione-competizione talmente «generali» da poter essere ritenuti «naturali», bisogna andar cauti. C’è, infatti, un rischio nel metodo di «salire dall’astratto al concreto», che – come ha spiegato Marx – consiste nello scambiare il processo in virtù del quale il pensiero riesce ad appropriarsi del concreto con il processo di formazione del concreto stesso. Benché sussistano casi in cui il cammino del pensiero astratto corrisponde al processo storico reale e in cui, quindi, la comparsa della determinazione più semplice precede quella della determinazione più complessa, in generale è vero il contrario, cioè che le astrazioni più generali (le relazioni più semplici) compaiono solo là dove si è manifestato il più ricco sviluppo concreto: «le categorie più astratte, sebbene siano valide – proprio a causa della loro natura astratta – per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è di determinato in questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena validità solo per ed entro queste condizioni», leggiamo ancora nell’Introduzione ai Grundrisse. In quest’ottica, non direi che, nel confronto con il mondo animale, l’universo antropologico abbia acquistato nuove caratteristiche: al contrario, è il comportamento animale a essersi chiarito una volta guardato con la lente dei «concetti tipici» della psicologia degli umani, a conferma che l‘anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia e non viceversa.
È questo il motivo di fondo che mi spinge a dubitare della tesi secondo cui gli «individui» costituirebbero le «naturali» unità operative della vita sociale. Un’analoga presunzione epistemologica, come si ricorderà, coltivò l’economia politica: quando giunse a isolare le «relazioni generalissime» del valore di scambio e del valore d’uso, subito saltò a dire (e a ben vedere lo dice tutt’ora) che si trattava di determinazioni «naturali» dello scambio, mentre si trattava di astrazioni storicamente determinate, proprie della forma delle relazioni sociali tipiche del modo di produzione capitalistico. Ma se è plausibile sostenere che ciò che è più semplice è di norma un risultato e non un punto di partenza, non dovremmo concludere – con Marx – che gli «individui» senz’altra determinazione rappresentano le «forme elementari» di una conformazione sociale più complessa ed evoluta di quelle riscontrabili agli albori dell’umanità? E non dovremmo chiederci, allora, di quale società gli individui possono ambire a costituire il «cominciamento», ossia ciò che si dà immediatamente all’analisi?
Un principio di risposta, al riguardo, si può rinvenire in un testo da poco ripubblicato e che – benché apparentemente lontanissimo per tematiche e modo di trattazione – si presta ad una lettura complementare rispetto al saggio di Jervis: si tratta di Thomas H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale (a cura di Sandro Mezzadra, Laterza, pp. 98, € 15. Sulla ristampa del celebre saggio dello studioso inglese ne ha già scritto su queste pagine Bruno Accarino il 3/9/2002), nel quale è racchiusa l’omonima e celeberrima lezione pronunciata dal sociologo inglese a Cambridge nel 1949.
Testo davvero centrale per intendere l’evoluzione del pensiero occidentale nel quarto di secolo successivo alla sua pubblicazione, il suo significato fondamentale, per ciò che qui interessa, si può riassumere nella considerazione per cui l’individuo diventa l’unità operativa della vita sociale con l’apparire del Welfare State, allorché viene dotato di «un formidabile apparato di diritti» che gli permettono non solo di difendere la propria libertà «dallo Stato» e di partecipare alle decisioni che coinvolgono la collettività in cui è inserito, ma soprattutto di rivendicare un adeguato livello di benessere e sicurezza economica: giacché, se è vero che «la libertà personale emerge […] come esperienza di libertà mentale e come possibilità soggettiva di riflessione e di scelta» (Jervis), è altrettanto vero che, senza il generale miglioramento delle abitudini alimentari, dell’igiene, della qualità delle abitazioni, dell’istruzione, della salute, che lo Stato sociale ha reso possibile, nessun «individuo» avrebbe mai fatto la sua comparsa sulla scena della storia (e della psicologia); avremmo continuato ad avere, come in passato, «gruppi» (tribù, gentes, classi), di cui gli individui erano semplici membra o, come gli «eroi», personificazione.
È proprio la teoria dei giochi a darcene conferma, allorché individua come presupposti per l’instaurarsi di un’efficace cooperazione la ripetizione costante del gioco, la completezza delle informazioni circa le scelte effettuate in passato dagli avversari e la relativa limitatezza del numero dei partecipanti: simili condizioni, infatti, erano tipiche della Gemeinschaft premoderna, nella quale ogni defezione era sanzionata dalla censura collettiva e non esisteva alcuna alternativa al modello di cooperazione prevalente, salvo che il deviante fosse disposto a rischiare l’ostracismo o la morte. In comunità del genere, una situazione come il «dilemma del prigioniero» non era nemmeno pensabile (e difatti, fino al 1950, nessuno ci aveva pensato).
Diventa, al contrario, possibile quando, tramite il Welfare State, la società «libera» gli individui, attribuendo loro dei diritti da far valere eventualmente contro se stessa. In condizioni del genere, in cui la forma delle relazioni sociali nasconde alla consapevolezza collettiva i legami materiali che connettono tutti e ciascuno, gli individui possono ben dimenticare di essere un mero «cominciamento» e fantasticare di essere un «intero» in sé e per sé posto e, dunque, dar luogo a comportamenti «non-cooperativi» (speculare in borsa, evadere il fisco, inquinare l’ambiente). E per quanto Jervis si sforzi di sottolineare la matrice «naturale» dell’altruismo, ancora la teoria dei giochi – vero metalinguaggio dell’individualità – ci spiega che, se non si danno istituzioni capaci di ridurre a «rischio» socialmente calcolabile l’incertezza sull’altrui cooperazione, sarà la defezione a prevalere.
La lezione di Marshall, tuttavia, è chiara e (purtroppo) confermata dalle vicende degli ultimi vent’anni: i diritti individuali sono subordinati ai «piani nazionali», il che equivale a dire che non ci possono essere «diritti sociali» se tutti si comportano da free-rider. Se vogliamo mostrare la «razionalità» dell’altruismo o del dono nella società moderna, converrà muovere da qui e lasciar perdere i vermi e le lumache: la «semplicità» delle loro relazioni difficilmente ci servirà a comprendere la «complessità» delle nostre e accrescerà, invece, il rischio che ne finiamo travolti. Come i prigionieri del dilemma.
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