Questo bell’articolo di Luigi Cavallaro spiega attraverso la logica economica, spesso controintuitiva, la natura ideologica dei concetti di risparmio e austerità e prende posizione nel dibattito critico a favore di Keynes (qui la tesi contraria).
«Ha una ricetta per salvare le casse dello stato?», chiesero una volta ad Alberto Sordi. «È una ricetta semplicissima», rispose l’Albertone nazionale: «Si chiama risparmio. Si prendono i conti dello stato e si dice per esempio: tu, magistrato, guadagni un milione al mese di meno; tu, deputato, due milioni di meno; tu, ministero, devi diminuire le spese per la carta, il telefono, le automobili (il che sarebbe anche positivo per il traffico e l’inquinamento), e così via, informando mensilmente gli italiani, alla televisione e sui giornali, dei risparmi ottenuti. Allora si potrebbero chiedere sacrifici a tutti: diventerebbe una gara a chi è più bravo».
Era il 1995 e c’era ancora la lira, ma quella ricetta di politica economica ha lasciato il segno. Si dovrebbe chiamarla Sordinomics, in omaggio alla lingua madre della «scienza triste», perché non c’è dubbio che ad essa si ispirano le prescrizioni dell’Unione europea e, qui da noi, il loro esecutore (alias l’esecutivo) e i suoi tanti corifei, che non mancano un solo giorno d’informarci non solo dei risparmi ottenuti, ma soprattutto di quelli che si potrebbero ottenere se solo non avessimo sul groppone una «casta» di nullafacenti affamati e corporativi.
Nel paese delle banane
In effetti, è una constatazione di senso comune supporre che un individuo che si sia indebitato oltre il limite consentitogli dal proprio reddito debba ridurre i propri consumi e risparmiare di più per ripagare gli interessi e il capitale preso a prestito. Ma non sempre il senso comune equivale al buon senso: in generale, anzi, è sbagliato ritenere che ciò che vale per l’individuo singolo debba valere per la società nel suo complesso. Lo spiegò magistralmente Keynes nel 1930, nel corso di un’audizione al Macmillan Committee, ricorrendo ad un paradosso che né il compianto Sordi, né i corifei del governo, né il governo stesso (per non dire dei suoi mandanti europei) debbono aver compreso.
Supponiamo – disse all’incirca Keynes – che si dia una comunità che possieda solo piantagioni di banane. Il lavoro dei suoi membri consiste solo nel coltivarle: essi producono banane e consumano banane, in una quantità tale da garantire l’equilibrio tra le remunerazioni dei lavoratori occupati e il prezzo delle banane vendute. In questo Eden, viene improvvisamente lanciata una campagna per il risparmio: «Se non diminuiamo il consumo delle banane, ipotecheremo il benessere delle generazioni future», ammoniscono alcuni, e altri di rincalzo: «Stiamo distruggendo la capacità del pianeta di produrre banane, di questo passo non dureremo!». I lavoratori sono tipi un po’ bonaccioni e si fidano: il consumo delle banane prenderà quindi a diminuire. Ma siccome sul mercato l’offerta di banane è rimasta nel frattempo invariata, il prezzo di esse scenderà, consentendo ai lavoratori di acquistare esattamente la stessa quantità di banane di prima e per giunta pagandole di meno. A questo punto i lavoratori (e specialmente il loro partito, che è fatto persone altrettanto bonaccione) si convincono che sta andando tutto benissimo: la campagna per il risparmio non solo preserverà le generazioni future e lo stesso pianeta dai rischi di un consumo eccessivo e imprevidente, ma ha pure ridotto il costo della vita: cosa desiderare di meglio?
Sfortunatamente, non siamo ancora alla fine della storia. La diminuzione del prezzo delle banane, infatti, ha causato perdite gravissime agli imprenditori che conducono le piantagioni. Costoro allora cercheranno di rifarsi e allo scopo negozieranno con i sindacati dei lavoratori riduzioni del salario e licenziamenti collettivi. Non riusciranno però a evitare le perdite, perché riducendo le loro spese in salari ridurranno anche i redditi dei lavoratori e la loro possibilità di consumare banane. Il prezzo delle banane scenderà così di nuovo e da capo si avvierà un altro ciclo di perdite, riduzioni dei salari e licenziamenti, fino a quando tutti resteranno senza lavoro, la produzione delle banane si interromperà definitivamente e l’intera popolazione morirà di fame.
L’articolo dimenticato
In una conversazione radiofonica del 1932, Keynes spinse il paradosso all’estremo opposto: giunse infatti a dire che erano il peso della disoccupazione e la diminuzione del reddito nazionale provocata dal risparmio a mettere sottosopra il bilancio pubblico, ed esortò il suo governo a spendere e a indebitarsi per avviare lavori pubblici che riassorbissero i disoccupati, ché il bilancio si sarebbe aggiustato da sé.
Ne potremmo dedurre che egli visse in un Paese e in un’epoca assai più liberali dell’Italia del tempo presente, dove i media e l’industria culturale sono rigidamente monopolizzati dalla Sordinomics, ma non è questo che qui interessa. Il problema di cui vorremmo dire è un altro: in che misura la sua critica e le sue proposte possono ritenersi valide per l’oggi? In che termini, cioè, possiamo scansare i paradossi del risparmio dell’economia politica di Alberto Sordi con il paradosso della spesa in debito dell’economia politica keynesiana?
Circa un anno dopo quella conversazione radiofonica di Keynes, un economista polacco allora pressoché sconosciuto, Michal Kalecki, pubblicò un breve saggio su un’importante rivista economica del suo Paese. Purtroppo, tanto il saggio quanto la rivista erano scritti interamente in polacco, di conseguenza nessuno o quasi se ne accorse. Kalecki sviluppava un’interessante analogia tra la spesa pubblica e le esportazioni: dopo aver rilevato che un aumento di queste ultime poteva incrementare il reddito nazionale solo nella misura in cui avesse dato luogo ad un’eccedenza rispetto alle importazioni (diversamente, i profitti totali sarebbero rimasti immutati e non ne sarebbe venuto alcuno stimolo all’investimento), suggerì che, se lo stato avesse preso denaro a prestito dai capitalisti del proprio paese e ne avesse speso il ricavato in lavori pubblici, il risultato in termini di aumento dei profitti sarebbe stato analogo a quello di un avanzo del commercio estero: all’eccedenza delle esportazioni avrebbe fatto da pendant la vendita delle merci necessarie per la realizzazione dei lavori pubblici e la produzione si sarebbe avviata verso la ripresa.
Tirannia dei prestiti
Bisognerebbe aggiungere che l’ipotesi di Kalecki presupponeva l’operatività della teoria del moltiplicatore che in quegli stessi anni andava elaborando un discepolo di Keynes, Richard Kahn, ma sono dettagli. Più importante è invece ricordare che Kalecki suggeriva che un analogo stimolo all’investimento poteva venire qualora le «esportazioni interne» (cioè gli acquisti di beni e servizi da parte dello stato) fossero state pagate con un finanziamento da parte della Banca centrale. Questa era un’affermazione molto pericolosa, perché una volta che lo stato si fosse affrancato dalla tirannia dei prestiti dei capitalisti, avrebbe potuto di fatto appropriarsi dei beni e servizi che acquistava senz’altro controvalore che non fosse la sua propria solvibilità, la quale a sua volta non avrebbe avuto altra base se non il potere di levare imposte e aumentare l’offerta di mezzi creditizi. Emergeva insomma un potere della collettività di «appropriarsi» di tutte quelle risorse che, sulla base del modo di produzione capitalistico, rimanevano disoccupate: un potere che, logicamente, andava a sovvertire il funzionamento stesso del capitalismo.
Ma il «socialismo in un solo paese» è difficile a farsi, almeno fintanto che non si è in grado di provvedere con la produzione interna alle risorse e alle attrezzature necessarie per soddisfare la domanda di pieno impiego. Kalecki, che era stato intelligente lettore di Marx e Rosa Luxemburg e ben conosceva le difficoltà in cui si era dibattuto il neonato stato dei soviet fin dall’epoca della Nep, a causa del rifiuto dei contadini di conferire quella parte del raccolto che doveva servire a finanziare le importazioni, ne era affatto consapevole: se all’espansione delle «esportazioni interne» non si fosse accompagnato un contemporaneo aumento delle esportazioni verso l’estero, lo stimolo agli investimenti privati sarebbe presto venuto meno, perché l’aumento della domanda interna per investimenti e consumi avrebbe recato con sé l’aumento delle importazioni e, per questa via, l’effetto espansivo dovuto alle spese pubbliche sarebbe stato compensato (o più che compensato) da quello depressivo dovuto al deterioramento dei conti con l’estero. E poiché il ricorso alla svalutazione della moneta nazionale poteva solo in parte (e solo temporaneamente) ovviare al problema, ne veniva che quanto più una data economia fosse dipesa dalle importazioni, tanto più rapidamente l’espansione indotta dalle «esportazioni interne» avrebbe toccato il suo punto di massimo e gli effetti moltiplicativi della spesa avrebbero preso a disperdersi all’estero.
Convergenze parallele
Keynes non amò mai Kalecki: non solo perché questi arrivò a Cambridge in un momento in cui Keynes era troppo preso dalle sue idee per prestare attenzione a quelle altrui, ma soprattutto perché Kalecki era un comunista, mentre Keynes diceva che la lotta di classe l’avrebbe sempre visto dalla parte della educated bourgeoisie. (Una volta commentò questa loro distanza dicendo che «olio e aceto non si mescolano».) Indipendentemente da quel che pensassero l’uno dell’altro, è però un fatto che l’ultimo scritto di rilievo di Keynes – alludiamo alla celebre proposta di una Clearing Union internazionale (1943) – si proponesse di rimediare al problema individuato da Kalecki, ossia di ovviare agli squilibri delle bilance commerciali generati da avanzi o disavanzi persistenti. Per dirla con Joan Robinson, che fu allieva dell’uno e grande amica dell’altro, la loro vicenda intellettuale testimoniava in effetti di un fatto piuttosto comune nella storia della scienza, cioè che quando lo sviluppo di una disciplina fa sorgere un nuovo e imponente problema, due menti originali possono trovare la stessa risposta all’insaputa l’uno dell’altro.
Il problema era appunto il potenziale squilibrio delle bilance di pagamenti. Una volta scontato che le «esportazioni interne» potevano facilmente generare disavanzi commerciali tali da rendere ulteriormente impraticabile la strada del sostegno pubblico alla domanda, col rischio di far precipitare il paese in deficit verso lo spettro della deflazione, si trattava di escogitare uno stratagemma tale per cui l’onere dell’aggiustamento non ricadesse più totalmente sui paesi debitori: uno stratagemma, cioè, che obbligasse in qualche modo i paesi creditori a rimettere in circolo le proprie eccedenze, esattamente come – grazie alle imposte e alla spesa pubblica – avviene fra regioni in surplus e regioni in deficit all’interno di una stessa nazione.
Non è il caso di ricordare qui la proposta keynesiana, peraltro assai nota. Può semmai essere opportuno rilevare come la crisi economica che stiamo tuttora attraversando smentisca la plausibilità dei suggerimenti che ci vengono dalla Sordinomics oggi imperante, secondo cui l’emersione e la persistenza di squilibri globali nei flussi di importazioni ed esportazioni potrebbe essere risolta solo con la deflazione della domanda dei paesi in deficit: basti pensare che, dopo l’esplosione della crisi dei subprime, la contrazione della domanda globale americana ha bensì ridotto il saldo negativo della bilancia commerciale statunitense, ma contemporaneamente ha contratto la domanda mondiale per le esportazioni della Cina e soprattutto della Germania, con la conseguenza di diffondere la crisi nel resto del mondo industrializzato.
Forzati all’inattività
Keynes era convinto che, se si fosse dato corso alla sua proposta di Clearing Union, ciascun paese avrebbe potuto godere dell’immenso incremento della ricchezza che il progresso tecnico aveva reso possibile e che, con un piano statale che governasse i ritmo degli investimenti e assicurasse l’equilibrio della bilancia dei pagamenti (anche attraverso la limitazione dei movimenti di capitali e la centralizzazione delle operazioni di cambio), sarebbe stato possibile costruire «la Nuova Gerusalemme con quel lavoro che nella nostra precedente vana follia mantenevamo inutilizzato e infelice in un ozio forzato». Kalecki aggiunse che se la lotta di classe fosse riuscita a imporre un programma per la piena occupazione, il capitalismo avrebbe incorporato una riforma fondamentale, altrimenti si sarebbe dimostrato «che è un sistema fuori moda che deve essere buttato via». Entrambi furono dell’avviso che la deflazione portava con sé la disoccupazione, il fascismo e la guerra. Ridotta all’osso, questa è ciò che con buona approssimazione possiamo oggi definire come «la teoria keynesiana». Di fronte a quanti straparlano di una sua inadeguatezza sopravvenuta, vien fatto di dire che meriterebbe il Nobel per la pace: certo assai più di un’Unione europea che ricorda in modo preoccupante quel famoso borghese piccolo piccolo.
Il Manifesto, 1 novembre 2012
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