Traggo da Le parole e le cose questa interessante intervista a Luigi Zoja sull’identità maschile di cui lo psicanalista afferma con forza la natura costruita, in opposizione a quella femminile che vorrebbe “naturale”, perché sviluppatasi filogeneticamente durante l’evoluzione della specie (va detto che lo studioso cita qui Margaret Mead che sostenne però la tesi contraria). La tesi, quasi etologica, dello studioso è dunque che l’identità maschile è un prezioso portato culturale della civiltà umana (ammesso che ne esista una) attualmente in declino, mentre quella femminile sarebbe più salda, perché legata a forme di istintualità corporea che la renderebbero meno volatile.
Per iniziare questa nostra conversazione sulle forme ambivalenti dell’identità maschile, le chiederei di descrivere anzitutto la qualità peculiare che la differenzia dalla sua identità opposta, quella femminile.
Premetto che la tesi che sosterrò deriva dalla lettura delle opere di grandi scienziate, su tutte l’antropologa americana Margaret Mead e poi Helen Fischer, nota antropologa contemporanea. In poche parole la mia tesi è questa: se cerchiamo di ricostruire a tutti i livelli zoologici dell’evoluzione cosa possa essere definito ereditato e istintivo, vale a dire appartenente a noi in quanto corporeità animale, e cosa sia invece elaborato culturalmente, risulta chiaro che esiste una continuità del naturale nel femminile – anche solo per la simbiosi tra la madre e il piccolo. L’elemento materno è istintuale prima che culturale; e si tratta di un elemento molto profondo, se pensiamo che comincia a svilupparsi con i mammiferi, che compaiono sulla Terra circa 250 milioni di anni fa. (Questa generalizzazione non vale, però, se osserviamo i volatili, dove è molto frequente un nucleo familiare monogamo che per molti aspetti anticipa il nostro).
Nel corso dell’evoluzione i mammiferi specializzano il rapporto madre/figlio e non quello paterno. Qui possiamo iniziare ad introdurre l’ambivalenza fondamentale dell’identità maschile, che contrappone il padre al maschio fecondatore: la natura ha predisposto nel maschio solo la capacità di fecondare la femmina, non quella di accudire e proteggere la prole; i mammiferi generalmente conoscono il maschio genitore, ma non il padre. La parola stessa è carica di implicazioni culturali: “padre” deriva da una radice indoeuropea /pa/ che indica ‘nutrizione’, quindi quel prendersi cura in modo continuativo che nei mammiferi è proprio solo delle madri. In tutte le possibili ricostruzioni della storia dell’evoluzione zoologica (per le quali, però, ci mancano ancora molti anelli), anche quando con le scimmie o i grandi primati ci avviciniamo all’uomo, non troviamo – se non in rare eccezioni – forme di organizzazione del gruppo che facciano perno su un nucleo familiare monogamico. Come la maggior parte dei mammiferi, anche i gorilla o gli scimpanzè non conoscono ancora la funzione paterna e la famiglia nucleare monogamica: la fecondazione, e dunque il ruolo sociale del maschio, avviene solo per competizione e non attraverso un rapporto stabile. Se andiamo allo zoo possiamo vedere che il gorilla maschio è enorme, quasi il doppio della femmina; questo accade perché solo il più forte accede alla possibilità di generare discendenza e i caratteri genetici maschili che vengono trasmessi sono selezionati in questo senso. Un solo esemplare prevale sugli altri maschi e di solito il più forte feconda tutte le femmine. Del resto, cosa succede oggi da noi? Scomparendo il padre, torna il culto di Schwarzenegger. Per chi come me crede nell’inconscio collettivo, non ci sono dubbi che il ritorno di questa fascinazione abbia un significato preciso. Ma su questo tornerò più avanti.
Dunque, anche nei mammiferi più sviluppati e più prossimi alla specie umana troviamo un maschio genitore che vive in un gruppo con diverse femmine senza avere un rapporto diretto con la sua prole. Poi, però, si verifica un salto. Se studiamo le società umane più semplici, sia quelle antiche scomparse sia i cosiddetti fossili antropologici (gruppi di umani con organizzazioni tribali ancora primitive), ci imbattiamo subito nella comparsa del ruolo paterno, vale a dire del maschio che riconosce la propria discendenza e la protegge. E ciò vale anche se accettiamo l’ipotesi, più volte dibattuta, che le società più primitive possano essere state originariamente matrilineari o matriarcali: anche in esse infatti è presente una figura maschile stabile (spesso lo zio materno) e dunque la funzione psicologica del padre, vale a dire del maschio responsabile attento alla crescita dei discendenti.
Questa è l’invenzione del padre: non un semplice genitore biologico, ma una figura impegnata nella protezione e nella crescita dei piccoli. Quindi la paternità non è un semplice atto istintuale, ma un complicato gesto culturale attraverso cui il maschio si prende cura dei figli. Per questa ragione, come sostengo nel mio libro Il gesto di Ettore, sono convinto che la paternità sia fondamentalmente un’adozione: le sono necessarie intenzione e consapevolezza. Il diritto romano lo codifica in un rituale: il padre deve innalzare il figlio verso l’alto e così lo adotta.
Quello che risulta sorprendente, dunque, seguendo l’evoluzione dei mammiferi, è che sia proprio questo il salto che differenzia la specie umana: l’invenzione di un nucleo monogamico stabile in cui il maschio assolva una funzione paterna.
Secondo molte ricostruzioni, l’invenzione della famiglia come nucleo monogamico stabile risalirebbe al Paleolitico, quindi, più o meno, a 2 milioni di anni fa. Rispetto all’evoluzione dei mammiferi, la storia di questa invenzione, che è quella del padre, ha tutto sommato pochi anni.
Certo, forse anche meno di 2 milioni di anni, se si studiano gli ultimi ritrovamenti fossili. Una delle spie per capire la trasformazione del rapporto fra i sessi è il dimorfismo, vale a dire la differenza di grandezza fra corpo maschile e femminile. Fino a 2 milioni di anni fa la differenza è molto simile a quella dei grandi primati: il maschio è quasi il doppio della femmina. Dai 2 milioni di anni in poi le proporzioni si modificano fino ad arrivare alle attuali, dove la differenza è intorno al 15% di massa corporea in più nel maschio rispetto alla femmina. E quest’ultima evoluzione risale a 100-200 mila anni fa. In questo lasso di tempo si è costruita la funzione paterna.
Una delle caratteristiche fondamentali di quest’invenzione è lo spostamento dell’aggressività dalla competizione fra maschi per il possesso delle femmine alla conquista dello spazio esterno e del tempo, favorito dalla specializzazione monogamica. Questo spostamento può essere considerato il limite che segna, nella nostra specie, il passaggio da zoologia ad antropologia?
Credo che questo sia il passaggio fondamentale. Il maschile non paterno è animale, ed è per questo che ritorna prepotentemente sulla scena tutte le volte che l’educazione culturale si sfalda. L’identità maschile paterna è squisitamente culturale e va insegnata, ritualizzata, trasmessa; altrimenti si perde facilmente. Lo sostiene, e con molte ragioni, Margaret Mead. Non è come l’istinto che non ha bisogno di pedagogia perché è una forza innata, essendo stata selezionata in milioni di anni. Il paterno è un addomesticamento del maschile animale attraverso un’educazione che è tutta culturale.
Quali sono le figure mitiche che meglio rappresentano, secondo lei, i pericoli e i poteri del maschile non paterno?
Anzitutto quelle del ciclo di Troia. Ciò che Omero rappresenta è proprio il conflitto fra questo recente incivilimento e la possibilità del suo fallimento. Il primo conflitto “mondiale” dell’Occidente, per il quale si interrompe la vita quotidiana di un intero popolo e tutto è sospeso per una guerra assurda e lunghissima, si svolge per il possesso di Elena: è la guerra fra maschi per il possesso di un’unica donna. Per questa ragione il duello centrale, quello fra Achille ed Ettore, è emblematico: Ettore, infatti, a differenza degli altri guerrieri viene rappresentato anche come padre e come marito. È già una figura complessa, mentre Achille, e tutti gli altri Greci, sono solo guerrieri maschi.
Se si fa attenzione a come sono rappresentate le armature dei Greci è interessante notare che sono pensate più per intimorire che per l’utilità pratica nel combattimento. Certe vestizioni, come insegnano molti etologi della zoologia umana, come Irenäus Eibl-Eibesfeldt, sono semplici prolungamenti del comportamento animale. Le armature dei Greci sono spesso assurde, se non controproducenti ai fini militari: per esempio, gli elmi enormi con il crine mettono in risalto, invece di mimetizzare, il corpo di chi combatte. Per questa ragione i duelli dell’Iliade assomigliano molto ai duelli rituali dei maschi animali che, attraverso l’esibizione aggressiva del proprio corpo, cercano di far fuggire l’avversario intimorendolo prima del combattimento. Tutto questo in Omero, naturalmente, viene ulteriormente ritualizzato ed estetizzato, visto che durante il combattimento quasi ogni eroe pianta la lancia a terra e inizia a declamare – sono in fondo scene molto buffe: mentre volano frecce tutt’intorno, questi eroi ci raccontano il loro albero genealogico.
In tutto il ciclo troiano, dunque, viene messa in scena la lotta fra istinto maschile e scelta paterna, e anche l’Odissea ruota intorno a questo problema. Lo vediamo nello scontro fra Ulisse e il Ciclope, tutto forza fisica il secondo, tutto intelligenza il primo, ma soprattutto nella vittoria di Ulisse contro i Proci. Del resto, la figura di Odisseo è molto complessa: è un padre che pensa sempre al ritorno, eppure si lascia tentare da altre figure femminili e dalla curiosità di esplorare lo spazio.
Nell’Odissea, non a caso, per la prima volta ha molto risalto anche la figura del figlio: Telemaco in cerca del padre.
Sì, certo. Oltretutto, questo gioca a favore delle teorie per le quali il ciclo omerico è stato scritto dallo stesso autore ma in due tempi diversi: l’Iliade, il racconto della guerra e della violenza, in età giovanile; mentre l’Odissea, che è il racconto dell’esplorazione dello spazio e del ritorno alla responsabilità, in età paterna. E la continuità delle generazioni verrebbe riassunta nell’Odissea fin dalle prime immagini, quando Odisseo pensa ai tetti fumanti di Itaca, e con le successive peripezie del figlio.
Un’altra figura maschile fondamentale dell’Odissea sono naturalmente i Proci.
I Proci sono maschi non paterni e, infatti, vivono privi di qualsiasi dimensione temporale. Un po’ come si vive oggi, soprattutto il sabato sera. Ed è impressionante rilevare l’attualità di queste pagine o, quanto meno, la presenza profonda dentro l’animo umano di lontane e antiche eredità. Leggevo qualche giorno fa una bella riflessione di Aleksandr Solženicyn secondo cui le disposizioni dell’animo umano non cambiano; e se lo fanno, la velocità del cambiamento ha lo stesso ritmo del susseguirsi delle ere geologiche. Quindi, in qualche modo, siamo sempre allo stesso punto.
Spostando lo sguardo velocemente sulle figure femminili, forse si può notare che anche Penelope è l’esito di questa rivoluzione monogamica assediata dalla regressione zoologica. È molto diverso, infatti, il suo femminile, da quello di Calipso, di Circe o delle Sirene, tutte figure che vengono rappresentate come tentatrici e pericolose proprio perché foriere di regressione verso un maschile pre-paterno.
Mi sembra un’osservazione intelligente. Penelope è una figura di femminile materno, fedele al marito e alle generazioni. L’atto di tessere la tela è simbolico, si lega alla continuità delle generazioni perché quello che fa e disfa è il mantello in cui verrà avvolto il corpo di Laerte, una volta defunto. Ed è un atto bellissimo. E anche impressionante, se uno ci pensa: testimonia come la presenza della morte e del negativo sia vissuta come elemento costitutivo della vita quotidiana. Se pensiamo, viceversa, a come la società moderna censura e cancella la morte, che viene sbrigata come una disgrazia affidandola ad un meccanismo commerciale predisposto… siamo di fronte un vero e proprio capovolgimento. La rimozione è totale.
[1] L. Zoja, Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
Seconda parte
Uno dei miti su cui lei sta lavorando, e che mostra molto bene l’ambivalenza dell’identità maschile, è il mito dei Centauri.
Un anno fa mi è capitato di vedere al Louvre delle metope – purtroppo non ne ricordo la provenienza – e dei bassorilievi greci raffiguranti un gruppo di Centauri che rapiva donne Lapite. Non mi ero mai interessato alla figura del Centauro, ma, com’è evidente, il suo significato è estremamente pertinente. La mitologia sui Centauri non è estesa, le fonti sono soprattutto romane – Le Metamorfosi di Ovidio, anzitutto, poche le testimonianze greche. I Centauri sono un popolo interamente maschile – pochissime fonti rappresentano anche una “centauressa” – che conosce il rapimento come unica relazione con il sesso femminile. Nella radice latina di rapĕre è compresente il significato di ‘rapimento’ e di ‘stupro’, di atto sessuale forzato, che nell’antichità romana era per altro legato al diritto di guerra. In inglese, invece, abduction descrive letteralmente il rapimento; rape la violenza fisica. Ed è una modalità di relazione con il femminile estrema ed impressionante, l’unica che conoscono i Centauri. Del resto, la loro rappresentazione scissa, metà umana nella parte alta del corpo e metà animale in quella bassa, significa per immagini quello che il mito racconta: un maschile che non riesce a staccarsi dalla sua natura animale, che non riesce a completare la propria umanizzazione. E non a caso è la parte inferiore che è animale, quella legata alla parte riproduttiva. Per altro, mi sembra che il mito anticipi stranamente alcuni attuali fenomeni degenerativi. Penso al gang rape, la violenza di gruppo: i Centauri conoscono solo questo tipo di sessualità e sono, ed è molto interessante, sempre ubriachi, privi di coscienza. E tuttavia sarebbe una semplificazione sostenere che rappresentano una pura regressione animale, perché, in realtà, non esiste in nessuna specie animale questa pratica sessuale di gruppo violenta.
A questo proposito vorrei riprendere il concetto di pseudo-speciazione elaborato da Erik Erikson. L’essere umano è l’unico animale che commette l’assassinio interspecifico in modo regolare; lo praticano anche alcuni tipi di scimmie e di felini, ma solo in casi estremamente eccezionali. L’essere umano, invece, uccide i suoi simili perché non li percepisce più come appartenenti alla sua stessa specie. L’uomo riconosce gli altri esseri umani come simili attraverso la lingua o segni culturali come i vestiti, e non, per esempio, attraverso l’olfatto, come fanno in genere gli animali. Ciò non toglie che nella maggior parte dei casi la riproduzione intraspecifica avvenga comunque; come insegna il mito – Otello e Desdemona, Montecchi e Capuleti –, una volta superata la proibizione, che è sempre esterna e politica, la diversità attrae, perché attraverso ciò che è diverso l’uomo impara, conosce. Tuttavia, quando si parlano lingue troppo diverse, ci si veste in modo troppo diverso, si può percepire l’altro come non appartenente alla propria specie: e questo fa cadere l’inibizione ad uccidere. Questa è la pseudo-speciazione, un fenomeno culturale che rompe l’istinto e che quindi ci fa molto più distruttivi.
Quando viene meno l’aspetto maschile civile, quello del padre, si costruisce una pseudo-speciazione che separa il maschile dal femminile. Nel gang-rape l’uso indifferente di una violenza estrema, gli atti di sadismo che portano talora alla morte della vittima mostrano una modalità di relazione dove il femminile viene percepito come qualcosa di talmente diverso da sé da far cadere l’inibizione ad uccidere, come cade l’inibizione ad uccidere un popolo diverso.
Il più grosso episodio storico di stupri di massa è avvenuto in Germania, nel 1945: alla fine della Seconda Guerra Mondiale fu dato il via libera ai militari sovietici di violentare le donne tedesche. Purtroppo ha ragione Jung quando sostiene che combattere troppo un nemico può far diventare simili al nemico stesso, perché la brutalità con cui i militari sovietici hanno terrorizzato e stuprato le donne tedesche non ha nulla da invidiare alla pratiche naziste. Si consideri inoltre che l’Armata Rossa non dava licenze di alcun tipo: questo significa che la stragrande maggioranza dei militari era costituita da ragazzi che combattevano ininterrottamente da quattro anni di fila, visto che la guerra era cominciata nel giugno ’41. Non è difficile capire come questi giovani fossero ormai abituati ad una tale distanza dal femminile da percepire le donne come qualcosa di assolutamente altro, anche perché appartenenti ad un popolo diverso e nemico. Di nuovo, un caso di pseudo-speciazione. Ed è qualcosa che abbiamo rivisto, per esempio negli stupri etnici in ex-Jugoslavia, ed è un fenomeno ora diffusissimo soprattutto in Africa, nelle zone uscite da devastanti guerre civili come la Liberia, la Sierra Leone o le zone ad est del Congo. Battaglioni costituiti da ragazzi giovanissimi, a cui viene dato un kalashnikov in mano e che si abituano a combattere ed uccidere fin da piccoli, una volta cresciuti, e magari ormai disarmati, danno vita a bande di maschi pronte allo stupro di massa. Sono ragazzi che hanno conosciuto la violenza come unica modalità di relazione con l’altro; in questo caso, con il femminile.
Ma questo accade anche nel nostro ricco Occidente, dalle periferie alle scuole ricche del centro. Si pensi ad un caso di qualche mese fa: una banda di adolescenti ricchi ha isolato una ragazza che è stata poi stuprata a turno da tutti, per ore. La cosa impressionante è che, una volta interrogati, questi giovani non mostrano alcun senso di colpa per quanto commesso. E questo è davvero sconcertante, vista la facilità con cui oggi, in un Occidente laico e consumista, è possibile avere relazioni e rapporti sessuali con chiunque e di qualunque tipo. Il problema è dunque culturale: e può essere visto come la riattivazione, nell’inconscio sociale, del mito dei Centauri. Chiamiamolo, per comodità, centaurismo. Si tratta di un maschile violento che mette in atto possessioni di gruppo simili a quelle che i trattati di psichiatria – penso per esempio a quello scritto da Jasper – chiamano “epidemie psichiche”. Quello che impressiona è la fragilità individuale nascosta sotto queste pratiche di gruppo violente; una fragilità che negli ultimi anni è aumentata soprattutto, credo – e torniamo così al tema della nostra conversazione –, a causa della disattivazione della funzione paterna.
Con funzione paterna, naturalmente, non intendo semplicemente la presenza fisica di un maschio adulto, ma di quella che chiamerei la qualità paterna nell’educazione, qualunque sia la forma di famiglia vissuta. Penso alla capacità di dire no, di porre dei limiti, di creare un’economia mentale volta al risparmio delle energie psichiche nell’immediato in virtù di un progetto, di una preparazione di futuro, di una gratificazione differita ma più intensa e proficua. La qualità psicologica del paterno – ripeto: indipendentemente dal sesso di chi la eserciti – non coincide soltanto con ciò che è implicato da una diffusa banalizzazione del freudismo per cui il padre è l’elemento castrante – il famoso complesso di Edipo. Ricordiamoci che questo non è l’unico modo possibile di interpretare il paterno: quello di Edipo è sicuramente un mito interessante, insieme però a moltissimi altri che descrivono altre qualità e altre prerogative della funzione del padre; penso in particolare alla figura di Ettore. Se i Greci hanno fatto uso di molti miti, lo possiamo fare anche noi: non pretendiamo di derivare da un solo racconto l’unico modo possibile dell’essere paterno. Si può, per esempio, essere padri spiegando le ragioni del no, motivando la necessità della rinuncia in vista di un progetto e di una gratificazione maggiore. L’interdizione non deve essere necessariamente implicita, sadica, castrante; può essere spiegata e diventare ragionevole.
Nel Gesto di Ettore lei sostiene che anche la psicanalisi ha contribuito, nel suo settore specifico, all’eclissi della funzione paterna. La linea che da Freud arriva a Melanie Klein – la scuola analitica anglosassone – privilegia lo studio dei primi anni di vita del bambino, dunque il rapporto madre/figlio, l’elemento sensibile e corporeo dell’identità. In questa prospettiva l’elemento paterno, sociale, culturale passa decisamente in secondo piano.
Essendomi formato a Zurigo, per me è stato naturale dare la massima importanza all’elemento culturale e allo studio del mito come chiave d’accesso all’inconscio collettivo. Dal mio punto di vista di junghiano, certe importanti elaborazioni post-freudiane, in particolare della Klein e di Anna Freud non solo sono state particolarmente importanti come integrazioni alle mancanze della mia scuola analitica, ma costituiscono anche delle applicazioni intelligenti e corrette delle analisi di Freud, rivolte però a fasi sempre più precoci della vita umana. Naturalmente quello che avviene nella prima settimana, nel primo mese o nel primo anno di vita ha molta più importanza nella formazione di una persona di quanto possa accaderle al ventesimo anno; tuttavia questa impostazione è andata in una direzione che accomuna moltissime discipline e realtà sociali, nonché politiche: la concentrazione sull’individuo a discapito del sociale, cui corrisponde l’egemonia dell’aspetto biologico su quello culturale.
Più mi muovo verso l’origine, più il peso del culturale diminuisce: nei primi giorni di vita il bambino non è altro che il cucciolo di una specie animale molto differenziata. Gli puoi parlare fin che vuoi, lui sente la voce, ma non comprende i concetti. Non sa cos’è il mondo e dunque il contatto fisico, la soddisfazione corporea immediata è tutto; il resto è niente. È importante, naturalmente, approfondire e capire questo egoismo infantile primordiale, ma non lo si può assumere a modello generale, altrimenti ci si riduce a studiare solo ciò che è biologico e si annulla in un attimo ciò che è culturale e sociale. Certo, quest’ultimo aspetto è stato sopravvalutato negli anni Sessanta e Settanta: si pensava che cambiando la società non ci sarebbe più stata la nevrosi o la malattia mentale. Esagerazioni, ovviamente. Ma è innegabile, tuttavia, che sia indispensabile mantenere una correlazione molto stretta fra la componente biologica e quella sociale/culturale. Tutti i miei colleghi, soprattutto maschi, si sentono molto bravi quando si interessano a queste fasi primarie. Forse portando l’analisi verso forme di accoglienza materne cercano un sollievo dalla colpa del maschile.
Del resto un approccio esistenziale e culturale “materno” senza i limiti, i freni e i contenimenti della funzione paterna è altrettanto pericoloso.
Possiamo sostenere che il materno porti con sé una soddisfazione fisica e biologica – il nutrimento – concentrata sul presente; tende ad annullare il tempo. In fondo, che cos’altro è il consumismo se non il regno del potere materno sociale come soddisfazione orale, come nutrimento e soddisfazione immediata dei bisogni, senza pensare al futuro, voglio dire alle conseguenze individuali e sociali, nonché ambientali, che questo meccanismo di soddisfazione immediata comporta?
Proviamo ora a ragionare su una possibile genealogia di quest’eclissi del padre e del ritorno a forme di maschile non paterno. Le chiederei anzitutto di commentare questa frase tratta da Il gesto di Ettore: «La storia è riuscita a limitare solo gli eccessi paterni, non gli eccessi maschili» (p. 278.)
Mi rendo conto che è una frase un po’ forte. Proverò a delineare a grandi linee un’ipotesi interpretativa storica. È probabilmente con il cristianesimo, nel suo rovesciamento del monoteismo, che possiamo trovare una prima anticipazione di quella che poi sarà la crisi della funzione paterna. Con il cristianesimo il centro diventa il figlio che, bene inteso, parla in nome del padre: ma allo stesso tempo anticipa l’odierna “società dei figli” a relazione orizzontale. Certo, è un’anticipazione che apre molti problemi interpretativi; tuttavia è innegabile che con il cristianesimo la figura del figlio diventi centrale. Se poi con un salto arriviamo alle rivoluzioni moderne, quella francese e quella americana, troviamo in entrambe un attacco formidabile alle forme tradizionali d’autorità che però prepara anche le condizioni sociali e culturali del nostro presente, crisi della funzione paterna inclusa. Ciò che è nuovo nelle rivoluzioni moderne è infatti l’attacco complessivo alle strutture generali della società: una progressiva consapevolezza delle forme di potere interne alla stessa struttura familiare cresce insieme alla coscienza delle forme verticali del potere politico e sociale. Da qui si origina un lento, ma costante, sgretolarsi del patriarcato. Vengono giustamente criticati i suoi eccessi, ma con questi è il terreno generale del paterno che inizia a naufragare – non è forse un caso che il primo Edipo della cultura moderna sia stato scritto da Voltaire. Nello stesso periodo, la maledizione del padre verso il figlio diventa un tema iconografico abbastanza comune nella pittura; siamo di fronte all’esatto ribaltamento della benedizione biblica del patriarca.
La crisi del padre è un fenomeno molto complesso, di lungo periodo. Forse il momento dove la sua funzione è stata interpretata nel modo più interessante resta ancora quello della società greca. Non bisogna tuttavia confondere padre e patriarcato. In questa storia di lungo periodo viene attaccato il padre per gli eccessi del patriarcato; ma insieme agli abusi del secondo si è finito per sgretolare i valori del primo: la stabilità, la capacità di formare ed educare, la volontà di progettare il futuro… Si crea così una società culturalmente dominata dai giovani, fondata sull’apprendimento orizzontale che riapre, inevitabilmente, uno spazio di competizione maschile senza una controforza capace di contenerla dando valore al tempo. Come abbiamo già visto, è il padre che preserva e istruisce alla continuità nel tempo: insegna l’economia delle energie in virtù di una gratificazione differita più alta. Va ripetuto: i no paterni veri non sono semplicemente castranti, ma formativi. Per essere padre il maschio ha bisogno di questa continuità, la deve ipotizzare, la deve conoscere, la deve costruire. Deve sapersi muovere nel tempo. Se vogliamo seguire gli ultimi atti di questa storia, si può dire che la rivoluzione industriale prima e la società dei consumi poi danno il vero e proprio colpo di grazia alla dimensione paterna. La società dei consumi, in particolare, può essere letta, credo, come metafora di un rapporto sociale: quello di dipendenza materno, fatto di soddisfazione immediata e appagamento smisurato dei bisogni.
In mezzo sta l’epoca dei padri terribili: l’età dei fascismi e delle dittature. I vari padri terribili del primo Novecento, lungi dal rappresentare un ritorno del patriarcato antico e del potere culturale del paterno, rappresentano storicamente l’apertura al maschile distruttivo. Si pensi anche solo alle guerre, ai milioni di nuclei familiari rimasti senza padre; ma soprattutto, se si pensa alla Prima Guerra Mondiale, bisogna prestare attenzione ai reduci di guerra. I reduci riabilitano l’orda primordiale dei fratelli, vale a dire la banda di maschi orizzontale non paterna: di qui in Italia verrà il fascismo, per esempio. È falsa, dunque, la percezione che in quegli anni si ritorni a forme culturali patriarcali; i fascismi sono invece un fenomeno della modernità dispiegata. Con i fascismi il padre scompare. I dittatori sono maschi alfa, aggressivi e distruttivi: tolgono la vita, scatenano guerre.
Dietro queste nuove figure di falsi padri si potrebbe nascondere dunque l’archetipo di Crono, il padre divoratore dei propri figli?
Ne sono convinto. Sono padri che uccidono i figli – pensiamo alla celebre frase di Mussolini: «ho bisogno solo di qualche migliaia di morti per sedermi al tavolo della pace». E questa, per altro, era una pura illusione, tanto quanto la strategia hitleriana del Blitzkrieg: un’altra illusione paranoica. Essendo paranoico, infatti, Hitler attacca tutti preparando la propria stessa sconfitta. Ormai mi sono convinto che nella Seconda Guerra Mondiale la vittoria su quel male che è stato il nazismo derivi molto più dalla sua paranoica autodistruttività che dall’azione degli alleati. Comunque è fuori discussione che entrambi, Mussolini e Hitler, siano figure divoratrici, non paterne. Passati loro, tuttavia, non abbiamo certo un ritorno ad una società più equilibrata. Quello a cui assistiamo è lo scatenamento senza freni del consumismo, fatto di spreco, distruzione dell’habitat, lusso competitivo e consumi d’ostentazione. Si pensi che lusso deriva da luxus, ed ha la stessa radice, per esempio, di lussazione: una cosa andata fuori posto. L’etimologia segnala la patologia…
Un elemento su cui potremmo tornare è il modo attraverso cui la rivoluzione industriale, quindi le macchine e la conoscenza sociale che incorporano, ha agito direttamente sull’eclissi della funzione paterna.
Per capire quello che è successo basta fare un esempio. Nei romanzi popolari scritti nella seconda metà dell’Ottocento appare con una certa insistenza una figura nuova: quella del padre miserabile, povero, senza lavoro e malato. Magari anche alcolizzato, visto che l’alcolismo diventerà, non a caso, un piaga sociale di massa proprio in quegli anni. La rivoluzione industriale si abbatte sulla struttura sociale, la disintegra e la riorganizza. Quello che questi romanzi mostrano è quanto l’impatto sulla dimensione paterna sia fortissimo e devastante. Padri maledetti o padri che maledicono i figli; e poi padri degeneri, privi d’autorità all’interno della famiglia e all’esterno, nella società. È una vera novità storica. Come è ovvio, inizialmente, questa trasformazione coinvolge anzitutto i ceti popolari; ma la disgregazione della dimensione paterna raggiunge, abbastanza velocemente, tutte le classi sociali.
È molto interessante la simmetria che lei propone fra progressiva disattivazione della funzione paterna e scomparsa dei rituali. Questi ultimi hanno sempre avuto, sul versante maschile, lo scopo di introdurre l’adolescente ad un’età qualitativamente diversa della vita: l’età della responsabilità paterna. Tutto questo scompare con il consumismo che blocca l’adolescenza impedendone la trasformazione.
È un problema che ho trattato inizialmente in un volume sulla tossicodipendenza, Nascere non basta [Milan, Cortina, 2003] e poi nella parte finale di Il gesto di Ettore. È un problema che mi insegue da tempo. Avendo lavorato per alcuni anni in una clinica per tossicodipendenti, ho avuto modo di riflettere su questa condizione. L’ho studiata collegandola, oltre ad altri fattori, agli effetti del consumismo. Il consumismo indebolisce la capacità di autodisciplinarsi proprio perché introduce in una dimensione temporale che conosce solo il presente dell’immediato soddisfacimento dei bisogni. È un rituale sociale inconscio dominato dall’impazienza. E questo orizzonte, come ormai sappiamo, è quello contro cui lotta la dimensione paterna.
Il cerchio in qualche modo si chiude. Se scompare l’una, l’altra diventa dominante. Ma l’esigenza di trasformarsi e di crescere, che non può essere annullata, cercherà allora altre strade. Nei casi più sfortunati, rimarrà incastrata nei falsi rituali mortiferi propri dell’uso delle droghe. I rituali antichi, che accompagnavano la crescita, volevano spingere il giovane verso l’autonomia. L’uso temporaneo e guidato di sostanze stupefacenti faceva parte di un’iniziazione: era un uso temporaneo e guidato, questo va ripetuto. Lo scopo poteva essere l’attraversamento di forme di morte apparente o di stati modificati di coscienza, come ampliamento della consapevolezza del singolo legato ai limiti e ai pericoli dell’esperienza. Lo scopo era comunque quello di rendere il giovane adulto, autonomo, di introdurlo in un’età diversa della vita. Quello a cui assistiamo oggi è invece molto diverso: i rituali legati all’uso di droghe sono impliciti, orizzontali, quindi non controllabili. Per questo, invece di far crescere, bloccano il giovane nella ripetizione di una dimensione terribilmente distruttiva: la dipendenza.
Quale può dunque essere il destino dei figli in un’età dominata dall’eclissi della funzione paterna?
Una società dominata dalla scomparsa del padre lascia gli adolescenti in una condizione molto difficile, non c’è dubbio: pensiamo a Pinocchio, alla sindrome di Lucignolo. Lasciamo perdere la fine del racconto, dove, non si capisce bene perché, il burattino di legno si trasforma in un bravo ragazzo: è la parte delle
peripezie quella importante. Bene, queste prove non portano da nessuna parte. Lucignolo, che è il mentore di Pinocchio, non lo può far crescere. Non è un caso che, in assenza di figure paterne, l’unica possibilità di crescita sia guidata dalla fata, vale a dire da un femminile caricaturale che conosce il senso di colpa come unica strategia di disciplina.
Questo racconto mi sembra esprima molto bene le aporie in cui siamo costretti. I giovani devono trovare un’alternativa a Lucignolo. Per ora, l’unica soluzione che mi sembra di poter indicare, da terapeuta, è proprio l’analisi psicanalitica. Il senso delle soglie della vita che una volta veniva spiegato e garantito dal passaggio dei rituali, forse oggi può essere recuperato – anche se è un’operazione artificiale – per via psicologica, come ricostruzione ritualizzata della vita personale. Con Jung, parlerei di individuazione come possibilità di crescita. Ognuno deve poter comprendere la storia di cui è effetto ed essere capace di trasformarla. Solo a questo punto potrà scegliere da sé i rituali più adeguati ad esprimere il significato che potrà avere per lui la vita.
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