Se guardiamo al cuore filosofico del postmoderno ci troviamo di fronte a un paradosso istitutivo. L’idea di fondo era quella di una grandissima istanza emancipativa, che affondava le sue radici in Nietzsche (che a giusto titolo Habermas, nel Discorso filosofico della modernità, ha definito la «piattaforma girevole» che traghetta la filosofia verso il postmoderno) e ovviamente nella Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno. La richiesta di emancipazione, che si appoggia sulle forze della ragione, del sapere e della verità che si oppongono al mito, al miracolo e alla tradizione, giunge a un punto di radicalizzazione estrema e si ritorce contro sé stessa. Dopo avere adoperato il logos per criticare il mito, e il sapere per smascherare la fede, le forze decostruttive della ragione si rivolgono contro il logos e contro il sapere, e inizia il lungo lavoro della genealogia della morale, che svela nel sapere l’azione della volontà di potenza. Il risultato è che ogni forma di sapere deve essere guardata con sospetto, appunto in quanto espressione di una qualche forma di potere. Di qui una impasse: se il sapere è potere, l’istanza che deve produrre emancipazione, cioè il sapere, è al tempo stesso l’istanza che produce subordinazione e dominio. Ed è per questo che, con un ennesimo salto mortale (quello espresso lucidamente da Vattimo nel Soggetto e la maschera, che esce nel 1974 e che reca il sottotitolo emblematico Nietzsche e il problema della liberazione) l’emancipazione radicale si può avere solo nel non-sapere, nel ritorno al mito e alla favola, e in ultima istanza in ciò che Vattimo, molti anni dopo, definirà apertamente come un «addio alla verità». L’emancipazione girava a vuoto. Per amore della verità e della realtà, si rinuncia alla verità e alla realtà, ecco il senso della «crisi dei grandi racconti» di legittimazione del sapere con cui, nel 1979, Lyotard ha caratterizzato il postmodernismo filosofico. Il problema di questa dialettica è però, semplicemente, che lascia tutta l’iniziativa ad altre istanze, e l’emancipazione si trasforma nel suo contrario, come risulta evidente da quanto è accaduto dopo.Questa dialettica infatti non ha semplicemente un versante storico-ideale, ma comporta delle precise attuazioni pratiche. Si incomincia appunto con le affermazioni decostruttive, tipicamente con tesi che mettono in dubbio la possibilità di un accesso al reale che non sia mediato culturalmente, e che, insieme, relativizzano il valore conoscitivo della scienza, seguendo un filo conduttore che da Nietzsche e Heidegger porta a Feyerabend e Foucault. Tolto il caso di Heidegger, dove l’elemento conservatore e tradizionalista è largamente prevalente, la decostruzione della scienza e l’affermazione del relativismo degli schemi concettuali fanno parte precisamente del bagaglio emancipativo che sta alla base dell’impulso originario del postmoderno, ma il loro risultato è diametralmente opposto. In particolare, le critiche alla scienza come apparato di potere e come libero gioco di schemi concettuali hanno dato vita a quello che potremmo chiamare un «postmodernismo conservatore».
Che è tipicamente quello a cui ricorre Ratzinger quando si serve di Feyerabend per sostenere che dopotutto quello tra Galileo e Bellarmino era un semplice confronto tra schemi concettuali equivalenti, e che i conflitti interni alla razionalità umana sono in quanto tali irrisolvibili, perché la soluzione si trova solo facendo ricorso a una razionalità superiore. Così in un discorso tenuto a Parma nel 1990 (poi raccolto in Svolta per l’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti, Edizioni Paoline, 1992, pp. 76-79), e divenuto celebre perché provocò, anni dopo, la protesta di un gruppo di professori della Sapienza, che trovarono non del tutto congruo che un detrattore della scienza inaugurasse l’anno accademico.
Finisce qui la dialettica del postmoderno? Fortunatamente no. Restiamo ai primi anni Ottanta, che sono quelli in cui si svolgono, su «alfabeta2», due dibattiti, prima sulla crisi della ragione, poi appunto su moderno e postmoderno. Questo secondo dibattito fu inaugurato dalla traduzione parziale del discorso tenuto nel 1980 da Habermas in occasione del conferimento del Premio Adorno, e che consisteva nel sostenere che il postmoderno costituiva una interruzione del progetto dell’Illuminismo. Il che era letteralmente vero (e lo appare tanto di più alla luce di quanto è accaduto dopo), e del resto era in linea con l’analisi proposta l’anno prima da Lyotard nella Condizione postmoderna, dove – come ho ricordato – il postmoderno era presentato come il venir meno dei «grandi racconti» di legittimazione del sapere, ossia dell’Illuminismo, dell’Idealismo e del marxismo (in quanto congiunzione dei primi due). Bene, tutto questo è ovvio. Ciò che è meno ovvio, tuttavia, a vederlo con il senno di poi, è constatare che tre filosofi che sono stati sistematicamente associati al postmoderno, ossia Foucault, Derrida e Lyotard, già all’inizio degli anni Ottanta – e di fronte alla piega che stava prendendo il postmoderno – hanno manifestato l’esigenza di un ritorno all’Illuminismo.
È tipicamente il caso di Lyotard, che nel 1983, e con quella che è una aperta dissociazione dalle vie prese dal postmoderno, propone, con Il Dissidio, un ritorno a Kant, che sarà poi il filo conduttore dei suoi ultimi lavori, in cui, per esempio, si è concentrato sul sublime come contrasto alla industria culturale (come nell’«intervento italiano» pubblicato su «alfabeta» nel gennaio 1982 e ripubblicato in questo numero di «alfabeta2» a p. 38). Lo stesso fenomeno si può registrare in Derrida, che intitola il suo intervento al convegno di Cerisy-la-Salle in suo onore (siamo nel 1980), Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia, dove per l’appunto se la prende con i segnali di «fine d’epoca» che accompagnavano il dibattito sul postmoderno, e che nel corso degli anni intensificherà i suoi interventi a favore di un «Illuminismo a venire» e dei «Lumi del XXI secolo». «Le correnti che si chiamano “postmoderne” – ha scritto Derrida–, lo fanno come se avessero superato l’epoca dei Lumi, e non credo che sia così. Si tratta di rilanciare l’idea dei Lumi, non come si è manifestata nel XVIII secolo in Europa, ma rendendola contemporanea, situandola nel progresso della ragione» («La Jornada», Città del Messico, 3 maggio, 2002).
Ma sotto questo profilo, il caso più clamoroso è proprio quello di Foucault, che poco prima di morire, nel 1984, scrive un commento a Che cos’è l’Illuminismo? di Kant, dove lancia l’idea di una «ontologia dell’attualità» e si colloca sulla linea della scuola di Francoforte: il suo scritto sarà poi commentato da Habermas (e la traduzione italiana di entrambi i testi si trova in «Centauro», 11-12, 1984). E che, nel corso tenuto a Berkeley nel 1983 e poi al Collège de France, si concentra proprio sulla parresia, sull’uso greco di dire la verità anche a costo della morte (Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France (1983-1984), a cura di F. Ewald, A. Fontana e F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2009, la cui traduzione italiana esce da Feltrinelli proprio in questi giorni). Foucault, insomma, si congeda dal mondo con un elogio del progetto emancipativo dell’Illuminismo e con una presentazione della morte filosofica di Socrate, ossia di colui che aveva sostenuto che «la vita senza ricerca non ha valore». E non si tratta di una trasformazione repentina, dal momento che tutto il ritorno agli antichi, che caratterizza il percorso di Foucault nella seconda parte del suo lavoro, consiste nella revisione dell’ipercostruzionismo delle sue prime posizioni: colui che aveva detto che «l’uomo è una invenzione recente» si era spinto poi nell’ultima parte del suo lavoro a indagare la stilizzazione greca della vita, e persino il significato del detto stoico del «vivere secondo natura».
Credo che da questa vicenda intellettuale si possa trarre almeno un insegnamento. Per quanto distinte tra loro, figure come Lyotard, Derrida e Foucault, quelle appunto che vengono in mente quando si pensa ai padri filosofici del postmoderno (sebbene il primo ne sia stato più che altro il battista in filosofia, e gli altri due non si siano mai dichiarati postmoderni), sono l’espressione di un illuminismo radicale, o se si vuole di una dialettica dell’illuminismo, vale a dire del paradosso che ho enunciato all’inizio di queste note. È per questo che, senza contraddizione, hanno potuto essere gli ispiratori di un movimento che si è evoluto in termini conservatori e anti-illuministi e, insieme, si sono legittimamente trovati a rivendicare l’istanza emancipativa dell’illuminismo. È ovvio che uno può continuare, se lo desidera, a ripetere ancora oggi le parole d’ordine del Derrida iper-decostruzionista che negli anni Settanta sosteneva che nulla esiste al di fuori del testo, oppure insistere, questa volta con il Foucault anteriore al ripensamento della Volontà di sapere, che il mondo è il semplice risultato dei nostri schemi concettuali. Ma forse è meglio, almeno se si tiene all’istanza emancipativa che ha animato il lavoro di questi autori, cercare di non chiudere gli occhi di fronte agli esiti involutivi della dialettica del postmoderno, e rilanciarne l’insegnamento nel senso di un nuovo illuminismo piuttosto che di un vecchio oscurantismo.
Permettetemi di chiudere con una glossa di carattere personale e apologetico, giacché nei dibattiti degli ultimi mesi su postmoderno e nuovo realismo mi è capitato di veder presentata la mia posizione realista come una folgorazione tardiva sulla via di Damasco. Non è così. La dialettica esposta all’inizio era già, alla lettera, il contenuto di «Invecchiamento della “scuola del sospetto”», ossia del mio contributo al Pensiero debole, nel remoto 1983, e poi di tanti saggi successivi. Coerentemente con quelle posizioni, ho deciso (o più esattamente mi si è imposta la necessità), nel corso del decennio successivo, di passare dal postmoderno al realismo, ossia di rivendicare il ruolo dei fatti contro il primato delle interpretazioni e ancor più l’esigenza del riferimento a un mondo reale, non costruito e «inemendabile», proprio nel momento in cui il postmoderno, diventato ideologia dominante, affermava che tutto è socialmente costruito. Ora, aderire al postmoderno, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, significava seguire una prospettiva di emancipazione radicale. Rifiutare il postmoderno in nome del realismo, negli anni Novanta e in seguito, ha significato, per me, continuare a seguire una prospettiva di emancipazione radicale, proprio nella misura in cui, per contro, il postmoderno si era trasformato in populismo. A questo punto, semmai, restare fedeli al postmoderno, continuare a ripeterne il verbo malgrado le plurime e talvolta drammatiche realizzazioni ha significato venir meno all’ideale emancipativo che stava alla origine del movimento. O, quantomeno, ha fornito una ennesima conferma del detto «errare è umano, perseverare è diabolico».
Dibattito: addio al postmoderno? Tra postmoderno e metafisica
Il dibattito tra Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris parte dalla domanda se la verità sia un antidoto al potere populistico e autoritario o se, al contrario, essa stessa, la verità, sia una forma del potere populistico e autoritario.
Nella tesi di Vattimo la verità è un prodotto del potere. Questo significa però dire che la verità, che è un prodotto del potere, non è la verità. Il potere fabbrica una verità, che dunque non ha le caratteristiche della verità. La premessa di Vattimo (o la conseguenza, fa lo stesso) è che la verità stessa, però, non esiste. Ora, lasciando a Vattimo l’argomentazione (il quid iuris) della tesi che sostiene che “la verità non esiste”, resta che, proprio seguendo la sua tesi, l’identificazione di potere e verità non può darsi, per la semplice ragione che manca uno dei termini del rapporto, ossia la verità. Dunque il potere non dà forma alla verità. Lo stesso argomento di Vattimo, mentre riduce la verità al potere, sottrae la verità dal rapporto con il potere. Questa tesi (per come essa si presenta nel dibattito) non dimostra che la verità debba necessariamente essere un prodotto del potere.
In realtà, nella prospettiva di Vattimo mi pare che si trovi l’idea che il potere dia forma alla metafisica, come ad esempio accade nella religione o in certe ideologie politiche. Mi pare che sia questo il concetto di “verità” a cui Vattimo dichiara di dare addio: la verità della metafisica. Il potere fabbrica una verità metafisica, oppure, più semplicemente, una metafisica (e la relativa ideologia). Bisognerebbe decidere poi se la verità sia la stessa cosa della metafisica, ma questa è un’altra questione, che la tesi di Vattimo né nega né afferma. Si capisce comunque perché Vattimo concluda che, se si pensa criticamente, la scelta politica si debba riconoscere come infondata.
Quanto invece al discorso sulla “verità empirica” (quella che, in modo grossolano, si dice a volte “verità empirica”), questa sembra che, per Vattimo, sia fuori discussione: essa non cade in dubbio. La “verità” dei fatti è qualcosa che si trova al di fuori della competizione sul senso. Sul fatto che “piove” Vattimo concede di poter essere d’accordo con Bush, mentre con Bush evidentemente non è d’accordo sul senso delle cose, ovvero sulle scelte etico-politiche. In breve, Vattimo sembra rivolgere la sua critica all’idea della verità che offre la metafisica, dando per assunto che verità e metafisica siano lo stesso. Il postmoderno si caratterizza, da questo punto di vista, come una particolare declinazione del congedo dalla metafisica.
Maurizio Ferraris assume invece che la verità sono proprio i fatti. Che questa sia essenzialmente una tesi metafisica non lo spaventa né lo fa arretrare di un passo. La metafisica, detto in breve, guarda all’essenza del mondo, all’oggettività come coincidenza con l’essere: per la metafisica la realtà coincide con la verità.
Dunque, mentre per Vattimo la verità coincide con la metafisica, e i fatti sono realtà empiriche e contingenti, per Ferraris, al contrario, la verità coincide con i fatti. Per Vattimo la metafisica deve ridursi a ideologia (potere, autorità); mentre, nei termini posti da Ferraris, la metafisica resta ferma come coincidenza di verità e realtà oggettiva. Sulla realtà dei fatti (“piove”) è d’accordo anche Vattimo, mentre la divergenza (e il tratto metafisico della posizione di Maurizio Ferraris) si trova sull’assegnazione ai fatti del senso dell’episteme (perché questo, in definitiva, è il realismo).
Detto questo, la funzione antipopulistica non è un tratto essenziale e specifico del realismo: infatti, il criterio confutativo che oppone un fatto (realtà) a una menzogna (che non piove quando piove) non scaturisce esclusivamente dalla metafisica del realismo (la realtà è fondata = vera) e non è messo in questione dall’ermeneutica (che non nega il fatto, ma il senso universale e fondato di verità della realtà).
Detto in altri termini, non c’è bisogno di una metafisica per essere persuasi che piove. Allo stesso modo non è necessaria una metafisica per decidere che un determinato evento politico è censurabile. Ma appunto, questo non toglie né aggiunge nulla, sul piano teoretico, al realismo.
Dal postmoderno non si passa dunque necessariamente al populismo, a meno che non si voglia sostenere che, per combattere il populismo, occorra la metafisica. Certamente, però, sostenere che una tesi filosofica è accettabile solo se non avvantaggia il populismo (o in generale una determinata politica), o, viceversa, che una teoria della verità forte è da negare e da respingere perché così si toglie un’arma dalle mani del potere, significa seguire un argomento retorico e appunto polemico. Che cade da solo, se non altro perché, se lo si adottasse, si ragionerebbe in modo populistico e/o fideistico, con evidente contraddizione. Alla filosofia, come in generale alla ricerca scientifica, non interessa l’esito etico-politico di una scoperta o di una tesi; non appena si pone un tale problema si esce dalla filosofia e si entra nell’ideologia. L’attribuzione (su quale base poi?) di un certa conseguenza disastrosa a partire da una tesi teorica è una variazione di quella fallacia che Leo Strauss definì con ironia la reductio ad Hitlerum. Oppure, se si preferisce, è una forma tipica della predica: “Bada che se accetti questa tesi, seguirà questa catastrofe”. Sempre e comunque siamo nel populismo.
La discussione su verità e potere (o populismo) era però funzionale, nel dibattito, ad una domanda di fondo: ovvero se l’agire etico-politico progressista non dipenda da una visione forte della verità e se non risulti invece impedito da una filosofia debole. Non è forse, ci si chiede, la filosofia postmoderna, con la sua riduzione dei grandi progetti etico-politici della modernità a meta-racconti, responsabile dell’afflosciarsi della tensione progressista?
Il problema sembrerebbe empirico o culturale. Ma posta sul piano empirico o culturale questa tesi può tranquillamente essere rovesciata: si potrebbe infatti sostenere, a torto o a ragione, che è stata la crisi delle ideologie a determinare l’insorgere del postmodernismo, almeno in una sua declinazione. Qui però interessa la questione filosofica e non quella storico-culturale ed empirica.
In termini filosofici, però, bisogna rilevare che esiste una fortissima tradizione moderna (non postmoderna) che scopre il valore dell’agire etico-politico esattamente a partire dall’abbandono della Verità, ovvero dalla critica della metafisica dell’agire eteronomo. L’autonomia morale kantiana, pur con le sue difficoltà, ha affermato una volta per tutte che la scelta etico-politica è tale solo se è una scelta “autonoma”: la scelta morale è tale in quanto è libera, ovvero non deducibile meccanicamente da una metafisica e dal suo legalismo. Sono le religioni che assumono un sistema di leggi che trasformano l’agire morale in un processo meccanico, da cui la scelta morale è di fatto esclusa. In ultima analisi, l’eteronomia porta alla conseguenza di “annullare” l’agire etico-politico. L’essere/verità, assunto come fondamento della prassi, toglie la libertà, che, come insegnava Kant, è però la ratio essendi della vita morale. Non è per niente evidente, dunque, che la crisi dei fondamenti comporti una crisi della forza dell’agire etico-politico, perché caso mai sembra si possa dire il contrario.
Un aspetto essenziale del dibattito riguarda poi il senso da assegnare alla scienza rispetto all’agire etico-politico. La questione riguarda l’“oggettività” della scienza. Flores d’Arcais osserva, a ragione, che la tesi di Vattimo non dovrebbe inficiare la validità della scienza (e si chiede perché Vattimo non lo riconosca). Egli parla di un’oggettività critica, e l’aggettivo è importante. L’oggettività della scienza non è l’oggettività della metafisica (anche se il senso comune tende a confondere i due concetti). Giustamente, Severino nel suo intervento ricorda la tesi hegeliana sulla certezza. L’oggettività del “certo” non è il “vero”.
La scienza non deve essere confusa con la metafisica, anche se spesso accade il contrario. Hume sapeva benissimo che la scienza è legata a un fondo di scetticismo. Ma non perché egli credesse che l’esperienza ci inganni, bensì, al contrario, proprio perché considerava l’esperienza l’unica fonte di conoscenza. Infatti, se l’esperienza offre solo fatti singolari, individuali, e se essa è l’unica forma di conoscenza, se ne ricava che non possiamo ricavare leggi universali e necessarie che riguardino l’esperienza. L’abitudine, dice Hume, ci porta a supporre una qualche costanza nei fenomeni; ma l’abitudine non è l’esperienza: è, appunto, l’abitudine. Noi vediamo una palla che ne colpisce un’altra e i due movimenti, ma non vediamo il principio di causalità. Questo lo aggiungiamo per abitudine.
Lo scetticismo di Hume è relativo a un concetto di verità che non è quello del senso comune; è la verità che Kant intende ricostruire e che assume come “universale e necessaria” (pour cause riferibile ai fenomeni e non alle cose in sé). Per cui non ha molto senso opporre che “bene o male” ci possiamo fidare dell’esperienza, perché il punto non è questo. Che dell’esperienza ci si possa fidare “bene o male” era un’informazione che era arrivata anche a Hume. E questo per non considerare il fatto che l’attività sperimentale mette, non a caso, continuamente in discussione anche le modalità dell’esperimento e i suoi presupposti (non parliamo poi degli sconvolgimenti che portano nell’”ontologia quotidiana” la fisica quantistica e la teoria della relatività).
Ora, anche senza considerare Hume, il carattere empirico della scienza non dovrebbe scandalizzarci. Ciononostante, non è raro incontrare dei sostenitori della scienza empirica che si dichiarano nemici della metafisica, e che però concepiscono la scienza empirica esattamente nei termini della metafisica.
La rappresentazione epistemologica della scienza oscilla (spesso anche tra gli scienziati, che non necessariamente sono anche filosofi) tra la posizione di Galileo Galilei, che pensava (anche) che il libro del mondo fosse stato scritto da Dio in caratteri matematici (e appunto si è parlato in questo caso di pitagorismo o di platonismo), e le concezioni di Hume o di Ernst Mach o di Karl Popper…
Karl Popper prendeva ad esempio la teoria di Newton come un caso del mito metafisico dell’oggettività della scienza. La meccanica razionale di Newton è infatti un caso di teoria che non descrive (più) il mondo: è una teoria falsa, che la teoria della relatività di Einstein distrugge nei fondamenti. O non presupponeva forse, Newton, un tempo assoluto, che la fisica di Einstein dissolve e manda in soffitta?
Rispetto al dibattito, allora, si deve sottolineare che non è la negazione dei fatti e dell’oggettività dei fatti a mettere in crisi l’oggettività della scienza, perché sono i fatti stessi che, per loro natura, non possono dar luogo a teorie assolute. L’“irrazionalismo” si trova nell’assumere, invece, che l’esperienza possa rivelarci l’essenza del mondo.
L’esperienza trova in se stessa il suo criterio di verifica e l’oggettività non è un fatto tra gli altri. Da questo punto di vista, una questione che si potrebbe sviluppare è se il realismo possa attingere dalla realtà il suo essere realismo, visto che la “realtà” non contiene il realismo. E giustamente Severino rileva nel realismo un presupposto filosofico che non è riconducibile alla fonte del realismo.
Ma il carattere di “falsificabilità” della scienza non significa, come si potrebbe temere, che l’esclusione della “verità” implichi l’impossibilità di escludere che una sciocchezza è una sciocchezza, che un mito è un mito, che un errore è un errore. Esattamente il contrario: altrimenti neanche la scienza sarebbe falsificabile. Anzi, secondo il celebre adagio di Popper, la scienza è tale se è falsificabile. A differenza dei dogmi religiosi, e del populismo, il metodo scientifico (e per la verità anche l’analisi logica) prevede la critica e l’autocritica.
In conclusione, non ho molta simpatia per il postmoderno, ma certo non sarebbe una grande conquista se, con l’“uscita dal postmoderno”, si intendesse un ritorno alla metafisica.
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