Piero Delbello ha accolto tre classi della nostra scuola in viaggio d’istruzione sui luoghi delle guerre del secolo scorso, per raccontarci lo sradicamento degli sfollati istriani e giuliano dalmati tra le cose abbandonate al Magazzino 18 del Porto vecchio di Trieste.
«È un posto strano, questo. Il tempo si è fermato qui. È come una Pompei contemporanea. 2000 metri cubi di cose di chi se n’è andato, è passato, è emigrato e non è tornato a riprendersele. Una storia difficile, controversa, che puzza di silenzi e di morte …»
che, infine, nemmeno il direttore dell’Istituto Regionale per la Civiltà Istriano-Fiumano-Dalmata può raccontare fluidamente, ma gli esce a frammenti, per immagini, come quella del nonno contadino dallo sguardo fisso fuori dalla finestra, ammutolito dallo spaesamento che saluta il nipote cinquenne a grugniti e cenni del capo.
Sotto il racconto di Simone Cristicchi, qui un documentato resoconto di quelle che l’istituzione del giorno del ricordo derubrica a «complesse vicende» del confine italo-jugoslavo, ad indicare la convivenza delle differenze etniche, religiose e politiche prima della destabilizzazione fascista, l’assimilazione forzata degli slavi di Trieste e i massacri dell’esercito italiano in Slovenia, il campo di concentramento italiano di Rab, le foibe, la cessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia e l’esodo di chi scelse di andarsene.
Una parte del rimosso: l’invasione italiana della Jugoslavia
[Stralci tratti da Wikipedia]
Nell’aprile del 1941 l’Italia partecipò all’attacco dell’Asse contro la Jugoslavia la quale, dopo la resa dell’esercito del 17 aprile e l’inizio dell’occupazione, fu smembrata e annessa agli stati invasori.
A seguito del trattato di Roma l’Italia annesse parte della Slovenia, parte della Banovina di Croazia nord-occidentale (accorpata alla Provincia di Fiume), parte della Dalmazia e le Bocche di Cattaro (che andarono a costituire il Governatorato di Dalmazia), divenendo militarmente responsabile della zona che comprendeva la fascia costiera e il relativo entroterra della ex-Jugoslavia.
La Croazia fu dichiarata indipendente con il nome di Stato Indipendente di Croazia, il cui governo fu affidato al partito ultranazionalista degli ustascia, con a capo Ante Pavelić.
La resa dell’esercito jugoslavo non fermò i combattimenti e in tutto il paese crebbe un’intensa attività di resistenza che proseguì fino al termine della guerra e che vide da un lato la contrapposizione tra eserciti invasori e collaborazionisti e dall’altro la lotta fra le diverse fazioni etniche e politiche.
Durante tutta la durata del conflitto vennero perpetrati, da tutte le parti in causa, numerosi crimini di guerra.
Nella Provincia di Lubiana, fallito il tentativo di instaurare un regime di occupazione morbido, emerse presto un movimento resistenziale, duramente represso dall’occupazione italiana con devastazioni di villaggi e ritorsioni contro la popolazione civile. Le sanguinose rappresaglie attuate dal Regio Esercito italiano, per reprimere le azioni di guerriglia partigiana, aumentarono il risentimento della popolazione slava nei confronti degli italiani.
« Si procede ad arresti, ad incendi [. . .] fucilazioni in massa fatte a casaccio e incendi dei paesi fatti per il solo gusto di distruggere [. . .] La frase «gli italiani sono diventati peggiori dei tedeschi», che si sente mormorare dappertutto, compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi » [Riportato da due riservatissime personali del 30 luglio e del 31 agosto 1942, indirizzate all’Alto Commissario per la Provincia di Lubiana Emilio Grazioli, dal Commissario Civile del Distretto di Longanatico (in sloveno: Logatec) Umberto Rosin].
A scopo repressivo, numerosi civili sloveni furono deportati nei campi di concentramento di Arbe e di Gonars.
Nei territori annessi, accorpati alla Provincia di Fiume e al Governatorato della Dalmazia, fu avviata una politica di italianizzazione forzata del territorio e della popolazione. In tutto il Quarnero e la Dalmazia, sia italiana che croata, si innescò dalla fine del 1941 una crudele guerriglia, contrastata da una repressione che raggiunse livelli di massacro dopo l’estate del 1942.
« . . . Si informano le popolazioni dei territori annessi che con provvedimento odierno sono stati internati i componenti delle suddette famiglie, sono state rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20 componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia contro gli atti criminali da parte dei ribelli che turbano le laboriose popolazioni di questi territori . . . » [Dalla copia del proclama prot. 2796, emesso in data 30 maggio 1942 dal Prefetto della Provincia di Fiume Temistocle Testa, riportata a pagina 327 del libro di Boris Gombač, Atlante storico dell’Adriatico orientale].
Il 12 luglio 1942, nel villaggio di Podhum, per rappresaglia furono fucilati da reparti militari italiani, su ordine del Prefetto della Provincia di Fiume Temistocle Testa, tutti gli uomini del villaggio di età compresa tra i 16 e i 64 anni. Sul monumento che oggi sorge nei pressi del villaggio sono indicati i nomi delle 91 vittime dell’eccidio. Il resto della popolazione fu deportata nei campi di internamento italiani e le abitazioni furono incendiate.
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