Sul fondamento della legge e dell’autorità in Jacques Derrida e Franz Kafka, dal Rasoio di Occam.
Les lois se maintiennent en crédit, non par ce qu’elles sont justes, mais par ce qu’elles sont lois. C’est le fondement mystique de leur autorité ; elles n’en ont point d’autre. (…) Quiconque leur obéit parce qu’elles sont justes, ne leur obéit pas justement par où il doit.
Montaigne, Essays, III, 13
L’un dit que l’essence de la justice est l’autorité du législateur, l’autre la commodité du souverain; et c’est le plus sûr: rien, suivant la seule raison, n’est juste en soi; tout branle avec le temps. La coutume fait toute l’équité, par cette seule raison qu’elle est reçue; c’est le fondement mystique de son autorité. Qui la ramène à son principe, l’anéantit.
Pascal, Pensées, 294
Quando ci si interroga sulla relazione tra diritto e letteratura, viene subito in mente un terzo termine, senza che si sappia in anticipo quale statuto accordare alla cosa che designa: se quello di una disciplina, di un sapere o di un ordine del discorso. È la filosofia. Da lungo tempo essa riflette sia sull’uno che sull’altra: esiste una “filosofia della letteratura” come esiste una “filosofia del diritto”. Ma, soprattutto, una delle sue domande ricorrenti essendo l’origine della legge, la filosofia ha sempre fatto ricorso a delle “finzioni” per tentare di dare risposta a questo enigma. Limitandoci a due esempi, è il caso della novella di Rousseau sull’uscita dallo stato di natura, nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini. E vale lo stesso per il modo in cui Freud rende conto dell’origine della colpa, del divieto e della legge – quindi di tutte le istituzioni morali e giuridiche – in Totem e tabù, con la sua storia dell’orda primordiale e del parricidio. Subito sorge una domanda, tuttavia: questi testi possono ritenersi “letterari”? Qual è il loro statuto? E chi è in grado di stabilirlo? A quale tribunale devono sottomettersi perché sia emesso il verdetto? A quello dei giuristi, a quello dei teorici della letteratura, a quello dei filosofi o degli psicanalisti?
Senza dubbio, esistono almeno due modi di pensare la relazione tra diritto e letteratura. La prima, estrinseca, riguarda i racconti, i romanzi o i drammi che hanno per oggetto il rigore della legge, dell’apparato o della macchina giudiziaria – che fanno, in altri termini, delle cancellerie, delle aule di tribunale e dei processi, con la loro trafila di interrogatori, testimonianze, requisitorie e verdetti, il loro “soggetto”. Com’è noto, la descrizione implicata da tale relazione può essere realista, ai limiti di un’inchiesta sociologica, quanto mostrarsi farneticante, allucinante, da incubo. In questo secondo caso, non è questione soltanto dell’apparato giudiziario, ma proprio dell’“immaginario della giustizia”, per come esso determina il nostro rapporto con la legge e i differenti affetti che lo rendono complesso o lo contaminano. Se è vero, infatti, che il rapporto con la legge non è mai puramente razionale, ma anche affettivo, a volte fino all’eccesso – angosciato, ansioso, se non già ansiogeno –, è ovviamente nello spazio di questi affetti (e fino al desiderio o alla follia della legge) che la letteratura può fare del diritto il suo oggetto. E il risultato non è trascurabile. Dal momento che il rapporto con la legge è un elemento costitutivo della genesi di ogni soggettività – o, per dirlo ancora diversamente, che in questo rapporto ne va della singolarità di ciascuno, la quale è per tutti insostituibile –, è proprio questa singolarità che la letteratura fa conoscere e che richiama all’attenzione del diritto.
Ma vi è una seconda relazione (quella che si evocava all’inizio) che è ancora di un’altra complessità. Si costruisce intorno a una duplice incertezza: quella dell’origine della legge e quella della letterarietà del testo letterario. O meglio, articola l’una all’altra le due questioni essenziali: quella dell’accessibilità (o dell’inaccessibilità) di questa origine e quella della possibilità del racconto che pretende di darvi accesso (o della sua impossibilità). Ora, non appena si entra nel campo di questi prefissi negativi (inaccessibilità della legge, impossibilità del racconto), c’è un’opera che richiama subito l’attenzione: quella di Kafka, iscritta nel segno di una duplice incompiutezza e di una duplice ricerca inconclusa. Quella degli eroi kafkiani che non arrivano mai a sapere da dove vengono le leggi, i decreti, le ragioni dei giudizi che sono applicati loro; e quella dei racconti, che spesso non giungono alla fine.
Nondimeno, i racconti di Kafka non sono estranei neanche alla prima relazione descrittiva che si evocava poco fa. Come tutti sanno, hanno dato luogo a numerosi commenti, che si ripartiscono in almeno due diverse costellazioni di ricezione, secondo due grandi orientamenti. La prima riunisce, negli anni 1930 e 1940 (segnati dall’ascesa del fascismo in Europa, dalle politiche discriminatorie, dall’esilio, la deportazione e lo sterminio degli ebrei d’Europa), le letture di Hannah Arendt, Walter Benjamin, Günter Anders o ancora Thomas Mann. La peculiarità di questa prima costellazione di lettori è che essi hanno tutti in comune il fatto di leggere, commentare o scrivere prefazioni ai racconti di Kafka in un periodo in cui sono costretti a fuggire dal loro Paese – condividendo con K, l’“eroe” de Il castello, quella stessa situazione di “straniero” o di “esiliato” che costringe chi la subisce a vivere nell’attesa di una decisione manifesta che gli riconosca il diritto di esistere là dov’è arrivato. Nell’universo di Kafka, scoprono di volta in volta la descrizione o la profezia dell’incubo nel quale l’Europa sta precipitando, quando ogni nuovo decreto, ogni nuova legge si identifica con una minaccia per la libertà e i diritti fondamentali.
La seconda costellazione, quarant’anni più tardi, negli anni ’70 e ’80, riunisce un’altra generazione di filosofi: Gilles Deleuze e Felix Guattari, Jean-François Lyotard e Jacques Derrida, senza contare Maurice Blanchot che dagli anni Quaranta agli anni Ottanta non ha mai smesso di tornare su Kafka. Anche qui, tra i loro diversi approcci non mancano i punti di contatto: hanno tutti in comune il fatto di interrogarsi, a vario titolo, sulla funzione politica di questi racconti come “politica della letteratura”. Da un punto di vista più generale ancora, questi filosofi prendono spunto dai racconti di Kafka per pensare l’“essenza” o la “funzione” della letteratura, laddove essa non è separabile da una riflessione sul diritto.
Ma questi due grandi orientamenti – quello che cerca nella letteratura una descrizione della nostra relazione, reale o immaginaria, alla legge e all’apparato giudiziario; e quello che si interroga sulla possibilità di un racconto che dà accesso alla legge, alla sua origine o al suo fondamento – questi due grandi orientamenti sono davvero rigorosamente separabili? Non è, invece, il loro intreccio e il loro intrico che ci fanno pensare e sperimentare i racconti di Kafka? Supponendo di accettare l’ipotesi, ci sarebbe almeno un testo a confermarla: il racconto breve intitolato Davanti alla legge – a maggior ragione se si ricorda che, prima di esserne stralciato per costituire un racconto a parte, questo testo faceva parte de Il processo. Infatti, si tratta di una storia raccontata a K per bocca di un prete, in un momento in cui egli sospetta tutti quelli che si occupano del suo affare di essere prevenuti nei suoi confronti. In ambito romanzesco, questo racconto ha dato luogo a qualcosa di molto simile a una vera e propria esegesi talmudica, che da allora si è globalizzata al punto che, in tutte le lingue, non si contano più non solo le interpretazioni, ma anche le riprese e le riscritture che ha suscitato – a cominciare da quella di Coetzee in La vita e il tempo di Michael K o Boubacar Boris Diop.
È nel solco di una di queste riscritture in particolare che si iscriveranno le pagine che seguono. Si tratta dalla lettura proposta da Derrida in un testo intitolato Pre-giudicati[1], pronunciato in occasione di una decade di Cerisy dedicata al lavoro di Jean-François Lyotard. Questa lettura, infatti, ha più di ogni altra il merito di aver posto, attraverso l’analisi del testo di Kafka, la duplice questione dell’accessibilità dell’origine della legge e della possibilità di un racconto “letterario” capace rendere quest’origine pensabile, laddove si gioca la tensione paradossale tra la generalità o l’universalità della legge e la singolarità assoluta di ogni rapporto specifico con questa stessa legge.
I
Il racconto è ben noto: narra la storia di un “uomo di campagna” che, arrivato alle porte della legge, si scontra con l’opposizione di un guardiano che gli impedisce di entrare. Pazienta per anni e anni, urtandosi al medesimo rifiuto ogni volta che rinnova la sua richiesta. Infine, logorato e invecchiato, si stupisce di essere da così tanto tempo il solo a reclamare l’accesso alla legge, e ottiene la seguente risposta:
«Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo»[2].
Ne va dunque dell’accessibilità della legge (o piuttosto della sua inaccessibilità, del mistero o dell’opacità della sua origine) come Derrida non manca di ricordare. Ma, fin dall’inizio, l’autore di Pre-giudicati pone allo stesso modo la questione che associa alla domanda su questa origine un’interrogazione sulla definizione o la circoscrizione della letteratura, come se le due tematiche fossero in realtà indissociabili:
«Il doppio problema sarà quindi il seguente: “chi decide, chi giudica, e secondo quali criteri, dell’appartenenza di questo racconto alla letteratura?”»[3].
Non a caso abbiamo scelto di cominciare citando la fine del testo: «Nessun altro poteva entrare qui». Fin dalla prima lettura, infatti, si evince che, se si può ritenere questo testo emblematico delle relazioni tra diritto e letteratura, è in virtù del fatto che esso mette in prospettiva il rapporto paradossale tra la generalità della legge e l’assoluta singolarità di colui a cui si applica. In effetti, pochi racconti quanto quelli di Kafka hanno mostrato, della legge, a qual punto il rapporto che si ha con essa si iscriva singolarmente nel corpo di ognuno, nella voce, nei gesti e nelle posture, nella maniera di star dritti o curvi, come quei profili che disegnava l’autore de Il processo. Lungi dall’essere astratta, estranea alla sua vita, la legge fa parte della storia più intima del corpo. Nessuno sa, tuttavia, quando tutto ciò sia cominciato e come la legge si sia incorporata. Probabilmente questa incorporazione è anche, insieme alla coscienza della nostra finitezza, la parte più segreta di ciò che ci è stato imposto, a nostra insaputa. Nondimeno, nessuno può ignorare di essere obbligato a con-vivere con essa, per tutta la vita. Poiché se resta indeterminata l’origine del rapporto con la legge, almeno il suo termine è conosciuto. La lunga durata è il primo tema di Davanti alla legge. Non si conosce l’età dell’uomo della campagna, quando si presenta alla porta della legge per entrarvi, ma si sa quando finisce la storia: alle soglie della morte. Così, il racconto, pure brevissimo, è punteggiato di note che evocano il tempo che passa, inesorabilmente, aspettando una risposta e un esito:
Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere di fianco alla porta. Là rimane seduto per giorni e anni.[…] durante tutti quegli anni l’uomo osserva il guardiano quasi senza interruzione. […] poi quando invecchia si limita a brontolare. Rimbambisce […]. Ormai non vive più a lungo. Prima di morire, tutte le esperienze di quel tempo si condensano nella sua testa in una domanda che finora non ha rivolto al guardiano. Gli fa cenno poiché non può ergere il corpo che si sta irrigidendo.[4]
Ma la legge non si lascia conoscere e l’accesso resta sbarrato. Dopo tutto, non si sa nemmeno di che tipo di legge si tratti: legge della natura, legge morale, legge giuridica, legge fondamentale. Vale a dire che la sua generalità si ritrova raddoppiata. C’è senz’altro una “legge”, reale o immaginaria, attestata dalla singolarità del rapporto che l’uomo di campagna intrattiene con essa, ma non se ne sa niente. Soprattutto, il racconto non riesce a dirci di più. Non rende la legge più accessibile. L’unica cosa che è in grado di fare è ripetere e riprodurre, raddoppiare, nella scrittura stessa, l’inacessibilità della legge. Ecco lo iato: la legge dice il generale, si vuole universale, dovrebbe trattare solo casi singoli, non deve tener conto degli alea soggettivi della sua incorporazione, né dell’enigma costituito, per coloro ai quali si applica, dalla sua origine – mentre il racconto mette in scena la singolarità di un’attesa, di una richiesta, di un’inquietudine e di un’angoscia, forse. Dal racconto, ci si potrebbe dunque aspettare che apporti un correttivo a questa generalità, mettendo la legge in relazione con quella singolarità che essa ritiene di aver il diritto di conoscere. Come ci si potrebbe aspettare che, ne Il processo, la narrazione renda infine note a Joseph K le ragioni della sua imputazione e, ne Il castello, all’architetto la fonte e la logica dei decreti che stabiliscono il suo arrivo, o ancora, ne La metamorfosi, la causa effettiva della trasformazione improvvisa e imprevedibile di Gregor Samsa in un enorme insetto. Ma non è così. A render conto di tutti questi eventi “straordinari”, ci deve pur essere una legge che li spieghi e li giustifichi, di qualunque natura sia (naturale, morale o giuridica). Ma più questi eventi appaiono usuali, banalizzati e perfino ammessi come ordinari, più sembrano rientrare nei costumi o essere da sempre appartenuti a essi, meno questa legge si lascia conoscere. Più si va avanti nella narrazione e più la prospettiva di avere accesso alla legge si perde in infinite giravolte.
Ecco perché, leggendo Davanti alla legge, Derrida evidenzia subito, come tema centrale del racconto, il fallimento dell’incontro tra la singolarità del rapporto con la legge e l’essenza generale o universale di questa stessa legge:
Vi è una singolarità a proposito della legge, una legge della singolarità che deve mettersi in rapporto, senza mai poterlo fare, con l’essenza generale o universale della legge. Ora questo testo, questo testo singolare, l’avrete già notato, designa o menziona a suo modo questo conflitto senza incontro della legge e della singolarità, questo paradosso o quest’enigma dell’essere-davanti-alla-legge.[5]
E prosegue poco più avanti:
Ciò che resta invisibile e nascosto in ogni legge si può dunque supporre che sia la legge stessa, ciò che fa che queste leggi siano leggi, l’essere-legge di queste leggi. La domanda e la ricerca sono ineluttabili, in altre parole l’itinerario in vista del luogo e dell’origine della legge. Questa si dà rifiutandosi, senza dire la sua provenienza ed il suo sito. Questo silenzio e questa discontinuità costituiscono il fenomeno della legge.[6]
Se richiamiamo ora alla mente le due questioni che sollevavamo all’inizio, ciò che deve attirare l’attenzione è il modo in cui la questione dell’accessibilità (o dell’inaccessibilità) della legge si rivela effettivamente indissociabile da quella della possibilità (o dell’impossibilità) del racconto e, in ogni caso, del suo compimento. Com’è noto a tutti, questa inaccessibilità è una delle gradi questioni su cui si concentra il lavoro di Derrida negli anni Ottanta. Se è vero che, fin dall’inizio – cioè dai tre grandi libri del 1967: De la grammatologie, L’écriture et la différence e La voix et le phénomène – il pensiero del filosofo ha per oggetto la decostruzione del soggetto sovrano, nella sua stessa sovranità, in questo periodo la decostruzione assume una dimensione più apertamente politica, che passa attraverso la messa in evidenza di ciò che, seguendo Montaigne, l’autore di Forza di legge chiama “il fondamento mistico dell’autorità”.
È dunque in questa prospettiva che si deve leggere il commento a Davanti alla legge. Niente impedisce, infatti, di concepire l’impossibile accesso della legge, nelle storie di Kafka, come un’altra figura o, più esattamente, come l’effetto, ogni volta singolare, proprio di questo “fondamento mistico”. Ciò che, in ultima istanza, fa sì che le leggi siano delle leggi e che noi dobbiamo sottometterci a esse, quali che siano le ragioni addotte in favore di questa sottomissione: ecco il “fondamento” che ci sfugge sempre. E non sono, checché ne dicano i rappresentanti della legge, l’attaccamento alla patria, la cittadinanza, il senso del dovere e tutte quelle domande che il guardiano della legge pone all’uomo di campagna senza interesse, «come le fanno i gran signori», che possono cambiare qualcosa. Le risposte date, quali che siano (quelle, per esempio, che possono dare la filosofia del diritto, la filosofia morale o un trattato di educazione del cittadino), non risolvono minimamente l’enigma del nostro rapporto con la legge. Soprattutto, non esauriscono minimamente il desiderio dell’origine.
II
Tre fatti richiedono allora di essere articolati. Il primo è la resistenza della legge che conserva la sua autorità categorica soltanto mantenendo segreto il suo fondamento. Per rispettarla, infatti, non c’è alcun bisogno di conoscere la sua storia. Al contrario, in se stessa e da se stessa la legge non richiede alcun racconto, che potrebbe venire a porre condizioni a questo rispetto. Deve anche proteggersi da ogni tipo di tergiversazione storica che rischierebbe di contestare la sua autorità e rimetterla in questione. Non c’è nemmeno nessun bisogno di ripiegare su se stessi, né di interrogare il proprio passato in qualche vana introspezione. Nessuno sa, del resto, per quali buone o cattive ragioni, nel racconto di Kafka, l’uomo di campagna si sia presentato alla porta della legge. Per darsi un motivo supplementare per sottomettervisi? O per imparare a conoscersi meglio? Si è davvero certi che voler “entrare nella legge”, come dice il racconto, sia un intento legittimo? Tuttavia, il desiderio di smascherare il mistero o il segreto della legge è innegabile, forse perfino ineluttabile. E perdura, ci dice il racconto, per tutta una vita. Ecco perché il secondo fatto che chiede di essere preso in considerazione e che bisogna articolare a questa resistenza è la “pulsione genealogica” che ne risulta. Ecco a che punto siamo: c’è da un lato la sovranità de la legge che non si lascia avvicinare, che non chiede alcuna giustificazione, che tratta soltanto casi singoli, che li tiene a distanza (non si sa quanti guardiani la proteggano), che non deve rendere conto a nessuno. E poi c’è, nello stesso tempo, il fatto che nessuno al mondo vive in questo modo il rapporto con la legge – che ciascuno è votato, nella sua carne, a un rapporto assolutamente singolare con la legge (che si traduce nei suoi gesti e nella sua voce, nelle sue parole e nei suoi silenzi). Per dire tutto, c’è che questo rapporto è anche, probabilmente, la prima prova della singolarità della legge, nella quale ognuno è impegnato, corpo e anima. L’uomo di campagna vuole sapere, dunque. Nessun altro al mondo desidera conoscere quanto lui. Vuole entrare nella legge, vederla o toccarla. La sua pulsione è irresistibile – e scompare soltanto con la morte –, perché ne va della vita, perché forse conoscere il segreto della legge renderebbe infine la vita più vivibile. Sì, è sempre in questi termini che ne va del rapporto con la legge: di vita e di morte.
Entrare in relazione con la legge, con ciò che dice “Tu devi” e “Tu non devi”, è fare nello stesso tempo come se essa non avesse storia o in ogni caso come se non dipendesse più dalla sua presentazione storica e, contemporaneamente, lasciarsi affascinare, provocare, apostrofare dalla storia di questa non-storia. È lasciarsi tentare dall’impossibile: una teoria dell’origine della legge, e dunque della sua non-origine, ad esempio della legge morale.[7]
Il terzo fatto, allora, è la possibilità stessa della letteratura e della lingua che vi si inventa. Se è vero che l’origine della legge è inaccessibile, che è essa stessa (la legge) imperiosa e che al contempo ognuno è costituito, nel più intimo di se stesso, da un rapporto con la legge assolutamente singolare, irriducibile, insostituibile, allora per colmare questo iato è chiamata, cercata, desiderata una lingua– cioè per rendere giustizia [rendre droit] al desiderio di accordare la singolarità del rapporto e la generalità della legge. Ma come dare diritto al singolare? Che cos’è che fa la “singolarità del singolare”? La sua storia, innanzitutto. Il singolare esiste, come tale, raccontandosi. Ecco perché bisogna partire da un racconto, nella speranza che finisca per giungere al luogo da cui proviene la legge – legge che resta tuttavia, a dispetto di tutto, generale, ovvero che continua a resistere. È questa la verità che porta il racconto di Kafka: è l’enunciato di questo difficile paradosso – un enunciato anch’esso paradossale, dal momento che il racconto resta impossibile. Perché prenda corpo, perché risponda alle attese che suscita, ci sarebbe bisogno, in effetti, di almeno due cose. Ci sarebbe bisogno che la legge divenga accessibile, innanzitutto; ci sarebbe bisogno, inoltre, che si trovi modo di esprimere la singolarità di colui che chiede di entrare nella legge.
Ora, da entrambi i lati, la prova della singolarità è messa sotto scacco. La legge persiste nel mantenere il segreto del suo fondamento, e la singolarità di colui che si vota alla ricerca dell’origine inciampa sulla generalità del linguaggio. In altri termini, potrebbe essere che il guardiano della legge non sia nient’altro che la lingua stessa – che dice soltanto il generale e nel contempo porta iscritta in se stessa la promessa impossibile di rendere giustizia al singolare. Questo rapporto tra lingua e legge, Derrida l’ha messo in evidenza molte volte. Ci ritorna sopra soprattutto in un testo scritto una decina d’anni dopo Pre-giudicati: Il monolinguismo dell’altro, o la protesi dell’origine (di cui è importante sottolineare il sottotitolo). Tra i numerosi temi che costituiscono la trama di questo libro, ce n’è uno, infatti, su cui dobbiamo concentrare l’attenzione. C’è sempre qualcosa di perduto, dice Derrida (e perfino di sperduto [éperdu]) nel nostro rapporto con la lingua, in cui alberga per sempre la nostalgia di un’origine introvabile: noi tutti non abbiamo che una lingua, ci pieghiamo alla sua legge e, nello stesso tempo, poiché questa legge ci è imposta, la lingua non è mai la nostra. Per questa ragione non esiste rapporto trasparente con se stessi che possa assicurare l’ego della sua identità. Siamo stranieri nella lingua: sradicati, esiliati, estranei a noi stessi, come l’uomo di campagna davanti alla porta della legge, e come spesso si sentiva Kafka in società, se stiamo al suo diario. In altre parole, niente ci garantisce o ci prova che ci ritroveremo in quello che diciamo, in quello che pensiamo, in quello che crediamo poter esser convinti di pensare e di esprimere da noi.
Ecco perché la questione del nostro rapporto con la lingua non è separabile da quella della follia, come forse altrettanto inseparabile è quella del nostro rapporto con la legge. Tre forme di follia incombono sull’impossibile identificazione dell’ego, non davanti alla legge, ma nella lingua e con la lingua, spiega Derrida ne Il monolinguismo dell’altro. La prima è la disintegrazione completa dell’identità – un rapporto con se stessi e con la lingua talmente frammentato, talmente destrutturato che è distrutta la possibilità stessa di ogni invenzione di linguaggio singolare (invenzione cui Derrida dà il nome di “idioma”): una quasi afasia dunque, come in cui sprofondò Hölderlin, nella sua torre, abbandonato alle cure del falegname Zimmer; o quella di Nietzsche, guardato da sua sorella per anni. La seconda forma di follia, invece, non si confessa mai come tale. Lungi dal pensarsi in questi termini, è anzi convinta della sua “normalità” – e probabilmente non c’è niente di più folle e di più minaccioso di questa convinzione. Questa è la follia che abita ogni identificazione normativa, anche in ciò che quest’ultima può avere di escludente e di discriminante. Rimuove il lavoro della différance nell’illusione di un’identità con sé che è al contempo, e integralmente, quella della collettività con la quale si identifica. È, senza dubbio, quella follia che siamo meglio preparati ad affrontare dalla famiglia, dalla scuola, e da tutte le forze che ci dettano legge. Ma non è nemmeno estranea ai romanzi e racconti di Kafka, il quale, dopo tutto, ne Il processo, Il castello o La metamorfosi non racconta forse nient’altro che la disgiunzione di un’integrazione sociale, familiare (la relazione col padre), professionale e così via, in uno spaventoso cortocircuito della legge, del corpo e del linguaggio.
È poi c’è quella terza forma di follia che Derrida descrive così:
La follia di una ipermnesia, un supplemento di fedeltà, un sovrappiù o un’escrescenza della memoria: avviarsi, al limite delle altre due possibilità, verso dei tracciati – di scrittura, di lingua, di esperienza – che portano l’anamnesi al di là della semplice ricostruzione di un’eredità data, al di là di un passato disponibile. Al di là di una cartografia, al di là di un sapere insegnabile. Si tratta qui di tutt’altra anamnesi, e anche di un’anamnesi del tutt’altro[8]
«Un’anamnesi del tutt’altro»: comprendere di cosa si tratta, per quanto poco ci si riesca, sembra permettere, retrospettivamente, di cogliere la posta in gioco di Davanti alla legge. Supponendo, dunque, di ripartire dal punto che abbiamo appena stabilito: l’assenza di “identificazione stabile dell’ego” attraverso (e dentro) la lingua, cioè attraverso (e dentro) la padronanza, il possesso, la possibilità di disporre di una lingua che sia la nostra, perfettamente nostra, con la quale ci fosse sempre possibile trovarci e ritrovarci; supponendo, ancora, che non si possa riposare sulla (propria) lingua per rispondere alla domanda “chi sono?”, bisognerebbe comunque ammettere che ognuno di noi parla. Bisognerebbe ammettere che c’è effettivamente una lingua per ciascuno: la lingua che ognuno parla. E anche che, in realtà, di lingue ce n’è più d’una. Ogni evento singolare, ogni percezione, ogni emozione, ogni sensazione, infatti, noi tentiamo di tradurle in una lingua che si confaccia loro – cioè che renda giustizia a quello che rende la loro venuta un evento singolare. In altri termini, ci è necessario, ogni volta, trovare nella lingua, con la lingua, una singolarità linguistica – non per rendere giustizia alla nostra propria singolarità, ma per renderla (questo giustizia) alla singolarità di ciò che viene, e che fa evento.
Ecco perché Derrida può scrivere, in maniera paradossale, che in questo nostro monolinguismo non ci sono che «lingue di arrivo». Ecco perché vi è pluralità di arrivo. Se non ci fosse, se stabilissimo in anticipo che non dovesse esserci, che sarebbe un’illusione pensare che dovrebbe essercene, saremmo improvvisamente sull’orlo di quell’altra follia (quella dell’integrazione – la seconda possibilità) che si evocava precedentemente: la follia della padronanza e del possesso sovrano di una lingua di partenza.
Ma non appena si cominci ad ammettere o riconoscere che tutto questo non c’è, non resta effettivamente altro che lingue di arrivo – ma di un arrivo che resta indefinito, che non arriva al suo termine, come dice Derrida: «che non arriva mai ad arrivare». Perché? Probabilmente è questo li punto più decisivo o più nodale, che ci ricorda che il termine, la fine, il completamento sono impossibili. Se non fosse così, non ci sarebbe follia della lingua, ma solo programmi, che la lingua rispetterebbe e che tornerebbero ogni volta allo stesso punto: la riduzione allo stesso. Invece, quello che fa la follia della lingua è l’irriducibile trascendenza di ciò che le avviene [ce qui lui arrive], di ciò che viene a lei – ossia di ciò che ci fa aprire la bocca. Ogni volta che parliamo (o che scriviamo), facciamo prova di questa trascendenza; proviamo l’irriducibile alterità di ciò che viene. E non c’è ipseità (non c’è rapporto con sé) al di fuori di questa prova. Non v’è ipseità che si costituisca al di fuori del desiderio di rendere giustizia a questa alterità, che tuttavia, di fatto, non è mai possibile raggiungere. Come se la costituzione interminabile dell’ipseità fosse sempre in sospeso – sospesa al desiderio d’inventare una lingua, piegata alla promessa di una lingua a venire.
In questo modo, si impone a ognuno la necessità di inventare la propria singolarità nella lingua. Che ne è allora della relazione con il diritto? Che ne è dell’“uomo di campagna”? Se il suo stazionare dinanzi alla porta assomiglia a una forma di follia, di quale follia si tratta? Il racconto di Kafka, l’abbiamo detto, combina due forme di inaccessibilità della legge: quella dell’uomo che sta dinanzi alla sua porta e al quale il guardiano impedisce l’accesso, e quella del racconto stesso, anch’esso impossibilitato a raggiungerla. Così il racconto è insieme possibile e impossibile, leggibile e illeggibile, necessario e vietato, o piuttosto, come la maggior parte dei testi di Kafka, la sua possibilità e la sua leggibilità non vanno da sé. Resistono come la legge resiste a colui che e vorrebbe vederla e toccarla, entrare in essa, in modo diretto e immediato, senza deviazioni. Quello che sa il guardiano, e che l’uomo di campagna ignora, è che non va mai così – per nessuno. E che la legge, come ogni testo, chiede di essere decifrata da ciascuno, in modo assolutamente singolare. Chiede, come ogni racconto, l’invenzione impossibile di una lingua che la decifra. Derrida lo sottolinea con forza:
La lettura può in effetti rivelare che un testo è intoccabile, propriamente intangibile, poiché leggibile, e nello stesso tempo illeggibile nella misura in cui la presenza in esso di un senso percettibile, coglibile, resta tanto nascosto quanto la sua origine. L’illeggibilità allora non si oppone più alla leggibilità. E forse l’uomo è l’uomo di campagna in quanto no sa leggere, o sapendo leggere, ha ancora a che fare con l’illeggibilità in ciò stesso che sembra darsi da leggere. Vuole vedere e toccare la legge, vuole avvicinarsi ad essa, “entrare” in essa perché non sa forse che la legge non è da vedere o da toccare, ma da decifrare. È forse il primo segno della sua inaccessibilità o del ritardo che essa impone all’uomo di campagna.[9]
È in questa sola invenzione – quella di una lingua che decifra – che lo iato tra la generalità della legge e la singolarità del rapporto che ognuno intrattiene con essa torna a essere vivibile. Non sarà colmato, tuttavia – ed è in questo che il racconto, comunque possibile e necessario, resta in fine impossibile e impedito. Ma almeno ci si sarà promessi di rendere possibile l’impossibile, con la certezza che ogni cammino in direzione opposta alle porte della legge conduce ancor più sicuramente sull’orlo della rovina. Se torniamo ora alle tre forme di follia che Il monolinguismo dell’altro ci ha permesso retrospettivamente di identificare, risulta che nessuna delle prime due è assente dal racconto di Kafka. La prima, innanzitutto – la destrutturazione completa della soggettività che conduce progressivamente al silenzio o precipita nell’afasia più brutale – descrive in modo molto preciso ciò che accade all’uomo di campagna. Forse non abbiamo sufficientemente sottolineato il rapporto di quest’ultimo con il linguaggio, che evolve nel corso degli anni passati alle porte della legge. Prima, «stanca il guardiano con le sue richieste», poi «maledice il caso disgraziato […] ad alta voce». Poi «quando invecchia si limita a brontolare tra sé. Rimbambisce». Rimane prostrato, silente. Solo un ultimo guizzo gli restituisce la parola per la domanda finale: «Tutti tendono verso la legge, come mai in tutti questi anni nessun altro ha chiesto di entrare?». Stremato, annientato, l’uomo di campagna raggiunge la corte di tutti quelli che la legge, inaccessibile e imperiosa, stronca dall’interno.
Tuttavia, anche la seconda forma di follia descritta da Derrida è altrettanto presente in Davanti alla legge. Si traduce in sottomissione, rassegnazione, accettazione dei codici e delle regole, incorporazione passiva delle stesse, che sono altrettante ragioni di voler entrare a ogni costo nella legge, di fare tutt’uno, di fare uno con essa. Questa seconda follia concorda con quella di K ne Il processo e quella dell’agrimensore ne Il castello; follie che colpirono molto i primi lettori di Kafka, tanto che alcuni, come Günther Anders, arrivarono perfino a biasimarlo per questo. Questo tipo di follia, in realtà, incombe su ogni venerazione, su ogni sacralizzazione della legge. Resta allora questa «escrescenza della memoria» che, dice Derrida, porta molto vicini alle altre due forme di follia, nella loro prossimità e nella loro minaccia, come testimoniano il destino di Hölderlin, quello di Nietzsche o di Artaud:
«verso dei tracciati – di scrittura, di lingua, di esperienza – che portano l’anamnesi [cioè la ricerca dell’origine e specialmente dell’origine della legge] al di là della semplice ricostruzione di un’eredità data, al di là di un passato disponibile, al di là di una cartografia, al di là di un sapere insegnabile»[10].
Quest’escrescenza dipende da un’ingiunzione che si sarebbe già potuta leggere in filigrana nell’ultima risposta del guardiano, se non fosse stato troppo tardi e se lui non avesse dovuto chiudere la porta: «questo ingresso era destinato soltanto a te». In altri termini: «esigeva da parte tua un deciframento, un’invenzione singolare, un tracciato di scrittura – un racconto, forse». Perché questa ingiunzione è anche quella dello stesso racconto, come «racconto impossibile dell’impossibile». Laddove l’uomo di campagna richiama un ingresso immediato nella legge, il racconto, per le sue vie contorte, tenta invano de trovare un accesso, di fare l’impossibile – di rendere possibile l’impossibile. Derrida lo ricorda:
In qualche modo, Vom dem Gesetz è il racconto di questa inaccessibilità, di questa inaccessibilità al racconto, la storia di questa storia impossibile, la carta di questo percorso proibito: nessun itinerario, nessun metodo, nessun cammino per accedere alla legge, in ciò che in essa avrebbe luogo, nel topos del suo evento.[11]
Ma quali sono queste strade tentate dal racconto? Innanzitutto, bisogna ricordarlo, la scelta di riderne. A torto si riterrebbero trascurabili, infatti, le risorse comiche del racconto di Kafa, e i suoi tratti umoristici; che rappresentano senza dubbio uno dei tanti modi per con-vivere con il divieto della legge. C’è, per prima cosa, la descrizione caricaturale del guardiano, che fa pensare ai ritratti di Ivan il Terribile
«avvolto nel cappotto di pelliccia, il suo lungo naso a punta, la lunga barba tartara, nera e rada».
C’è in seguito la richiesta rivolta alle pulci dall’uomo di campagna:
«siccome studiando per anni il guardiano conosce ormai anche le pulci del suo bavero di pelliccia, implora anche queste di aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano».
C’è infine, forse, il ribaltamento della differenza di stazza tra i due alla fine del racconto. Ridere dell’inaccessibilità della legge (ridere e far ridere di lei, raccontandola), in un racconto cui è impossibile mantenere la sua serietà davanti questa stessa legge, per quanto sia essa sovrana, maestosa, imperiosa e misteriosa, significa già sfuggire alle due forme di follia rilevate più sopra: la paralisi alienante e l’incorporazione cieca (o il suo fantasma).
Ma, soprattutto, la via primaria – quella che forse l’opera di Kafka esemplifica nel suo insieme, i racconti come i diari o la corrispondenza – è la scrittura, la scrittura come proroga. Probabilmente è compito del guardiano imporre all’uomo di campagna la prova di un accesso indefinitamente differito alla legge, ma prima di ogni altra cosa è il racconto che dà forma a questa inaccessibilità. Come i racconti di Sherazade ne Le mille e una notte, non produce nient’altro che la messa in opera (o la messa in lingua) della différance – come se fosse questa, in fondo, la ragione di ogni scrittura, come se l’impossibile anamnesi dell’origine ci condannasse a differire indefinitamente l’incontro con essa, nella (e attraverso) l’invenzione di una lingua e in (e attraverso) una ripresa di un racconto che sono altrettante sospensioni del rapporto con la legge, o almeno di ogni supposta relazione diretta, immediata, frontale con essa. Sì, potrebbe anche essere, in fin dei conti, che sia in questo luogo improbabile, la letteratura, che si leghino, come crogiolo di ogni singolarità, la nostra relazione con la legge e la nostra relazione con la lingua:
Il presente divieto della legge non è quindi un divieto, nel senso dell’obbligo imperativo, è una différance. […] L’uomo dispone della libertà naturale o fisica di penetrare nei luoghi, se non nella legge. Deve dunque vietarsi egli stesso di entrare e fa bene, fa bene a contrastarlo. Deve obbligarsi egli stesso, deve darsi l’ordine non di obbedire alla legge, ma di non accedere alla legge che insomma gli fa dire o lasciare sapere: Non venire a me, tri ordino di non venire ancora fino a me. È là ed è in ciò che io sono la legge e che tu accederai alla mia richiesta. Senza accedere a me. Poiché la legge è l’interdetto. […] Si può arrivare fino a lei per avere rapporto con lei secondo il rispetto, bisogna non, non bisogna aver rapporto con lei, bisogna interrompere la relazione [come fa il racconto]. Bisogna entrare in relazione solo con i suoi rappresentanti, i suoi esempi, i suoi custodi. E sono tanto interruttori quanto messaggeri. Non bisogna sapere che essa è, ci che essa è, dove essa è, dove e come essa si presenta, da dove essa viene e da dove essa parla.[12]
Quindi non è sorprendente che, in fine, Derrida attribuisca alla follia questa différance della legge – il riso, la follia, ma forse anche un desiderio sovversivo. Perché, prima di tutto, quello che il racconto contrappone alla lingua della legge è la singolarità del suo idioma, per come essa si distribuisce tra tutti coloro che la intendono – è anche, con più precisione e senza giochi di parole, la legge di questa singolarità. Qui, dice Derrida, sta la sovversione! La letteratura “impone” la sua legge che, davanti alla legge (vor dem Gesetz), la mette fuori legge. Resiste alla resistenza della legge in (e attraverso) l’invenzione ripetuta del suo idioma. Non c’è altra via. È questo che ignora l’uomo di campagna, per cui la legge resta chiusa.
(traduzione di Riccardo Antoniucci)
Testo letto al Convegno “La pensée politique et éthique de Jacques Derrida”, tenutosi tra il 24 e il 26 gennaio 2013 all’Università d’Atene
NOTE
[1] Jacques Derrida, Préjugés. Devant la loi, in AA. VV., La faculté de juger, colloque de Cerisy, Les éditions de Minuit, Paris 1985; tr. it. Pre-giudicati. Davanti alla legge, a cura di F. Garritano, Abramo, Catanzaro 1996.
[2] Franz Kafka, Davanti alla legge, in Racconti, Mondadori, Milano 1970, 19754, p. 239.
[3] J. Derrida, Pre-giudicati, cit., p. 70 [originale p. 104].
[4] F. Kafka, Davanti alla legge, cit. p. 239.
[5] J. Derrida, Pre-giudicati, cit., p. 71 [p. 104].
[6] Ivi, p. 76 [pp. 109-110].
[7] Ibidem.
[8] Jacques Derrida, Le monolinguisme de l’autre, Paris, édition Galilée, 1996, p. 116-117; tr. it. di G. Berto, Il monolinguismo dell’altro, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, p. 82.
[9] J. Derrida, Pre-giudicati, cit., p. 81 [p. 115].
[10] J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro, cit., p. 82 [pp. 116-117].
[11] J. Derrida, Pre-giudicati, cit., p. [p. 114].
[12] Ivi, pp. 86-87, tr. parzialmente modificata [pp. 120-121].
Marc Crépon è attualmente direttore del dipartimento di filosofia dell’École Normale Supérieure di Parigi. Oltre all’esegesi del pensiero di Derrida, le sue ricerche vertono principalmente sul pensiero di Nietzsche, sul rapporto tra filosofia e linguaggio e, più di recente, sulla questione della democrazia. Tra i suoi lavori più recenti, La guerre des civilisations (2010) e Le consentement meurtier (2012).
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