Marcel Hénaff, Il prezzo della verità

by gabriella

La recensione di Beniamino Fortis a Marcel Hénaff, Il prezzo della verità. Il dono il denaro, la filosofia, Città Aperta, 2007.

Quel che conta non ha prezzo [per tutto il resto c’è Master Card …]

Se vi sia ancora spazio, nell’epoca del pieno dispiegamento della logica commerciale, per un ambito sottratto alle valutazioni mercantili è questione che assume un ruolo preponderante nell’ambito delle tematiche trattate da Marcel Hénaff. Da essa prende le mosse il percorso che le attraversa, e ad essa è riconducibile la sostanziale continuità tra i tre nuclei problematici che, dell’intera opera, scandiscono e orientano lo sviluppo. Figure della venalità, L’universo del dono, La giustizia nello scambio e lo spazio mercantile, sono infatti le tre tappe, i tre quadri concettuali, susseguentisi nella stretta relazione che nell’ultima parola dell’uno, riconosce contemporaneamente il primo atto del successivo. Nel risultato ultimo, conseguito nell’ambito di un piano tematico, il presupposto, a partire dal quale è consentito lo sviluppo della trattazione seguente.

Oggetto della prima parte dell’opera è la delineazione del concetto di venalità. Una ricostruzione della critica rivolta da Platone e Aristotele contro i sofisti individua il tratto saliente della polemica nell’indignazione provata dinanzi alla circostanza, per la quale era consuetudine dei maestri di sofistica esigere un onorario in cambio dei servigi offerti. Nella fattispecie, appare scandalosa l’indebita istituzione di un rapporto fra ciò che, per sua stessa natura, risulta essenzialmente incomponibile: «La scienza e il denaro non si misurano con lo stesso metro» (Aristotele, Etica Eudemia, VII, 10, 1243b).

Sulla base di tale irriducibile incommensurabilità, le conclusioni che si traggono conducono al più profondo discredito per i sofisti – che quindi, non possono in alcun modo essere quei maestri di autentico sapere per i quali si spacciano, poiché, se veramente così fosse, nessun compenso potrebbe, in tal caso, risultare adeguato. È il fatto che gli insegnamenti sofistici siano – in certo qual modo – misurabili – che a essi, cioè, sia possibile dare un prezzo – a evidenziarne la radicale estraneità rispetto all’autentica saggezza della filosofia.

In prospettiva opposta, nell’ambito della vera ricerca filosofica – nettamente distinta, quindi, dalla sofistica – il rapporto maestro-allievo che viene a instaurarsi si regge su basi essenzialmente differenti da quelle di natura grettamente economica: solo la generosità reciproca può, infatti, orchestrare quello scambio che, invece, un approccio fondato sul denaro sminuirebbe in modo irrimediabile. Al di là dell’ironia e della carica emotiva che contraddistinguono l’attacco platonico,

«Aristotele dice esplicitamente ciò che Platone ci lascia indovinare e alla fine ci offre una solida argomentazione: per stabilire un’equivalenza monetaria tra due elementi, è necessario inoltre che possano entrare in una proporzione, cioè che esista un termine medio tra loro. Quando ciò non avviene, allora l’unico modo di ricompensare è il dono» (p. 152).

Con il riferimento al dono si entra nella cerchia di riflessioni che concernono il secondo snodo tematico dell’opera. Nel tratto di raccordo tra le figure della venalità e l’universo del dono, la questione si pone circa la possibilità di tracciare un limite che funga da spartiacque, tra ciò che, ponendosene al di qua, risulti suscettibile di una stima precisa – il dominio del calcolabile , e ciò che, invece, si mostra resistente a ogni istanza oggettivante che intenda renderne conto in termini meramente quantitativi. L’“hors-de-prix” costituisce, dunque, l’al di là, rispetto a quella linea di confine, dinanzi alla quale si arresta – deve arrestarsi – l’attitudine al calcolo e alla quantificazione di una forma mentis improntata su un modello di mercato.

E tuttavia, non è sufficiente rimarcare il discrimine solo dalla sfera d’influenza del meccanicismo economico. È infatti un duplice atto di delineazione quello che definisce i connotati essenziali del dono, una duplice presa di distanza, cioè, che lo allontana tanto dall’operatività oggettiva degli schemi mercantili, quanto dalla soggettività del piano morale, sul quale il dono risulta inquadrabile, solo a fronte di una semantizzazione che lo concepisca come gesto di generositàDa un lato, il dono si colloca ad un livello radicalmente altro rispetto a quello del commercio:

«Il dono non è né l’antenato del commercio (i due esistono contemporaneamente), né un’alternativa ad esso (non svolgono la stessa funzione)» (p. 163). Dall’altro, è da evitare anche la chiave di lettura simmetrica e opposta che, di quella economicistica, rappresenta il contraltare morale: «Bisogna sostenerlo con fermezza: la pratica del dono cerimoniale non è un gesto d’aiuto o di carità più di quanto non sia un’alternativa alla relazione mercantile» (p. 165).

Né l’utile economico, né la generosità del gesto caritatevole, dunque: le istanze sollevate dal dono cerimoniale «riguardano prima di tutto l’esigenza di essere riconosciuti» (p. 185). Come terza via, quindi, il carattere prettamente etico delle dinamiche di riconoscimento reciproco connota l’universo del dono con i tratti problematici dell’equidistanza. Dalla pura necessità della legge di profitto, così come dalla pura libertà dell’impulso morale. Il flusso relazionale che impernia il fenomeno del dono cerimoniale resta vincolato a una richiesta di riconoscimento e, dunque, all’aspettativa di una risposta che mostra tutti i caratteri antinomici di ciò che, in sé, riassume gli opposti di libertà e necessità: il “gesto del dono associa in modo indistinto la necessità e la libertà” (p. 197); è “obbligazione paradossale, perché libera quanto necessaria” (p. 537).

Investire il dono di pregnanza effettuale, nell’ambito delle dinamiche di riconoscimento, è gesto teoretico che chiama immediatamente al confronto – naturalmente polemico – col modello hegeliano della lotta tra coscienze. Ciò che qui è in oggetto è la pensabilità di un paradigma del reciproco riconoscersi, che non si regga necessariamente sulla conflittualità di derivazione coscienzialistica. Chiave di volta di tale modello alternativo è, dunque, la presenza di un oggetto mediatore – il dono, per l’appunto – che, “come pegno, sostituto del donatore (…) viene ceduto come parte di sé” (pp. 188-9). Da qui, la divergenza dal procedere dialettico hegeliano, presentato nella Fenomenologia dello Spirito: “In termini hegeliani, la lotta degli avversari è frontale, comincia senza mediazioni, e per questo motivo è mortale; (…). Nel dono cerimoniale, per prima cosa c’è l’offerta dell’oggetto come pegno e sostituto, il dono che mediatizza i rapporti degli interessati; il conflitto ha luogo soltanto se i doni vengono rifiutati o se non ci sono stati doni” (p. 194, n.).

Un’ulteriore considerazione, allora, consente, proprio in virtù delle tematiche del riconoscimento, di marcare ancora più a fondo il solco che separa l’attività di scambio mercantile da quella del dono cerimoniale: solo nello scambio simbolico dei doni giunge pienamente all’espressione quella natura arrischiante che ogni incontro con l’altro necessariamente comporta, e che, al contrario, il rapporto mercantile non può che smorzare, nella freddezza di un meccanismo asettico: “esso non domanda il riconoscimento delle parti, ma il consenso di scambiare i beni necessari alla vita comune” (p. 542).

Ribadire la radicale alterità dell’area semantica del dono, rispetto a quella del mercato, significa, in altri termini, decretare la reciproca autonomia delle due e, con essa, dunque, anche la necessità di entrambe; la necessità, cioè, di una compresenza degli eterogenei: “Sarebbe insopportabile che ogni bene scambiato fosse inteso come una richiesta di riconoscimento, ma sarebbe inaccettabile che nessuno lo fosse. La componente dello scambio utile deve essere accettata” (pp. 542-3) a fianco di quella relativa all’inestimabile.

Con l’immagine di un auspicato equilibrio di forze – inteso come condizione ideale, estranea a tentativi di assimilazione e sconfinamento tra le parti – si conclude, quindi, il percorso tracciato da Hénaff. Una convivenza tra diverse modalità di pensiero e azione garantita da una suddivisione di ambiti, attuata nel segno di una profonda complementarità. Una dicotomia, questa, che richiama alla mente quella habermasiana tra sistema e mondo vitale (Lebenswelt), nella quale, a forme di razionalità strumentale rigidamente disciplinate, si affiancano – non senza difficoltà – modelli razionali a base comunicativa, in linea coi quali, l’Ego e l’Alter si incontrano, nel raggiungimento del reciproco riconoscimento, sullo sfondo di un orizzonte linguistico.

Il merito, infine, o – volendo assumere un atteggiamento più cauto e imparziale –, la prerogativa che contraddistingue il lavoro di Hénaff – anche nel contesto di un ideale confronto con altre proposte teoriche (Hegel, Habermas) – consiste, allora, proprio nella capacità di aprire una prospettiva filosofica, in grado di inscrivere la dinamica del riconoscimento nell’orizzonte di senso aperto dal gesto, dalla gestualità simbolica del dono che, inquadrata sul piano storico-antropologico, sembra sfuggire alla dicotomia pensiero-linguaggio, che, del resto, condiziona gran parte degli sviluppi filosofici contemporanei – da Hegel, fino al dibattito attuale.

http://www.agalmaweb.org/articoli2.php?rivistaID=14

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