La storia di Marcinelle: l’emigrazione, il lavoro, la morte in galleria, l’8 agosto 1956. Tratto da Senzasoste.it.
Al termine della seconda guerra mondiale il Belgio aveva mantenuto quasi intatta la sua infrastruttura industriale ma non aveva la quantità di manodopera che gli sarebbe stata necessaria. Inizialmente il governo belga pensò di utilizzare i prigionieri di guerra tedeschi o i profughi interni, poi incentivò l’immigrazione di lavoratori dall’estero. In Italia la situazione era del tutto opposta: c’era la necessità di una totale ricostruzione delle fabbriche e un alto tasso di disoccupazione.
Nel 1946 i due paesi conclusero quindi un trattato (chiamato “uomo-carbone”) secondo il quale l’Italia si impegnava a inviare in Belgio 50mila minatori (2mila ogni settimana) e il Belgio a vendere all’Italia un minimo di 2.500 tonnellate di carbone mensili ogni 1.000 lavoratori immigrati. In Italia ci fu una campagna pubblicitaria martellante per invogliare i disoccupati ad andare in Belgio: accattivanti manifesti rosa parlavano di salari molto buoni, contributi, assegni familiari… I candidati dovevano avere al massimo 35 anni e godere di buona salute.
Gli aspiranti minatori erano concentrati alla stazione centrale di Milano e di lì partivano in treno: un viaggio che poteva durare tre giorni e tre notti.
I belgi non volevano piantagrane e c’era una rigida selezione politica: nei paesi erano i parroci a “raccomandare” i lavoratori, e durante il viaggio questi erano spiati da agenti in incognito incaricati di individuare i potenziali agitatori. All’inizio c’erano dei forti pregiudizi sui meridionali, ma poi i belgi si resero conto che i lavoratori provenienti dall’agricoltura o da ex regioni minerarie, come la Sicilia, la Sardegna e le Marche, si adattavano di più rispetto a molti settentrionali che avevano avuto esperienze nell’industria.
Una volta arrivati in Belgio, gli emigranti venivano alloggiati nelle baracche che avevano ospitato i prigionieri di guerra e il giorno dopo venivano portati alla miniera. Quando si rendevano conto delle condizioni di lavoro, molti si rifiutavano di scendere nei pozzi, oppure dopo la prima volta rinunciavano (quasi il 50%). Ma il contratto che avevano firmato prevedeva l’arresto in caso di mancato rispetto dell’impegno assunto. Non ricevevano alcuna formazione e i salari erano molto inferiori a quelli promessi perché quasi nessuno era un operaio qualificato. Con tutto ciò, dieci anni dopo la firma dell’accordo del 1946, su 142mila minatori presenti in Belgio 44mila erano italiani.
L’8 agosto di quell’anno, alle 8:10 del mattino, nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle, presso Charleroi, un errore nella manovra di un montacarichi provoca un terribile incidente: vengono tranciati i cavi telefonici ed elettrici, e la scintilla incendia l’olio fuoriuscito da una condotta. Il fumo invade immediatamente i condotti dell’aria e 262 minatori su 274 che si trovano nei pozzi muoiono soffocati. 136 sono italiani, 95 belgi, gli altri di dieci diverse nazionalità. Fu solo dopo quella tragedia che nelle miniere belghe venne introdotto l’uso della maschera antigas.
Nel 1959 al processo gli amministratori e i dirigenti vennero assolti, vi fu solo una condanna a sei mesi per il progettista della galleria. La vicenda destò enorme impressione in Italia e l’emigrazione verso il Belgio rallentò. I belgi attinsero allora da altre nazioni povere, prima Spagna e Grecia, poi Marocco e Turchia, ma il settore minerario ormai si reggeva solo sulle sovvenzioni statali ed era privo di ogni competitività.
Alla fine degli anni ’50, quando il prezzo del carbone crollò sul mercato internazionale, entrò in una crisi profonda. Fu un ulteriore dramma per le decine di migliaia di lavoratori che erano arrivati dall’estero. La miniera di Marcinelle, che aveva riaperto l’anno dopo l’incidente, chiuse definitivamente nel 1967.
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