Marco Calamari, 18.000 DNA per un assassino

by gabriella

puntoMarco Calamari, alias Cassandra Crossing, riflette sull’incriminazione biologica e la nuova frontiera scientifica dell’indagine penale. Tratto da Punto informatico.

Roma – Il numero varia a seconda delle fonti, riducendosi a 15.000 o 14.000, ma anche chi non è minimamente interessato alla cronaca nera e non segue CSI potrebbe aver già capito di cosa si tratta. È il numero di analisi del DNA che sono state finora compiute durante le indagini sull’assassinio di Yara Gambirasio, indagini che dopo 4 anni hanno avuto sviluppi clamorosi e portato al fermo di una persona, il cui DNA corrisponde ad una traccia trovata sulla vittima.In attesa di sapere da un processo se l’autore di un efferato delitto sarà stato identificato, assicurato alla Giustizia e condannato, il numero delle analisi svolte, quello delle intercettazioni telefoniche (alcuni articoli apparsi in questi giorni parlano di 130.000) ed il plauso che questi metodi tecnologici di indagine applicati a masse di innocenti ha trovato nei commenti della stampa e degli altri media non sono affatto rassicuranti.

Nei media, quando si parla di cronaca nera, argomento che “vende” sempre, i sospettati sono già colpevoli prima ancora che le indagini siano concluse. Quando la cronaca riguarda piuttosto corruzione, gravissimi reati economici, o evasione fiscale, si deve invece attendare la Cassazione perché l’aggettivo “presunto”, sempre dovuto poiché la legge prevede la presunzione di innocenza, scompaia dalla normale prosa giornalistica. D’altra parte, visto che l’analisi del DNA di migliaia di persone in questo caso sembrerebbe la “prova regina”, forse potremmo risolvere il problema della criminalità con una più economica ed efficace schedatura generalizzata del DNA alla nascita. Niente più criminalità in questo modo?

Magari potremmo dare un contentino ai pochi che, come Cassandra, sono seriamente preoccupati delle schedature di massa, garantendo la realizzazione di banche dati “supersicure” e contenerti solo “metadati” di DNA: i metadati consentirebbero di identificare un assassino, ma ad esempio non ai datori di lavoro ed alle compagnie di assicurazioni di identificare malattie genetiche prima della firma di un contratto. Quale è la vostra opinione?

Ma torniamo all’uso massivo di DNA nelle indagini. Non è la prima volta che durante delle indagini in Italia viene usata una schedatura di massa “volontaria” del DNA. È già stata usata con successo. Il 7 giugno 2002 a Dobbiaco, un comune di 3000 abitanti della Val Pusteria, una donna di 74 anni fu assassinata. Durante le successive indagini, ad alcune centinaia di maschi del piccolo paese (da 200 a 600, secondo le fonti) fu prelevato “volontariamente” il DNA. In questo caso il profilo di uno degli esaminati si rivelò essere del padre di chi aveva lasciato il suo DNA sul cadavere, ed il figlio fu ricercato, trovato, processato e condannato.

Non esistono fonti facilmente rintracciabili che documentino se i profili genetici siano allora stati rilevati su base puramente volontaria, sulle modalità usate per sollecitare i volontari, e se una parte dei prelievi siano stati disposti d’autorità. Soprattutto, su cosa ne sia stato dei profili genetici rilevati ai 200 o 600 cittadini innocenti, incluso ovviamente quello del padre dell’assassino. Cassandra commette un peccato di eccesso di garantismo oltre che di paranoia? Ognuno, dopo averci pensato e non rispondendo d’impulso, dovrebbe trovare la propria risposta.

È un fenomeno solo italiano? All’estero cosa succede? In Francia nel 2013, durante le indagini per una caso di stupro commesso in un liceo, quindi in un luogo circoscritto, fu prelevato il DNA su base “volontaria” a tutti gli allievi maschi del liceo ed all’intero personale docente e non docente, garantendo che i campioni sarebbero stati distrutti, ma anche che chiunque non si fosse sottoposto al test sarebbe stato automaticamente considerato sospettato. Purtroppo c’è molta differenza tra la distruzione dei campioni di DNA e la cancellazione dei profili genetici dalle banche dati degli investigatori: nella maggior parte dei paesi il profilo di chi è stato coinvolto in indagini non viene cancellato, talvolta nemmeno a richiesta dell’interessato. Risultato di questa azione di massa riguardante ben 575 persone? Nulla (purtroppo). Vi sembra che sia stata una scelta ragionevole, perché comunque chi è innocente non ha nulla da nascondere? Allora andiamo avanti.

Nel 2013 in Germania a Monaco un cittadino italiano, Domenico Lo Russo fu accoltellato ed ucciso da uno sconosciuto che aveva inseguito dopo che lo sconosciuto aveva sputato alla fidanzata, lasciando ovviamente in questo modo una traccia inequivocabile del suo DNA. Gli investigatori tedeschi ritennero opportuna un’azione ancora più complessa di indagine di massa: richiedere a tutti i gestori di rete mobile i dati di tutti i possessori di cellulari i cui apparecchi erano agganciati ad una delle celle vicina subito prima o dopo il fatto, in questo caso 9300 persone. 3000 di queste persone, scelte non si sa su quali basi, furono invitate a consegnare un campione del loro DNA: forse furono escluse categorie quali femmine, tassisti di passaggio, paraplegici e bambini sotto i 10 anni? 1800 si sottoposero volontariamente all’esame, agli altri 1200 pare sia stato prelevato obbligatoriamente. Anche in questo caso il risultato è stato nullo, e l’indagine è stata archiviata all’inizio di quest’anno. Cosa è successo dei profili genetici e dei dati di cella impiegati? Nella maggior parte dei paesi europei sarebbero stati conservati come atti di un’indagine. Il problema della ragionevolezza di questa operazione, dei suoi costi e dei suoi effetti collaterali è comparso nella vostra mente? Potrebbe essere applicato a moltissimi altri casi. E se l’assassino non avesse avuto il cellulare o semplicemente l’avesse tenuto spento?

Nelle indagini “normali”, in cui non possono essere spesi milioni di euro, l’ordine dei fattori viene molto ragionevolmente invertito: prima si svolgono investigazioni ordinarie, meno sensazionalistiche ma più mirate ed efficaci, e solo successivamente in un ambito ristretto vengono usate metodiche quali intercettazioni ed analisi del DNA. Niente clamorose e milionarie pesche a strascico nella speranza che qualcosa resti impigliato nelle reti. Ed infine, usando strategie di indagine di massa, aumentano anche le possibilità di distruggere innocenti e fabbricare colpevoli.

Il caso dell’Unabomber italiano, di cui persino Cassandra si era occupata esprimendo preoccupazioni sulle modalità di indagine, fu svolta con una fantasiosa analisi di dati rilevati in massa dalle fonti più svariate ed inseriti in un database. Questa metodologia produsse due mesi dopo il colpevole “teoricamente perfetto”, l’ingegner Elvo Zornitta. La storia successiva delle indagini, dopo anni, ha completamente scagionato Zornitta, che non è mai stato nemmeno rinviato a giudizio ma il cui nome, dato in pasto ai media come “il colpevole”, gli ha rovinato completamente la vita.

Ci sono particolari delle fase finale delle indagini che chi vorrà approfondire troverà ancora più preoccupanti, ma qui Cassandra vuole focalizzarsi nuovamente sul problema dell’applicazione di modalità tecniche di indagine tanto tecnologiche quanto prive di oggettività, e tuttavia prese come “infallibili oracoli”.

Rabbia, pietà e comprensione per le vittime dei delitti sono umane e doverose, ma è altrettanto doveroso considerare i danni collaterali di indagini svolte in questo modo, provocati agli innocenti ed alla società civile nel suo complesso. L’Unabomber italiano, lo stupratore della liceale francese e l’assassino di Lo Russo sono ancora in circolazione, a dispetto dei database, dei prelievi di massa del DNA e delle “prove regine”. Tempo e risorse preziosi spesi, ed un nulla di fatto. Ne valeva la pena?

Al contrario, le preoccupazioni per tutti i profili del DNA di innocenti che sono finiti e finiranno nella banche dati biometriche sui criminali possono solo aumentare. Grazie anche agli attuali accordi europei, non sono solo dubbi ma realistiche possibilità.

 

 

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