Traggo da Consecutio temporum, questa analisi comparata delle letture di David Harvey [The Enigma of Capital e Introduzione al Capitale. 12 lezioni sul primo libro, trad. it. 2012] e Fredric Jameson [Representing Capital. A Reading of Volume One] del primo libro del Capitale, nel segno della dialettica, della demistificazione e del metodo.
A tutti piace pensare di avere i propri «valori», e questi ultimi rappresentano un elemento attorno al quale ruota tutto il dibattito sui candidati alla presidenza durante ogni stagione elettorale. Marx sostiene però che alcuni di questi valori sono determinati da un processo che non capiamo e che non è frutto di nostre scelte consapevoli, e che bisogna analizzare il modo in cui tali valori ci sono imposti.
Se volete capire chi siete e in che punto state di questo turbine di valori, dovete innanzitutto capire come viene creato e prodotto il valore della merce, e che conseguenze – sociali, geografiche, politiche – esso porta con sé. Se pensate veramente di risolvere una problematica ambientale gravissima come il riscaldamento globale senza confrontarvi con la questione di chi e come abbia determinato la base della struttura del valore, state solo prendendo in giro voi stessi. Per questo Marx insiste sulla necessità di capire cos’è il valore della merce e quali sono le necessità sociali che lo determinano.
David Harvey
[….] Gatto mostra infatti come, al di là delle differenze [disciplinari: Harvey è un geografo e urbanista, Jameson un teorico della cultura; e dei riferimenti analitici: Harvey prescinde da riferimenti filosofici precisi, Jameson è debitore di Lukàcs e della Scuola di Francoforte, in particolare di Adorno], […] Harvey e Jameson condividono un’idea di base, che informa i rispettivi commenti a Marx. Entrambi concepiscono il lavoro di analisi del capitalismo e delle sue ideologie (del suo apparato ideologico, potremmo dire, e difatti i due teorici non mancano di riferirsi a Gramsci, seppure solo in superficie) in termini manifestamente dialettici. Qualsiasi tentativo di leggere l’insegnamento di Marx in un’ottica parziale, analitica o statica è sin da subito osteggiato: sia per Harvey che per Jameson il capitale è movimento, fluidità, dinamismo che ambisce a costituirsi e a presentarsi, nella sua fenomenicità, come totalità in sé chiusa e statica, ma che, adeguatamente smascherata, si rivela come totalizzazione, ossia come tentativo totalizzante di inglobare tutta la realtà in sé […]
In Harvey, tale finalità è percorsa allargando gli orizzonti della teoria marxista classica e sviluppando ciò che Marx poteva solo intuire: la necessità, da parte del capitale, di estendere i confini della propria spazialità (certamente al di là dello Stato o dell’incarnazione statale della potenza economica, al contrario di quanto affermava un altro marxista vicino a Harvey, ma non troppo, come Giovanni Arrighi)[5]e di dar vita a nuove concezioni dello spazio e del tempo, che il teorico deve dunque connettere alle rinnovate strategie di accumulazione per ridisegnare i contorni geografici del dominio capitalista. Fedele, in questo, alla lezione di un marxista che in Europa non ha avuto l’attenzione che merita, Henri Lefebvre[6], Harvey ha insistito più sulla circolazione che sulla produzione di capitale, cercando di dimostrare che la svolta reale nel modo di produzione – il peso acquisito dalla finanziarizzazione e dell’immateriale – sia da ricercare in una mutata concezione spazio-temporale che ha destabilizzato le precedenti acquisizioni della modernità, ora fiaccate dall’estrema fluidità conseguita dall’accumulazione.
[…] Il lavoro politico che ne consegue – e che, almeno nel geografo americano, non è scindibile da quello teorico – è altrettanto “totalizzante”: solo una contro-argomentazione anticapitalista che rinunci ai tentativi riformistici di “stare dentro il capitale” per limitarne i disastri e invece ribalti completamente il quadro imposto dal dominio, proponendo un’alternativa globale in grado di «riorganizzare noi stessi e […] costruire nuove forme di organizzazione collettiva», appare come una via di uscita alle costrizioni dell’attuale dominio economico.[7] Allo stesso modo, un’elaborazione critica del capitalismo contemporaneo deve passare necessariamente dalla messa in evidenza di ciò che resta inespresso e non affiora alla superficie (in altri termini, ciò che già Marx definiva come mistero recondito del capitale).
Nelle pagine di Jameson, al contrario, il ricorso alla dialettica e all’idea di totalità è argomentato con un diretto ritorno a Hegel. Per alcuni aspetti, l’hegelo-marxismo di Jameson dà per scontato vi sia un rapporto di continuità tra il pensiero dei due filosofi (tanto da sostenere con perentorietà che «Marx include Hegel»[8]) […]. Hegel e Marx (ma bisognerebbe aggiungere, nel caso dello studioso statunitense, anche Freud [13]) sono per Jameson le due grandi figure del pensiero moderno capaci di restituirci le chiavi di accesso e di comprensione a quell’ulteriore fase di ultramodernizzazione del moderno che è la postmodernità.
Sulla scorta del concetto sartriano di totalizzazione, tolto dal primo libro della Critica della ragione dialettica (1960),[14] Jameson ha sempre insistito sul nesso che stringe la costruzione della totalità alle inevitabili strategie di contenimento che tale dinamica costruzione reca in sé, cosicché il capitalismo, quale totalità che mira a imporsi come unità conclusa, se colto nel suo atto di totalizzarsi, svela le sue “cicatrici” (termine appunto freudiano), le sue suture, il suo essere artificialmente totalità, e dunque solo totalizzazione parziale […].
2. […] Marx, sembra suggerirci Harvey, ha adottato uno stile espositivo capace di seguire mimeticamente l’oggetto di analisi, che sin dalle prime battute è colto come sfuggente ed enigmatico […] la rappresentazione del capitalismo che il filosofo di Treviri consegna al lettore ha a che vedere con la ricostruzione di una totalità, colta in una logica dell’espansione che, fuori da qualsivoglia tentazione deterministica, rivela l’interezza della realtà come sede di una co-evoluzione di diversi elementi, tra loro legati in via appunto dialettica […]
Quello di Marx, insomma, è un pensiero della relazione processuale, della metamorfosi: una lezione di antiformalismo. Abituati come siamo alla lectio facilior di un Marx materialista e determinista, viene da chiedersi (e Harvey stesso lo fa costantemente, e con un certo sarcastico divertimento, aggiungerei): «che razza di materialismo» (30) è un materialismo che tiene insieme realtà e fantasmi, che parla del capitale come qualcosa di magico, del plusvalore come mistero o della merce come un’entità arcana? Vien da rispondere, intanto, che queste domande a un lettore d’oggi, cresciuto nell’escrescenza tecnologica degli ultimi decenni e nell’ipertrofia del virtuale, potrebbero forse apparire più intelligibili che a un lettore della seconda metà dell’Ottocento. In tal senso, e non a caso, Ernest Mandel ha parlato di una condizione privilegiata (per chi vuole comprendere il capitalismo, e non certo per chi lo subisce!) dell’oggi: il capitale ha infatti raggiunto ai giorni nostri un grado di purezza e limpidezza tale da renderlo immediatamente percepibile e accostabile all’astrazione teorizzata da Marx (e da Hegel)[17].
[…] le tre fonti alle quali doversi accostare per comprendere l’andamento del progetto marxiano […] La prima è l’economia politica classica, di derivazione ampiamente inglese (da Hobbes, Locke, fino ai protagonisti più vicini nel tempo a Marx, ossia Adam Smith, Malthus e Ricardo)[18], nel solco della quale Marx certamente si colloca[…]: l’autore del Capitale lavora sempre adagiandosi, all’inizio, sul modello da criticare, ne «accetta» i «risultati», salvo poi individuarne «le contraddizioni interne» per risolverle, e finendo dunque per trasformare «radicalmente l’argomentazione originale» (16). E in effetti l’intero libro è una critica posta sul terreno dell’economia classica, da cui fuoriesce una proposta del tutto differente: inutile ribadire che ciò è possibile perché lo sguardo di Marx verso gli altri economisti e pensatori è sempre di marca dialettica. Dietro l’economia classica si nasconde una precisa relazione sociale, e dunque una latente e non manifesta lotta di classe: il processo di naturalizzazione del dinamismo storico-sociale, quale mistificazione borghese in materia di scienze sociali, è il reale bersaglio ideologico di questo atteggiamento decostruttivo.
La seconda fonte che Harvey chiama in causa è il «metodo filosofico», vale a dire la filosofia stessa: che peso ha essa sul piano dell’argomentazione? O, meglio, si può affermare che Das Kapital sia un libro di filosofia?[19] La risposta di Harvey è, per così dire, “strutturale”: sul piano dell’argomentazione – e al di là della dimostrazione di una compenetrazione profonda tra la Logica di Hegel e le pagine marxiane, per cui si potrebbe semplicemente rimandare, ad esempio, agli studi di Dussel[20] –, Marx pone «in relazione la tradizione filosofica tedesca con quella economico-politica elaborata dalla cultura inglese e francese» (17), ma la prima esercita una pressione certamente maggiore, dal momento che l’approdo al Capitale è anche un affrancamento dall’hegelismo di sinistra della gioventù (più o meno riuscito)[21]. Ma è chiaro che l’andamento del capolavoro marxiano è, nella sua forma più interna, filosofico.
Si può dire che da questo secondo affluente provenga la terza delle fonti individuate da Harvey, quella del socialismo utopico (e dunque Saint-Simon, Fourier, Bebeuf, Cabet, Proudhon e così via), nei confronti del quale Marx ha inteso rapportarsi con un più esibito affrancamento. Il Capitale sarebbe, a parere di Harvey, il documento più organico della distanza che l’autore del Manifesto del partito comunista ha finalmente realizzato dal contesto storico-culturale del tempo: in tal senso, l’opera matura di Marx appare come la risposta propositiva a una serie di contraddizioni teoriche che l’autore ha individuato nelle maggiori prospettive filosofiche e scientifiche coeve. Se c’è una scienza del materialismo storico, essa va considerata proprio in questa misura, ossia come dissipazione delle ingenuità filosofiche o delle mistificazioni scientiste del pensiero borghese e individualista.
«In altre parole – sostiene Harvey – questo nuovo metodo scientifico, avvalendosi della profondità della speculazione tedesca, vuole risolvere i problemi teorici sollevati dall’economia politica inglese, raccogliendo l’eredità dei movimenti politici francesi degli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, per rispondere infine alle seguenti domande: che cos’è il comunismo? Come devono pensare i comunisti? Come possiamo capire e criticare scientificamente il capitalismo in modo da tracciare un percorso per la rivoluzione comunista?» (18).
Domande che nascono dall’apprendistato filosofico e politico degli anni precedenti[22].
A distinguere Il Capitale dalle altre opere è dunque il metodo (e l’autocoscienza di tale metodo). Harvey, con la consueta capacità di sintesi (che viene da un approfondimento quarantennale col testo marxiano), così lo riassume:
Il metodo d’indagine di Marx prende avvio da tutto ciò che esiste – dalla realtà per come essa si dà nell’esperienza e da tutte le descrizioni economiche, filosofiche e letterarie di questa esperienza. Egli sottopone questo materiale a una critica rigorosa in modo da scoprire concetti semplici, ma estremamente potenti, che possano spiegare la realtà. Questo metodo viene chiamato “discendente” – procediamo a partire dalla realtà immediata che ci circonda, spingendoci sempre più in profondità per spiegare questa stessa realtà. Una volta acquisiti questi concetti fondamentali possiamo risalire in superficie – metodo che viene chiamato “ascendente” – e scoprire quanto può essere fuorviante il mondo delle apparenze (18).
La forza di questo modo di procedere […], la dialettica, ereditata da Hegel e mutata di segno, o svuotata del suo guscio mistico, per riprendere le parole di Marx medesimo, ha un compito appunto di mediazione: «deve essere in grado di capire e rappresentare i processi in movimento, i cambiamenti e le trasformazioni» (23); deve porsi come strumento di comprensione e di “mobile fissazione” (se è permessa quest’espressione ossimorica) di oggetti dinamici e flessibili, di mutazioni in atto.
«Per capire il metodo dialettico di Marx si deve leggere Il capitale, perché esso ne è l’applicazione, ma per capire tale opera si deve prima aver compreso il funzionamento del metodo dialettico» (ibidem).
Asserzione che, almeno alle mie orecchie, suona più o meno così: prima di capire la specificità del metodo marxiano, bisogna leggere attentamente Hegel[23].
Le prime pagine del Capitale risultano ardue proprio perché presuppongono tale metodologia e presentano i risultati senza presentarne le ragioni. L’«atteggiamento […] criptico» (27) di Marx è segnalato dall’utilizzo di termini certamente poco scientifici: il concetto di partenza, la merce, è colta nel suo apparire, nel suo rivelarsi e nel suo presentarsi, cioè nella sua fenomenologia universale. Marx parla, a tal proposito, di un’«oggettività spettrale»[24], di un qualche elemento invisibile che rende possibile lo scambio: «la materialità della merce non può dirci niente sulla sua commensurabilità» (29), giacché quest’ultima non ha niente a che fare con i suoi valori d’uso. I fantasmi del valore sono però anche qualcosa di oggettivo: rappresentando il lavoro umano oggettivato nella merce sono un mezzo indispensabile per realizzare lo scambio.
Eppure, dietro la superficie di questa oggettività, è nascosto un processo nel quale l’uomo, il suo lavoro, rientra come attore essenziale. Il rovello interpretativo che sta alla base del “cominciamento” del primo volume risiede pertanto nel fatto che Marx mette insieme, in un inusuale materialismo, l’oggettività con l’immaterialità. La mediazione rappresentativa è necessaria per garantire una certa oggettività in materia di scambio, ma tale oggettività è nello stesso tempo qualcosa di immateriale, che, a un certo grado e a un certo livello, porta in sé tracce di lavoro umano sedimentato e cristallizzato, che Marx, evocando Ricardo, definisce come «socialmente necessario»[25]. Abbiamo a che fare con qualcosa che appare, ma non si vede. Qualcosa di oggettivo e immateriale a un tempo. Siamo pertanto lontani da qualsivoglia ingenuo materialismo, e tanto più da un primitivo positivismo. La domanda che sorge da queste criptiche pagine iniziali – le più interpretate della storia della ricezione marxiana, probabilmente – a un ipotetico lettore contemporaneo è, nella sua acquisita forma filosofica, già di per sé politica:
«cosa è socialmente necessario? Come viene stabilito, e da chi? […] Quali sono le necessità sociali all’interno del modo di produzione capitalistico?» (32).
Harvey ne approfitta per un’incursione nell’oggi (del resto, il suo commento è pensato sempre in forma di attualizzazione):
Credo che questo continui a essere il nostro problema fondamentale. È a questo proposito che Margaret Thatcher affermava «no alternative», che equivale a ritenere le necessità sociali che ci circondano talmente radicate da non avere altra scelta che adeguarsi a esse. Ciò rimanda alla questione di chi e come stabilisca cosa sia il valore. A tutti piace pensare di avere i propri «valori», e questi ultimi rappresentano un elemento attorno al quale ruota tutto il dibattito sui candidati alla presidenza durante ogni stagione elettorale. Marx sostiene però che alcuni di questi valori sono determinati da un processo che non capiamo e che non è frutto di nostre scelte consapevoli, e che bisogna analizzare il modo in cui tali valori ci sono imposti. Se volete capire chi siete e in che punto state di questo turbine di valori, dovete innanzitutto capire come viene creato e prodotto il valore della merce, e che conseguenze – sociali, geografiche, politiche – esso porta con sé. Se pensate veramente di risolvere una problematica ambientale gravissima come il riscaldamento globale senza confrontarvi con la questione di chi e come abbia determinato la base della struttura del valore, state solo prendendo in giro voi stessi. Per questo Marx insiste sulla necessità di capire cos’è il valore della merce e quali sono le necessità sociali che lo determinano (33).
Ovviamente il tema della coscienza è qui posto in primo piano, e Harvey pone in evidenza più volte l’idea che gli attori sociali, per Marx, siano maschere, supporti o allegorie di processi più vasti. Ma il punto che si tiene a evidenziare riguarda le modalità conoscitive che l’esordio del Capitale presenta: da un lato, Marx stabilisce che l’oggetto della ricerca è essenzialmente qualcosa di nascosto e di sfuggente, dall’altro lo connette al mondo delle relazioni sociali o al lavoro “socialmente necessario”. La domanda di Harvey è dunque la seguente: in che modo stanno insieme questi due elementi, ossia, cosa lega il principio di immaterialità/oggettività alla materialità delle relazioni sociali, oppure: cosa rende inscindibile la trattazione del valore d’uso dalla trattazione del valore di scambio (giacché la merce, per poter essere scambiata, deve comunque servire a qualcosa)?
Interviene qui, a parere di Harvey, un’ulteriore esplicitazione del metodo dialettico, che pian piano va scoprendosi, a rivelare l’altro concetto-cardine dell’impostazione scientifica di Marx: la “totalità”, colta però qui limitatamente alle argomentazioni che, nelle prime pagine del Capitale, l’autore porta avanti, vale a dire quelle riassunte
«nel trittico di concetti di “valore d’uso”, “valore di scambio” e “valore”, sviluppati nel corso della trattazione della merce» (36).
La dialettica consiste nel considerare tale trittico nella sua estrema dinamicità: Marx ha difatti evidenziato che
«i valori d’uso sono incredibilmente diversi, che i valori di scambio sono accidentali e relativi e che il valore ha (o sembra avere) una “oggettività spettrale”»,
comunque soggetta, per via, ad esempio, del progresso tecnologico, a sostanziali mutazioni. E, dunque, la totalità che Marx pare esplicitare all’inizio della sua trattazione è già ulteriore rispetto a quella hegeliana tradizionalmente intesa, già, in qualche modo, specifica: «non è statica e chiusa, ma fluida e aperta, in continua trasformazione» (ibidem). Si tratta di una totalità che si auto-genera e si auto-modifica […].
Sembrerebbe, pertanto, un approccio orientato alla mimesi. E certamente non è un approccio causalistico o deterministico […] L’urbanista e geografo introduce un termine assai problematico: a proposito della totalità marxiana, egli parla di “co-evoluzione degli elementi”.
È interessante notare il sorgere di questa idea. Harvey sta commentando il tredicesimo capitolo del primo libro, dedicato alle macchine e alla grande industria, e in particolare la famosa nota a piè di pagina che Marx riserva alla necessità di una storia critica della tecnologia[26]. Il determinismo, come sappiamo, ha evidenziato il ruolo delle scoperte scientifiche e tecnologiche. Nei settori più avanzati del marxismo recente, l’esaltazione della macchina e delle competenze acquisite dalla classe operaia mediante il suo utilizzo è divenuta una sorta di nuova panacea rivoluzionaria entro cui collocare il sorgere di un nuovo soggetto antagonistico. Questa prospettiva presuppone che la tecnologia diventi l’avamposto del modo di produzione, o anzi che quest’ultimo si incarni fondamentalmente nel progresso tecnologico. È una tesi particolarmente diffusa negli Stati Uniti (il commentatore fa riferimento a Cohen, ma un ulteriore riflesso di questo interesse risiede nell’enorme importanza acquisita negli studi americani e occidentali da nozioni come quella di general intellect o da marxisti come Negri). Eppure, Marx, evidenzia Harvey, dice semplicemente che la tecnologia “rivela” un certo rapporto tra l’uomo e la natura, e dunque «non la considera il motore principale dell’evoluzione umana» […].
Ciò che Marx ci sta dicendo in questo passaggio (so che molti non saranno d’accordo con la mia interpretazione) è che le tecnologie e le forme organizzative “interiorizzano” un certo rapporto con la natura, determinati rapporti sociali, idee, processi lavorativi e modelli di vita quotidiana. Lo studio di queste tecnologie e di queste forme organizzative ci «rivela» dunque molto riguardo a tutti gli altri fattori in gioco; inversamente, tutti questi altri elementi “interiorizzano” qualcosa di legato alla tecnologia. Uno studio dettagliato della vita quotidiana nel sistema capitalistico «rivela» molto, ad esempio, sul nostro rapporto con la natura, la nostra tecnologia, le nostre rappresentazioni mentali, i nostri rapporti sociali ecc. Tutti questi elementi costituiscono una totalità, ed è necessario comprendere come funzionano le relazioni tra ciascuno di essi (186).
[…] Gli elementi tirati in ballo da Marx nella trattazione del Capitale (ad esempio, la relazione dell’uomo con la natura, la tecnologia, i modi di produzione – il loro procedere diacronico –, le relazioni sociali, la riproduzione della vita quotidiana, le ideologie: cfr. 187)
sono momenti distinti del processo dell’evoluzione umana, concepito nella sua totalità. Nessun momento prevale sugli altri, anche se è possibile che ognuno abbia un proprio sviluppo autonomo (la natura si evolve in parte indipendentemente dalle concezioni mentali dell’uomo, dai rapporti sociali, dalle forme di vita quotidiana, ecc.). In quanto parte di un tutto, tutti i momenti si evolvono e sono costantemente soggetti a trasformazioni e innovazioni. Non si tratta, è bene ricordarlo, di una totalità hegeliana in cui ogni momento “interiorizza” strettamente tutti gli altri: essa va intesa semmai come una totalità “ecologica” (un “ensemble” per dirla alla Lefebvre, o un “assemblage” per dirla con Deleuze), in cui tutti i momenti co-evolvono in modo dialettico (188).
La lettura di Harvey giunge qui a un nodo teorico essenziale: l’idea di co-evoluzione degli elementi scardina un luogo comune del marxismo tradizionale, quel nesso base/sovrastruttura che è stato all’origine di tante letture marxiste. Anzi, Harvey asserisce perentoriamente che sarebbe un
«pericolo per la teoria sociale […] vedere gli elementi come cause determinanti gli uni degli altri» (188) […].
3. L’esigenza di fare i conti con la rappresentazione del capitalismo nel tempo della rappresentazione generalizzata e dell’allargamento sovradimensionale della cultura è un tema sin da sempre caro a Fredric Jameson. Non soltanto negli studi sul postmoderno egli ribadisce più volte l’esigenza di allestire una “cartografia cognitiva” (cognitive mapping) del presente che renda il soggetto cosciente delle nuove coordinate spazio-temporali messa in campo dalla postmodernità[29] – e tale pratica avrebbe i contorni di una rinnovata spinta gnoseologica, contrastiva rispetto alle derive nichilistiche del post-strutturalismo; anche nel libro su Adorno, che precede quasi di un quarto di secolo il commento al Capitale, Jameson esorta ad affrontare il problema di restituire un’immagine politica del capitalismo nei termini di una «rappresentazione [della] totalità», a proposito della quale – aggiunge il teorico –
«tutto il postmodernismo concorda che anche se esistesse, essa sarebbe irrappresentabile e inconoscibile».
In questa direzione, il metodo dialettico (e anzitutto quello negativo di Adorno)
«si pone forse come una forma di quadratura [del] cerchio», una sorta di logica primaria che permette l’espletarsi di una prassi diversa rispetto a quella del passato e comunque derivante «dall’esperienza oggettiva della realtà sociale e del modo in cui una causa e un’istanza isolata, una forma specifica d’ingiustizia, non può essere soddisfatta o corretta senza coinvolgere alla fine l’intera rete dei livelli sociali interconnessi in una totalità che richiede allora l’invenzione di una politica di trasformazione sociale»[30].
[…] Jameson ha proposto [questa lettura] del primo volume del Capitale [in] Rappresentare il capitale […] svolgere nel pensiero il processo di totalizzazione di cui il capitalismo si fa protagonista, alla stregua di quanto Marx ha elaborato nell’immane «sforzo dialettico» di «esprimere ciò che non si può esprimere» (RC: 7). E questo sforzo non può essere concepito senza il riferimento costante ai problemi dialettici posti dalla filosofia di Hegel: come un Assoluto che va arricchendosi delle sue particolarità e va modificando se stesso nell’opera di tale particolarizzazione, il capitale è, nell’ottica jamesoniana, una totalità che va esplicandosi, un soggetto astratto capace di produrre concretezza e di generare contraddizioni.
[…] se la totalità è costruzione artificiosa di non soggetto meramente quantitativo, essa ha l’ambizione di porre se stessa come totalità finita, conclusa, capace di inglobare a sé tutto, e di non avere nulla di estraneo che non le appartenga […] [essa, però, è] semmai una totalizzazione, un progetto non concluso. […] La totalità costruita dal capitalismo come sistema, nel suo sforzo di tendere verso un’universalizzazione che venga pensata quale naturale, ha impresso su di sé il marchio della positività, realizzando «un’espulsione del negativo e del critico» (130), ossia un oblio collettivo della contraddizione che rende sempre più difficoltosa una rappresentazione alternativa.
Ciò che distingue la dimensione del marxismo da un puro hegelismo è la capacità di Marx di consegnare a tali contraddizioni una sorta di significativa parzialità che non le releghi subito all’assorbimento da parte dell’universale capitalistico, bensì le valorizzi come lembi significativi di un recupero successivo della totalità. Quest’ultima – la totalità che emerge da una rappresentazione del capitale che sia capace di tenere uniti gli opposti, connesse la superficie e la profondità – è ora colta nel segno di un dinamismo […].
[…] Jameson giudica ancora valida la teoria dell’alienazione: quest’ultima risulta essere «un impulso costruttivo ancora decisivo» (2) nel definire le soggettività – e Jameson (come del resto Harvey) qui chiama in causa Gramsci e la nozione di “senso comune”, per esemplificare l’idea di un «dimensione esistenziale» del capitale, o la sua «apparenza reale» (43 e 44): l’importanza accordata a un’analisi dei prodotti culturali rientra nel novero di uno studio delle pressioni che il capitale esercita sulle attività dell’immaginario.
[Per] Jameson – secondo Marco Gatto – Das Kapital è un superamento della filosofia nella direzione di un suo inveramento, di una sua realizzazione compiuta, attraverso la quale, per via dell’aufhebung, sperimentare il suo togliersi, il suo mutare in altro:
«Il Capitale, pertanto, come testo [in cui] la filosofia approda alla sua fine per mano del suo realizzarsi e auto-attualizzarsi» (40).
Questa “morte” implica, a parere di Jameson, una realizzazione della dialettica medesima, ossia una sorta di fine del “metodo” a beneficio di un pensiero già di per sé concreto. E, infatti, nel definire la dialettica di Marx e la sua distanza da quella di Hegel («la sola a essere una filosofia dialettica»: 136), Jameson utilizza una terminologia che sposta la questione sul terreno antifilosofico (o falsamente tale, verrebbe da dire) della prassi: Il Capitale è «una pratica dell’immanenza dialettica» (ibidem) che sposta la dialettica medesima su un territorio “altro” rispetto a quello della filosofia.
4. Nelle “conclusioni politiche” – in realtà, assenti o non sviluppate – che chiudono il commento di Jameson, si insiste sulla necessità di considerare il capitalismo a un tempo come sistema e come realtà aperta a un dinamismo spesso irrappresentabile. […] Il capitale deve potersi espandere, pena le crisi, la stagnazione e la fine del sistema. L’attività di interiorizzazione del concreto non può darsi un limite. Sono le conclusioni, si ricorderà, di Harvey. Jameson vi aggiunge una dimostrazione probabilmente più raffinata dal punto di vista filosofico, ma meno esauriente dal punto di vista pratico-politico. «L’idea che il capitalismo sia un sistema totale – egli chiosa – è la dimostrazione che esso non può essere riformato» (147), che non vi possa essere modo di cambiare il sistema accettandolo. Il rimando, nelle ultime pagine, al vero problema sollevato dall’analisi di Marx, quello della disoccupazione globale, è solo accennato, e forse verrà sviluppato in seguito: non vi sono richiami espliciti alla fine del lavoro salariato, ma una tensione argomentativa verso una rinnovata dialettica tra la promessa di un’occupazione su larga scala delle classe lavoratrici e l’estinzione delle risorse del pianeta (l’ecomarxismo è un riferimento costante in Harvey, al contrario). Quel che manca, rispetto all’analisi del geografo – l’altra faccia di una prontezza filosofica palpabile –, è forse un ragionamento politico più evidente, meno lasciato all’improvvisazione o al semplice accenno. E, tuttavia, i due commenti – il primo, più del secondo – riattualizzano in chiave dialettica la fondamentale lezione di Marx, fornendo, almeno per ora, una base possibile di ricostruzione filosofica e logico-argomentativa – destinata certamente a mutare, svilupparsi o franare – delle attuali dinamiche del capitalismo.
[1] Si prendono qui in considerazione i due commentari a Marx da poco pubblicati: David Harvey, Introduzione al Capitale. 12 lezioni sul primo libro [2010], a cura di Filippo Ceccherini, Firenze, La casa Husher, 2012, i cui riferimenti sono indicati nel testo con la sigla IC, seguita dal numero di pagina; e Fredric Jameson, Representing Capital, London & New York, Verso, 2011, indicato con la sigla RC.
[2] Giorgio Cesarale, Filosofia e capitalismo. Hegel, Marx e le teorie contemporanee, Roma, Manifestolibri, 2012, p. 95.
[3] Perry Anderson, Il dibattito nel marxismo occidentale [1976], Roma-Bari, Laterza, 1977. La cui ideale continuazione potrebbe essere rintracciata nell’indagine di Göran Therborn, From Marxism to Post-Marxism?, London & New York, Verso, 2008. Per un contributo critico proveniente dagli Stati Uniti, cfr. Stanley Aronowitz, The Crisis in Historical Materialism. Class, Politics and Culture in Marxist Theory, New York, Praeger, 1981.
[4] Rimando, se concesso, al mio Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo Occidente, Macerata, Quodlibet, 2012, per un’analisi degli attuali rapporti tra marxismo e cultura, e per una minima introduzione al pensiero di Jameson.
[5] Si veda a tal porposito Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta, Roma, Manifestolibri, 2010, che contiene un’intervista di Harvey all’autore (pp. 29-63). È possibile che l’insistenza sulle responsabilità “statali” dell’egemonia capitalista – l’idea cioè che il dominio capitalistico sia identificabile col dominio di una superpotenza statale – produca una sorta di ritorno del rimosso, un’idiosincrasia nei confronti dello Stato, concepito quale modello che regola e mantiene i rapporti di subalternità. In Harvey tale protesta antistatalista, mi pare, viene superata dal costante richiamo a un’idea di capitale come flusso che cancella le barriere geografiche e, di fatto, usa a suo piacimento lo Stato, annichinendole le strutture. E infatti l’intervista di cui prima si accennava termina con un’esortazione (rivolta a Harvey) a ripensare il termine “socialismo”, perché, nella vulgata, identificato con un controllo dello Stato sull’economia – esortazione che, interpretata con malizia, si presterebbe a essere adoperata per i consueti discorsi post-operaistici sulla dissoluzione del socialismo, sulla fine del lavoro salariato e sulla ricerca di una soggettività rivoluzionaria nomade e senza confini. Ma il pensiero di Arrighi, che riprende le ultime pagine del suo Adam Smith a Pechino) qui possiede una contraddizione neppure tanto celata: se l’alternativa al sistema capitalistico si incarna in un ideale di comunità mondiale definita «in termini di rispetto reciproco tra gli esseri umani e di rispetto collettivo per la natura», da pensare in una dimensione pubblica che sia affrancata dalle maglie restrittive della vita statale, non si comprende per quale motivo debba essere però sempre lo Stato a regolare gli scambi di mercato «in modo da rafforzare i lavoratori e indebolire il capitale, secondo [appunto] l’idea smithiana, piuttosto che attraverso la proprietà e il controllo statale dei mezzi di produzione» (p. 62).
[6] Di cui occorre ricordare La produzione dello spazio [1974], Milano, Moizzi, 1976.
[7] David Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza [2010], Milano, Feltrinelli, 2011, p. 278.
[8] Fredric Jameson, Marxismo e forma. Teorie dialettiche della letteratura nel XX secolo [1971], Napoli, Liguori, 1975, p. 8.
[9] A parziale difesa di Jameson, la sua vorace capacità di assorbire le più disparate metodologie d’indagine corrisponde a una precisa ragione teorica: per lo studioso americano, il marxismo è un meta commentario capace di risolvere e completare la parzialità insita in tutte le restanti ermeneutiche. Cfr. Fredric Jameson, Metacommentary [1971], in The Ideologies of Theory [1988], London and New York, 2008, pp. 5-19. Per un commento, cfr. Robert J.C. Young, Mitologie bianche. La scrittura della storia e l’Occidente [20042], Roma, Meltemi, 2007, pp. 189-230.
[10] Cfr. Franco Fortini nel volume di cui è autore assieme a Paolo Jachia, Fortini. Leggere e scrivere, Firenze, Nardi, 1993, in part. p. 88.
[11] Cfr. Idem, La crisi della modernità [1990], Milano, Il Saggiatore, 1993, in part. pp. 217-234. La traduzione italiana del titolo è infelice: l’originale inglese meglio coglie il progetto del libro – The Condition of Postmodernity. An Enquiry into the Origins of Cultural Change. Seppure Harvey non distingua, come Jameson invece fa, tra postmodernità (quale categoria di periodizzazione storica) e il postmodernismo (quale dominante culturale che si afferma in seguito a un cambiamento epocale), le tesi sul trapasso in un’ulteriore fase del moderno non sono dissimili, per quanto Jameson (specie in Postmodernismo. Ovvero, la logica culturale del tardo capitalismo [1991], Roma, Fazi, 2007) insista sulla valorizzazione della rottura tra due epoche differenti. E in effetti il postmoderno, secondo il docente della Duke University, si caratterizza per l’entrata in gioco di un nuovo sensorio e di un nuovo apparato ideologico, tale da rendere necessaria una sorta di rimozione delle categorie legate alla modernità, ora sentite come distanti dalla possibile comprensione del nuovo (cfr. Idem, Una modernità singolare. Saggio sull’ontologia del presente [2003], Roma, Sansoni, 2004). Vero è che Jameson ha avuto il merito di segnalare che tale svolta epocale si sia imposta anzitutto come cultural turn, nel doppio senso per cui, da un lato, il capitalismo ha beneficiato largamente di una sua sedimentazione culturale nella vita di tutti i giorni, e, dall’altro, la cultura è diventata una sorta di seconda epidermide, un oggetto analitico di vitale importanza per comprendere le strategie di dominio del capitale (vedi, a tal proposito, i saggi raccolti in The Cultural Turn. Selected Writings on the Postmodern, 1983-1998, Londo & New York, Verso, 1998).
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