Traggo da Asinus novus l’intervento di Marco Lorenzi nel dibattito bioetico sull’acquisizione dei diritti soggettivi da parte dei viventi.
Amavo tutti gli animali a sangue caldo, che hanno un’anima come la nostra e con i quali – così pensavo – ci comprendiamo d’istinto, perché essi sono così vicini a noi e partecipano della nostra ignoranza. Siamo accomuinati ad essi da gioia e dolore, amore e odio, fame e sete, paura e fiducia – da tutti gli aspetti essenziali dell’esistenza, ad eccezione della parola, di un’acuta coscienza, della scienza.
Carl Gustav Jung, Ricordi, sogni, riflessioni
Il dibattito etico sui diritti degli animali e sull’aborto condividono una strana sorte, quella di essere da sempre funestati dallo stesso problema e di aver bisogno dello stesso approccio razionale per giungere ad una soluzione condivisa. Il problema che accomuna i dibattiti è la palese inadeguatezza delle argomentazioni addotte dalle parti che si contrappongono nel dibattito pubblico, incapaci di andare al di là di slogan strillati tanto più forte quanto meno sono ragionati.
Gli antiabortisti sostengono che l’aborto equivale ad un omicidio dato che la persona umana è “sacra” fin dal concepimento. Dal mero incontro tra uno spermatozoo e un ovocita umano si avrebbe la creazione di una “persona” che in quanto umana è “sacra” e dunque da difendere a qualunque costo. In una prospettiva antiabortista cristiana l’immoralità dell’aborto è dunque assoluta, implicita nella stessa idea che si possa sopprimere una vita umana a qualunque stadio, per qualunque motivo. Seguono le solite accuse di omicidio per le donne che abortiscono e per i medici che praticano interruzioni di gravidanza oltre che di eugenetica nazista in caso di aborto di feti portatori di patologie congenite.
Nel dibatto pubblico i fautori della liceità dell’aborto spesso rispondono a queste accuse con argomentazioni francamente deboli, non decisive e che comunque non affrontano alla questione etica di fondo sollevata dagli abortisti. Argomentare infatti che l’aborto legale è il minore dei mali perché si minimizzano i rischi per la salute delle donne o che queste ultime hanno il diritto di gestire liberamente il loro corpo e dunque anche la gravidanza e la sua interruzione, è pienamente legittimo solo dopo aver argomentato persuasivamente che lo status morale dell’embrione e del feto è fondamentalmente diverso da quello del neonato o dell’adulto. Altrimenti è fin troppo facile controbattere che tanto varrebbe legalizzare l’omicidio o quantomeno l’infanticidio purché venga compiuto nel modo più “pulito” possibile e che l’assassino abbia un concreto interesse all’omicidio. In mancanza di tale argomentazione – e dunque se un feto avesse uno status morale equivalente ad un neonato – sarebbe legittimo domandarsi perché una madre dovrebbe poter abortire per vivere una vita libera dagli oneri della maternità mentre non dovrebbe poter uccidere il proprio figlio nella culla, se questa volontà dovesse maturare dopo il parto.
La questione non si risolve con unilaterali proclamazioni di libertà soggettiva se prima non si risolve il problema dell’eventuale rilevanza morale di un soggetto la cui sfera di interessi verrebbe danneggiata dalla realizzazione di tale libertà, dato che in ogni sistema sociale civile non esistono libertà assolute al di fuori della sfera prettamente individuale, ma solo libertà limitate dal rispetto degli interessi e dei diritti di ogni altro consociato.
Gli animali non-umani
Molto simile è lo svolgimento del dibattito, per altro molto meno sentito dall’opinione pubblica, sui diritti degli animali non-umani e sulle questioni direttamente connesse come la vivisezione, il consumo di carne, la caccia, etc. Purtroppo anche in questo caso le argomentazioni che vengono generalmente avanzate nel dibattito pubblico tradiscono una generale mancanza di cognizione di causa e mostrano quanto distanti dall’approccio razionale siano i metodi argomentativi comunemente usati anche in tema di bioetica.
Le posizioni “animaliste” tendono ad usare l’emotività condivisa solo da una piccola parte delle persone, quelle in grado di manifestare un’innata empatia non solo intraspecifica, ovvero verso gli altri membri della propria specie, ma anche interspecifica, ovvero verso gli individui di altre specie. Tale approccio è destinato all’insuccesso perché una significativa empatia interspecifica è prerogativa solo di una minoranza di persone. Si badi, non mi riferisco alla diffusa avversione alla inutile sofferenza degli altri, non-umani inclusi, o al forte sentimento di affetto che alcuni provano verso il proprio “animale da compagnia” (sia esso il proprio coniuge o il proprio gatto). Mi riferisco a quella innata predisposizione a percepire sul piano emotivo e razionale le sorti di umani e non-umani in maniera equivalente.
Al contrario le posizioni speciste (1), siano esse di matrice umanista o di matrice religiosa, muovono da posizioni antropocentriche basate principalmente sull’eccezionalismo umano o sulla fallacia naturalistica. Le prime sostengono un primato ontologico dell’essere umano basato su alcune sue caratteristiche dimenticando che queste ultime non sono proprie solo degli esseri umani, che non tutti gli esseri umani le possiedono (cfr. l’argomento dei casi marginali) e che comunque esse non sono rilevanti nell’attribuire il diritto alla considerazione morale. La fallacia naturalistica invece eleva al rango di legge morale la mera constatazione fattuale della supremazia umana sulla natura, confondendo come al solito il piano prescrittivo da quello descrittivo secondo l’adagio “siccome è sempre stato così, allora è giusto così”.
Tutte le posizione speciste sono accomunate dalla sostanziale negazione della rilevanza etica dei non-umani, della possibilità di attribuire loro dei diritti o di porre i loro interessi sullo stesso piano di quelli degli umani.
La questione che tutte le posizioni contrapposte fin qui menzionate eludono è la fondamentale necessità di stabilire criteri razionali per determinare quali siano i soggetti portatori di interessi moralmente rilevanti, e quali siano invece gli oggetti, in quanto tali privi di interessi e dotati solo di rilevanza meramente strumentale per i primi. Si tratta, in altre parole, di determinare i confini della rilevanza morale e i criteri razionali per tracciarli (2).
Ritengo che secondo una visione razionale, laica e priva di pregiudizi il criterio discriminante che consente di distinguere i soggetti moralmente rilevanti da enti solo strumentalmente rilevanti, ancorché dotati di una vita biologica, non possa che essere la senzienza, o capacità senziente, ovvero la capacità di percepire o provare sensazioni soggettivamente, in maniera cosciente (3).
La rilevanza etica della distinzione tra soggetti senzienti ed enti privi di questa caratteristica è assolutamente cruciale in quanto consente di stabilire, senza ricorrere all’arbitrarietà o all’irrazionalità religiosa, se feti, embrioni, animali non umani e magari le piante debbano essere inclusi o meno all’interno dei confini della rilevanza morale.
Necessità e sufficienza della capacità senziente
Che la capacità senziente sia condizione necessaria alla rilevanza morale diventa chiara se si prova ad immaginare di “mettersi nei panni” di un qualsiasi oggetto non cosciente: quello che si troverebbe è semplicemente il vuoto, l’inesistenza di un qualunque io, assente in ogni essere privo di senzienza e dunque del tutto indifferente al trattamento che gli riserviamo.
Una vita senza una coscienza è incapace di soffrire o provare piacere e quindi di percepire positivamente o negativamente qualunque cosa ad essa accada. Ne consegue che questa vita non può avere degli interessi di alcun genere in quanto qualunque azione compiuta verso di essa, non potendo essere percepita come positiva o negativa, come bene o male, è per essa irrilevante.
In assenza totale di interessi è evidente che non abbia senso attribuire diritti dato che questi ultimi presuppongono come condizione necessaria l’esistenza in capo ad un soggetto di interessi da tutelare tramite lo strumento del diritto stesso. Come dice Paola Cavalieri ne La questione animale
[…] se, nel momento in cui prendiamo in considerazione in che modo un dato essere è affetto dalle nostre azioni, ci accorgiamo che tale essere non può curarsi di ciò che facciamo, perché dovremmo porre limiti al nostro comportamento [nei suoi confronti] ? (4)
Siccome l’etica si fonda proprio sulla fondamentale distinzione tra “bene” e “male”, è ovvio che un ente incapace di qualunque percezione consapevole, neppure la più semplice come quella, appunto, di un generico “bene” o “male”, non può che rimanere fuori dai confini della considerazione morale.
Ma la senzienza è anche condizione sufficiente all’inclusione nella sfera della rilevanza morale. Una volta acquisita la consapevolezza che esiste un bene e un male per ogni Altro-da-me cosciente, e dunque non unicamente per il proprio Io, non solo cessa di essere giustificabile l’egoismo pre-morale, ma diventa evidente l’inaccettabilità di ogni arbitraria limitazione della considerazione morale solo ad alcune categorie di Altri-da-me. Come è evidentemente arbitrario e dunque inaccettabile negare i diritti fondamentali ai neri, alle donne o agli stranieri, allo stesso modo è inaccettabile negarli ai non-umani (o ai feti) senzienti poiché tutti condividono la stessa caratteristica che ha reso necessaria la nascita della morale, ovvero la senzienza stessa.
Diritti ai carciofi ?
Le attuali conoscenze in campo biologico non consentono di ritenere che le piante posseggano una qualche forma di coscienza essendo totalmente prive di qualunque organo che sia paragonabile strutturalmente o funzionalmente ad un sistema nervoso centrale e le tesi di chi riteneva che le piante fossero sensibili al punto di avere gusti musicali sono state scientificamente confutate da tempo. É dunque evidente che nessun appartenente al regno vegetale possa essere incluso nella categoria dei soggetti moralmente rilevanti con buona pace dei “difensori dei diritti dei carciofi” che criticano i vegetariani di incoerenza perché “uccidono insalate”, mentre loro fanno uccidere ogni anno 55 miliardi di animali nei macelli.
Un discorso analogo può essere fatto per lo zigote e l’embrione umano essendo lo sviluppo del sistema nervoso centrale in stadi troppo primitivi per poter generare una coscienza (5). Sebbene lo stadio di sviluppo fetale a partire dal quale il dolore può essere percepito è controverso appare altamente improbabile che questo possa avvenire prima della 29° settimana di gestazione (6). Inoltre la presenza delle componenti emotive e cognitive del dolore che potrebbero essere elementi essenziali per la sua percezione cosciente è difficilmente accertabile in un feto di qualunque età (7).
In una prospettiva senzientista dunque il problema del diritto del nascituro a non essere abortito può risolversi attribuendo tale diritto solo ai feti giunti ad un livello di sviluppo neurologico sufficiente a rendere ragionevolmente probabile il possesso della capacità di nocicezione. Ritengo che raggiunto tale stadio il feto debba essere considerato pienamente titolare di un inalienabile diritto a non essere fatto soffrire se non nel suo interesse (chirurgia prenatale in caso di impossibilità di anestesia fetale) e a non essere abortito a meno che non venga accertata la presenza di patologie che impedirebbero una ragionevole qualità di vita dopo la nascita.
Il dogma della “sacralità” della vita umana in ogni stadio deve dunque essere rifiutato in quanto privo di basi razionali e fondato su principi religiosi che non possono entrare negli ordinamenti degli stati laici. Parallelamente anche il principio della libertà assoluta della donna dovrebbe essere rifiutato in quanto non tiene conto dell’emergere della capacità senziente – e dunque di una soggettività degna di considerazione morale nel feto – a partire da un certo stadio di sviluppo neurologico.
L’approccio senzientista consente anche di definire se gli animali non umani siano o meno moralmente rilevanti e, dunque, se siano giustificabili i trattamenti che l’umanità riserva loro (vivisezione, macellazione, caccia, etc.). Sebbene sia ad oggi impossibile tracciare una linea netta che divida gli animali non umani dotati di capacità senziente e quali no, non vi sono dubbi che almeno alcune specie siano senzienti. Come minimo tutti i mammiferi e senz’altro una buona parte dei vertebrati percepiscono il dolore in maniera cosciente, possedendo le strutture cerebrali necessarie. Sebbene nessuno possa provare in prima persona la sofferenza di un maiale al macello, di una gallina ovaiola chiusa in una minuscola gabbia per tutta la vita, o di una cavia durante un esperimento biomedico, non è ragionevole dubitare che il dolore percepito sia paragonabile a quello percepito dagli umani, dato che esso svolge per tutti gli animali, umani e non, la stessa funzione biologica. Per tutti gli animali senzienti il dolore serve a fornire uno intenso stimolo negativo per indurli ad evitare un dato comportamento nocivo. In questo senso il dolore è per tutti il male per antonomasia.
Non è dunque razionalmente giustificabile la sistematica negazione della rilevanza etica dei non-umani, necessaria a legittimare pratiche come l’allevamento e l’uccisione di animali per l’alimentazione umana, gli esperimenti biomedici su modelli animali a prescindere dalla loro presunta e discussa utilità e i numerosi altri vergognosi trattamenti riservati a chi non appartiene alla nostra specie.
L’approccio utilitarista e quello deontologico all’etica possono convergere nel ritenere il paradigma specista insostenibile, come ben argomentato dai filosofi Peter Singer e Tom Regan. Nonostante questo lo specismo delle principali religioni monoteiste ha trovato il pieno appoggio dell’umanismo ateo che è stato finora incapace di liberarsi di questo pregiudizio anti-razionale.
Sarebbe ora che ogni ateo razionalista prendesse coscienza di questa drammatica contraddizione cominciando dal realizzare che quella carne che troneggia spesso nel mezzo del suo piatto è in realtà un pezzo di un cadavere di un essere senziente e che la scelta vegetariana, assodata scientificamente la sua salubrità (8), non è una stranezza masochistica, ma è diretta conseguenza di una morale intellettualmente onesta, laica e razionale.
(Articolo originariamente pubblicato su L’ateo, numero 3 / 2010)
Note
(1) Secondo Peter Singer lo specismo è il “…pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie contro quelli dei membri di altre specie.” Liberazione animale, 1991, Mondadori ed. (p. 22).
(2) Abbiamo già argomentato più diffusamente su queste pagine (cfr. Per un’etica atea e antispecista, l’Ateo n.2/ 2009) circa l’esigenza imprescindibile di usare la razionalità come criterio fondante di ogni dibattito etico, pena l’inevitabile incomponibilità delle opinioni divergenti.
(3) Sebbene non necessariamente in maniera autocosciente. La capacità di ragionare sul proprio io inteso come ente separato dalle sensazioni che lo attraversano – ovvero l’autocoscienza – implica capacità cognitive superiori ma non necessarie ai fini della considerazione morale.
(4) P. Cavalieri, La questione animale, Bollati Boringhieri, 1999, pp. 47-48.
(5) Indubbiamente ogni feto è in potenza un uomo adulto e dunque ha la potenzialità di diventare senziente. Tuttavia i diritti si attribuiscono sulla base delle caratteristiche soggettive in atto, non quelle che un soggetto potrebbe avere se si realizzano determinate condizioni: un ragazzo di 17 anni è in potenza un maggiorenne, ma non per questo ha il diritto di voto prima del compimento del 18° anno.
(6) Fetal Pain, A Systematic Multidisciplinary Review of the Evidence, Lee S.J. et al., JAMA 2005; 294: 947 – 954.
(7) Essential Reproduction, Martin H. Johnson, Wiley-Blackwell, pp. 215-216.
(8) V. p.e. la posizione ufficiale dell’American Dietetic Association, J Am Diet Assoc. 2009;109: 1266-1282: “It is the position of the American Dietetic Association that appropriately planned vegetarian diets, including total vegetarian or vegan diets, are healthful, nutritionally adequate, and may provide health benefits in the prevention and treatment of certain diseases.”
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