Specismo e antispecismo nella chiara esposizione di uno dei principali filosofi animalisti italiani. Tratto da Asinus Novus.
L’uomo ha sempre sentito il bisogno di dare un nome a ciò che gli appare ignoto in modo da renderselo più presente e, dunque, meno oscuro e minaccioso. Ma esistono nomi che assolvono il compito esattamente opposto: di una vicinanza e di una continuità fanno un’abissale lontananza e un’invalicabile barriera. Se, come ha osservato Derrida, quando diciamo “l’animale” cerchiamo attraverso un singolare aberrante di annullare tutte le differenze tra le specie e di contrapporle così in massa al genere umano (Jacques Derrida, L’animale che, dunque, sono, trad. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006, p. 73), una funzione non diversa assolvono termini come “bestia”, “belva”, “bruto” o “fiera”. In ognuno di questi termini e, ancor di più, nel sistema simbolico che essi costituiscono nel loro insieme, è facile leggere il tentativo da parte degli umani di marcare una differenza insormontabile tra sé e il resto del vivente, soprattutto rispetto a quei viventi che maggiormente li inquietano con sguardi che, probabilmente a causa di una certa vicinanza evolutiva, sono più difficili da ignorare. In tutti i casi in cui l’umano ritiene di dover ricorrere a queste espressioni linguistiche è facile mostrare il gioco di prestigio attraverso il quale ciò che potrebbe meritare una qualche forma di considerazione emotiva ed etica viene, attraverso la parola, risospinto al di là, marchiato dall’infamia di una condizione altra, gettato nel vortice dell’esistenza più abietta. È questo meccanismo occulto e perverso che fa sì che persino un amante degli animali come Leonardo potesse scrivere senza apparente contraddizione:
“chi non raffrena la volontà colle bestie s’accompagni” (Leonardo Da Vinci, Scritti letterari, Rizzoli, Milano 1974, p. 71).
Sono bestie, si dice. E nel dire “bestia” si dice qualcosa di preciso, anche se, al tempo stesso, di profondamente ambiguo. Qualcosa di preciso, perché l’appellativo indica e sottolinea con forza – con maggior forza di quanto non faccia “animale” – il confine tra noi e loro, tra umani e non-umani. La forza di questo “non” non è solo quello di una negazione, di un interdetto: “tu qui non devi entrare!”, “ti sia per sempre negato l’accesso alla nostra casa!”. È certo anche questo, ma si tratta di una negazione più insidiosa e malefica, poiché trasforma ciò che tocca, deturpa chi viene raggiunto dal suo potere disponente. La parola che divide e discrimina si imprime sul volto dell’altro rendendolo irriconoscibile, non più avvicinabile come “volto” ma, al limite, come “muso”. La sua voce non emette più suoni significanti ma “versi”. I suoi arti si fanno “zampe”, la sua volontà “istinto”. La bestia, ancor più dell’animale, reca i segni di questa iattura, di questa maledizione con cui l’uomo l’ha colpita.
Dicendo “bestia”, però, si dice anche qualcosa di molto ambiguo. Si esprime infatti nei caratteri indelebili della lingua tutta la contraddittorietà del nostro rapporto con gli altri animali. La parola con cui ci rivolgiamo ai non-umani trasuda da ogni poro tutto il groviglio di rapporti di amore, di odio, di curiosità ed indifferenza che non sappiamo estirpare e che certo una parola non è in grado di contenere. Tali rapporti con gli altri animali si nascondono così nelle parole con cui cerchiamo di allontanarli, facendoceli trovare vicini quando li vorremmo scacciare, e allontanandoceli inesorabilmente quando li vorremmo accanto a noi.
Il termine “bestia” deriva dall’analoga espressione latina (bestia) con cui si indicavano sia gli animali selvatici sia gli animali che combattevano con i gladiatori nelle arene sportive. In tal senso, si tratta di una parola che ospita in sé, in uno dei suoi strati più profondi, un valore importante: quello della paura che gli altri animali hanno per migliaia di anni prodotto nell’animo umano ogni volta che si trattava di incontrarsi/scontrarsi con essi. La parola echeggia e quasi rimbomba dunque di urla che provengono da tempi immemorabili, dall’era minacciosa in cui l’uomo
sorpreso,
offriva pasto vivente alle fiere, dilaniato dalle zanne,
e riempiva di lamenti boschi e monti e selve,
vedendo le proprie vive carni seppellite in un vivo sepolcro.
E quelli che si erano salvati fuggendo col corpo lacerato,
poi, tenendo le mani tremanti sopra le orribili piaghe,
invocavano con grida spaventose Orco,
finché spasimi crudeli li privavano della vita,
senza aiuto, ignari delle cure che le ferite reclamavano” [Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, trad. it. F. Giancotti, Libro V, vv. 991-999].
Analogamente a bestia, altre espressioni come “fiera” (dal latino férus: indomito, selvaggio, crudele) e “belva” (dal greco pèlor: mostro e, forse, dalla radice indoeuropea bargh-balgh e dal sanscrito brh-à-ti: lacerare) fanno riferimento a questo potere terrificante di distruggere il nostro corpo per cibarsi di noi o, semplicemente, per effetto di una vitalità irruenta e incontrollata, di toglierci la vita, di strapparci dolorosamente all’esistenza.
Ma la bestia indica anche l’esatto opposto di ciò e suscita un sentimento altrettanto contrario. Essa può segnalare non un eccesso ma una mancanza, non un’esuberanza priva di freni, quanto una clamorosa assenza di intelligenza e di iniziativa. Come il termine “bruto” (dal latino brutus: inerte, insensato; da bàrdus; stupido, dalla radice baru, sanscrito garu: grave, pesante), essere-bestia è il segno di un difetto che impedisce l’accesso ad una condizione umana e diventa, dunque, l’epiteto preferito per denigrare tutti coloro che non si ritiene degni di far parte del nostro onorevole consorzio di specie. Il francese bêtise (“stupidità”, analogamente all’italiano “dire una bestialità”), ha trattenuto questa valenza spregiativa che segnala orgogliosamente e superbamente una (vera o presunta) carenza di intelligenza nell’altro.
In questo modo, l’insieme dei significanti che ruotano attorno alla parola “bestia” disegna due aree simmetriche e contrapposte: quella dell’eccesso e quella della mancanza, entrambe incardinate sull’umano inteso come punto di equilibrio, faglia di mezzo, medium del passaggio tra gli estremi. La zona del non-umano si disporrà così su due aree, quella del subumano e quella del sovrumano, che costituiscono due forme di negazione antitetiche e complementari dei nostri confini di specie.
La strategia linguistica che lo specismo mette in opera per stabilizzare e giustificare l’ordine dello sfruttamento modifica così l’esperienza reale del terrore animale preistorico trasformandola in falsità e inganno. A fronte dell’immane potenza con cui le società umane schiacciano sotto il proprio giogo il resto del vivente, la risibile affermazione del “pericolo” rappresentato dagli animali non cessa di risuonare nei titoli strillati dei mass media (si pensi alle consuete notizie allarmistiche sui cani “mordaci” o sulle fughe di animali da circhi e zoo) e più sotterraneamente, ma non meno efficacemente, nelle nostre coscienze. Solo se l’altro è reso un “mostro”, è immaginato come più potente e più forte di noi può essere vissuto come minaccia e il nostro atteggiamento nei suoi confronti può assumere i tratti auto-assolutori di un atto di legittima difesa. Si tratta del meccanismo in base al quale viene decretata nell’immaginario la “superiorità degli inferiori” per poterli più comodamente opprimere nella realtà: una “procedura simbolica che fa dell’altro o dell’altra un monstrum, comunque un essere dotato di una potenza o di un potere smisurati o anomali” (A. Rivera, La bella, la bestia e l’umano. Sessismo e razzismo senza escludere lo specismo, Diesse, Roma 2010, p. 105).
Come osserva Melanie Bujok,
“la paura del non-dominato esige ordine. Il ‘mostro’ animale deve essere chiamato per nome per mantenere la distanza emotiva, cognitiva e sociale e non permettere che alcun dubbio ostacoli il sacrificio degli animali” (Melanie Bujok, “La resistenza contro lo sfruttamento animale. Riflessioni sul rapporto tra società razionale e liberazione animale a partire dalla Scuola di Francoforte”, in M. Filippi – F. Trasatti, L’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia, Mimesis, Milano 2010, p. 254). I
n tal modo, “ogni singolo attacco di un individuo animale nei confronti di un umano viene universalizzato come attacco ‘degli animali’ all’umanità che giustifica l’intervento totale e violento delle istituzioni sociali nei confronti di ogni singolo individuo animale. […] Il morso di un cane legittima un’intera epoca di sofferenze per gli animali, […] l’animale viene accusato di essere una possibile minaccia, per potergli negare ogni solidarietà […], per impedire che gli animali possano aspirare alla giustizia” (ibidem). Il carnefice si discolpa accusando la vittima inerme.
All’altro polo di questa spartizione simbolica troviamo la squalificazione dell’animale considerato in tutto e per tutto inferiore all’umano: statico, debole, inetto. All’opposto della belva feroce che scatta e ghermisce troviamo il mansueto animale gregario o “da soma”. Il lupo fa posto all’agnello. La bestia diventa “bestiame”. Quest’ultimo è caratterizzato in massima istanza da ciò che Heidegger considerava lo stato fondamentale dell’animale, ovvero la Benommenheit, lo “stordimento” (Martin Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, tr. it. di P. Coriando, il melangolo, Genova 1992, § 58 e sgg.).
Il “capo” da bestiame è l’animale che per sue caratteristiche intrinseche, è considerato incapace di badare a sé e, perciò, destinato ad essere schiavo. A questa visione dell’animale come “naturalmente” inferiore e sottomesso fa da contraltare la magnanimità dell’umano che si prende cura delle “sue” bestie. L’uomo pastore dell’essere-animale si erge con il medesimo gesto con cui abbassa l’altro da sé a suo protetto. Ma si tratta, come è ovvio, di una protezione interessata e strumentale: ciò che davvero interessa l’umano è il valore economico o alimentare dell’animale allevato e conservato, non certo una qualche forma di valore intrinseco. Anche in questo caso, la strategia linguistica e simbolica affonda le sue radici in un’esperienza reale di cui costituisce una sublimazione immaginaria a fini auto-assolutori. Non tutte le specie animali, in effetti, sono addomesticabili. Quelle che lo furono e che cedettero alle violenze e alle lusinghe del signore umano possedevano caratteristiche che ne resero possibile la riduzione in schiavitù.
I processi di domesticazione degli animali si concentrano quasi interamente nel periodo che va dall’8000 al 2500 a.C. (il limite superiore può essere innalzato al 10.000 a.C. se si considera il cane) e riguarda un numero molto esiguo delle specie che apparentemente avrebbero potuto essere addomesticate. Secondo un calcolo di Jared Diamond, “l’uomo ha fallito con ben 134 delle 148 specie candidate” e ciò è dovuto ad una serie di fattori che sono intrinseci alle specie stesse: la compatibilità tra le nostre abitudini alimentari e quelle delle specie da addomesticare, il tasso di crescita, la capacità di riprodursi in cattività, il carattere più o meno docile, la tendenza a “fare gruppo” (alcune specie fronteggiano il pericolo “stringendosi” e solidarizzando, altre, racchiuse in recinti, sono prese dal panico e arrivano a ferirsi o uccidersi nel tentativo di liberarsi, gettato nel vortice di una struttura sociale gerarchica in cui l’uomo riesce efficacemente ad inserirsi come “capo” (Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi, Torino 1998, pp. 126-133).
Tutto ciò non diminuisce in alcuna misura la responsabilità che questo processo di sottomissione implica e che pesa esclusivamente sulla coscienza dell’uomo. È tuttavia importante non dimenticare mai che ciò che si nasconde dietro le strutture di potere (anche del potere specista) non è mai una mera “costruzione”, né tantomeno una semplice invenzione “simbolica”. Il potere è sì un meccanismo simbolico che disciplina dei flussi di condizionamento ma perché tale meccanismo entri in funzione e possa operare è necessario presupporre un intreccio di rapporti reali, un incontro/scontro di corpi, di movimenti, di suoni e di sguardi. La condivisione corporea dello spazio-ambiente – ciò che Acampora chiama sinfisìa (cfr. Ralph R. Acampora, Fenomenologia della compassione. Etica animale e filosofia del corpo, trad. it. di M. Maurizi – M. Filippi, Sonda, Casale Monferrato 2008) – è ciò su cui il potere interviene per creare le proprie architetture di dominio e le proprie meccaniche disciplinarie. L’uomo può porsi come linea di confine tra la bestia mansueta e la belva feroce perché ha intrattenuto con esse rapporti millenari prima di considerarle, rispettivamente, una sua “sottomessa” o un’inguaribile “ribelle”.
La distinzione tra umano e bestiale, come ogni demarcazione di confine, non indica semplicemente ciò che c’è al di là, ma anche ciò che sta al di qua. Attraverso i caratteri molteplici (e anche, come abbiamo visto, contraddittori) della “bestia” l’uomo definisce se stesso. E lo fa in un modo forse più concreto di quanto non accade quando parla dell’“animale”, termine che ci riporta o ad una definizione negativa (l’animale come semplice alterità non-umana), oppure addirittura ad una sfera dell’essere che include l’umano come sua specificazione (è il caso, classico, dell’uomo animal rationale). Il rapporto con la bestia è invece un rapporto che si declina immediatamente in termini politici: le bestie sono gli esclusi dalla cittadinanza umana, così come “bestiali” in un modo o nell’altro sono gli umani che il potere decide di degradare al rango di non-cittadini (bambini, donne, schiavi).
Come noto, Vico indicava con il termine “bestioni” gli umani prima del sorgere delle istituzioni civili. A questo proposito è interessante notare, seguendo un’indicazione di Jacques Derrida, come non esista termine che esprima l’essere-della-bestia allo stesso modo con cui si parla dell’essere-dell’-animale. Se, infatti, è possibile parlare di “animalità” come di uno stato o di una qualità generale (propria tanto del non-umano quanto, come abbiamo visto, dell’umano), la “bestialità” è una caratteristica paradossale e sui generis. Deriva dall’animale non-umano ma può essere attribuita solo all’uomo. Come osserva Derrida:
“il proprio della bestia, se c’è, non è né la stupidità (bêtise) né la bestialità. Né la stupidità né la bestialità, ma l’indomito, selvaggio, crude[…] il proprio dell’uomo” (Jacques Derrida, La bestia e il sovrano. Volume I (2001-2002), trad. it. G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2009, pp. 180).
La bestialità è dunque la proiezione sull’uomo di quelle caratteristiche che si presume giustifichino l’esclusione degli altri animali dalla cittadinanza.
Poiché il potere si fonda su una definizione di cittadinanza e su un rapporto di inclusione/esclusione, l’uomo, in questa lettura derridiana, può essere definito come l’essere che traccia confini. Confini simbolici (di specie, di genere, di razza, di casta ecc.) ma anche confini reali, spesso materialmente invalicabili (i confini della civitas, dello spazio pubblico o privato, dei luoghi sacri e profani, delle prigioni, degli zoo ecc.). Di questi confini la bestia è sempre il mezzo e il fine: ciò per mezzo del quale si segnala simbolicamente un perimetro che è diretto alla sua cacciata. E i confini sono cosa propriamente umana, se non il proprio dell’uomo. Solo le bestie non li tracciano, solo le bestie (e i loro analoghi umani: i “bestiali”) ne sono esclusi.
Attraverso il confine l’uomo stabilisce il suo potere e vi si consegna. L’uomo è infatti colui che abita il confine tracciato dal potere. Ciò significa però che il cittadino deve la propria non-bestialità ad un’istanza sovraordinata che apparecchia per lui in modo sensato – in termini simbolici, economici e politici – il sistema di distinzioni gerarchiche di cui si sostanzia e vive la società umana. In altri termini, come ha osservato da tempo il pensiero politico e bio-politico, questo stesso potere che traccia il confine, che si abilita a costruire la città e ad attribuire diritti di cittadinanza, non può farlo che ergendosi al di sopra dei comuni cittadini. Il potere stesso, se pone la legge, non deriva dalla legge: è, dunque, extra-legale. Ciò che è al di fuori o al di sopra della legge è, dunque, non-umano (ibidem, p. 36-37). È questo carattere inquietantemente sovrumano (dunque, bestiale) del potere a spiegare perché Hobbes incarni la sovranità nel Leviatano e Machiavelli si ostini a descrivere il Principe attraverso metafore animali:
“a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo. Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente dalli antiqui scrittori: li quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile”, Niccolò Machiavelli, Il Principe, Einaudi, Torino 1961, p. 85, cit. in J. Derrida, cit., p. 121).
Da Crono ad Auschwitz, dai suoi miti fondativi fino ai suoi estremi esiti, il Potere si mostra consustanziale ad una certa violenza “divoratrice”, si atteggia come una potenza che costruisce steccati e innalza mura a difesa della propria unicità e a salvaguardia del proprio privilegio. La sua forza cresce mano a mano che vede cancellarsi inesorabile il confine che lo avvolge e lo protegge dalla sua inestirpabile debolezza mortale. Il re è nudo. Il sovrano è la bestia.
La stessa immagine evangelica dell’Apocalisse, ovvero dell’annientamento del mondo umano e della natura così come li abbiamo conosciuti, è costruita attorno a figure teriomorfe, mostri semi-umani e semi-animali che segnano l’oltrepassamento di ogni confine, la distruzione di ogni forma stabile e di ogni ordine tradizionale. Si parla della “Bestia” che sale dagli abissi e confonde le menti degli uomini, seducendoli col denaro e l’ingiustizia: ma, anche qui, essa non è che immagine dell’uomo corrotto dai suoi stessi idoli, ovvero dall’immagine di sé. Adorando la Bestia, l’uomo in realtà adora se stesso (Apocalisse 13:1-17). Al tempo stesso, l’apocalittica ebraica, di cui l’Apocalisse cristiana copia movenze e linguaggi, aveva immaginato il mondo conciliato dalla redenzione come un mondo in cui le fiere si accompagnano ai fanciulli, i lupi feroci ai mansueti agnelli:
“la giustizia sarà la cintura delle sue reni, e la fedeltà la cintura dei suoi fianchi. Il lupo abiterà con l’agnello, e il leopardo giacerà col capretto, il vitello, il giovin leone e il bestiame ingrassato staranno assieme, e un bambino li condurrà. La vacca pascolerà con l’orsa, i loro piccini giaceranno assieme, e il leone mangerà lo strame come il bue. Il lattante si trastullerà sul buco dell’aspide, e il divezzato stenderà la mano sul covo del basilisco” (Isaia 11:6-8).
È perché il rapporto con la bestia è un rapporto dell’uomo con se stesso e con il suo altro – in ogni sua forma: umana e non-umana – che l’immagine della fine di questo mondo e della sua riorganizzazione secondo giustizia passa attraverso immagini bestiali. Solo se l’altro è accettato come tale e non è più il luogo di una proiezione delirante di sé cessa di apparire alternativamente inferiore o mostruoso, subumano o sovrumano. Un rapporto di fiducia reciproca e di intesa è possibile solo dove il confine è vissuto come una membrana che unisce, non come un muro o uno spazio vuoto che separa.
Tutto ciò suggerisce che un ripensamento del nostro rapporto con il non-umano debba necessariamente condurci ad un ripensamento non solo del nostro rapporto con i singoli individui non-umani, ma ad un ripensamento complessivo dei rapporti tra la nostra società e quelle degli altri animali. Finora, tale rapporto è stato di guerra incondizionata. Eppure, come noto, la guerra è “la prosecuzione della politica con altri mezzi”. Si tratta dunque di cessare la nostra guerra contro le bestie per iniziare ad intrattenerci con loro nella forma della convivenza pacifica. Occorre cioè emendare la forma esclusivista in cui l’uomo ha inteso il proprio essere “animale politico”: ciò significa iniziare a pensare la politica come ad un gioco di confini mobili e porosi che riguardi anche gli animali non-umani come soggetti e non solo come oggetti di potere. E che dunque essi, in qualche modo ancora inimmaginabile, entrino a far parte del “patto fondativo” o della “volontà generale” di una società più giusta. Il che non significa solo accettarli per come sono, ma anche lasciarli liberi di scegliere se frequentarci o meno. L’idea che la nostra millenaria politica disciplinare nei confronti degli altri animali (e dei loro compagni di sventura umani) possa essere revocata è dunque il fine che l’antispecismo dovrà prima o poi iniziare a porsi. Un fine che, come è ovvio da quanto detto, deve essere finalmente declinato in termini politici.
Il pensiero antispecista è infatti, come noto, parte di quel più vasto movimento filosofico-morale che ha lottato per secoli chiedendo la cessazione di ogni discriminazione nei confronti di chi subiva il marchio infamante della bestialità. Esso chiede oggi non solo che gli umani cessino di essere trattati come bestie, ma che le bestie stesse cessino di essere bestie.
A partire dal vegetarismo etico di Buddha e di Plutarco, passando per le arringhe anti-cartesiane di Montaigne e Leopardi (autore di una “Dissertazione sopra l’anima delle bestie”), fino ai dibattiti bioetici contemporanei, la solidarietà verso i non-umani ha finora seguito la strategia di allargamento del cerchio della considerazione etica (l’expanding circle di Peter Singer).
Oggi, però, il pensiero antispecista sta sempre più facendo i conti con il problema radicale posto dal concetto stesso di cittadinanza. Ripensare l’umano significa oggi rimettere in discussione non solo il ruolo della bestia ma anche quella del cittadino e della sovranità, poiché questi tre termini stanno insieme e non possono essere revocati o ripensati che insieme. È possibile, infatti, produrre una legge e dei diritti che aggreghino al privilegio dello status morale degli animali, senza lasciar fuori nuovamente delle bestie (e, di conseguenza, degli umani “bestiali”)? Per quanto difficile, o forse addirittura utopico, possa sembrare non c’è oggi altro compito politico che valga la pena di essere teorizzato e messo in pratica quanto il seguente: ripensare, rivedere e rivivere questa stessa pratica del tracciare confini in una forma che faccia salva la differenza dei percorsi individuali senza tradurla automaticamente in una giustificazione di dominio sull’altro-da-sé.
Commenti recenti