Tratto, con qualche modifica, da Panorama.
Jonathan è un noto pittore newyorchese. In seguito a un brutto incidente automobilistico subisce un trauma celebrale e da quel momento in poi il suo cervello perde la capacità di percepire i colori: la realtà diventa per lui una scala di grigi. Inaspettatamente la sua vita comincia ad andare a rotoli: il cibo lo disgusta, il mondo gli appare un posto orribile, dipingere i suoi quadri astratti diventa un’impresa impossibile e quando prova lo stile figurativo va anche peggio.
Il caso che apre Semiotica dei colori di Marialaura Agnello, Carocci, è uno di quelli presi in esame dal neurologo, appena scomparso, Oliver Sacks nella raccolta di saggi Un antropologo su Marte. Jonathan si rivolse a Sacks raccontandogli il suo caso. Assieme decisero di provare la scultura e improvvisamente il mondo per Jonathan tornò ad avere senso, anche se non come prima: aveva scoperto le ombre.
Nel colore, a quanto pare, c’è molto più che un semplice colore: un’intera galassia di significati culturali, sociali e biologici gravita attorno alla semplice chimica del pigmento. Un universo che, come ogni universo, si espande nel tempo senza mai cessare di modificarsi e che influenza la nostra percezione del gusto, del tatto, delle gerarchie sociali, delle dinamiche naturali e di quelle proprie della civiltà normata.
Perché un vestito blu (sicurezza, formalità) non trasmette lo stesso messaggio di uno rosso (passione, trasgressione), così come un dolce impiattato in fretta e furia non dà lo stesso piacere di una composizione ben fatta.
Secondo alcune voci dell’accademia, per esempio, quella in cui viviamo – specie nell’Occidente progredito – sarebbe un’era cromofobica, dove i colori sono banditi dalla cultura alta e dalle espressioni creative più raffinate a favore del bianco e del nero (o al limite del blu), un minimalismo che informa tanto il design quanto la moda e che relega il variopinto al ruolo ancillare di contrasto, forma ironica o trasgressione.
Ma non è stato sempre così. La storia del colore è fatta di opposti e sinestesie, di contrasti e opposizioni in un continuo mutamento di rapporti in cui tuttavia è possibile intravedere alcune costanti. Non è un caso, ad esempio, che mentre in Occidente il colore tradizionale del lutto sia il nero in Oriente la stessa funzione sia svolta dal bianco. Entrambi partecipano della categoria dell’assoluto, entrambi si collocano all’estremo dello spettro cromatico, ed entrambi vengono considerati i colori che più hanno a che fare con la luce. Pur avendo significati esattamente opposti, il bianco e il nero continuano a muoversi sullo stesso asse di senso, anche a centinaia di migliaia di chilometri di distanza.
Per altro verso uno stesso colore, nel tempo, può farsi carico di significati diversi persino all’interno della stessa cultura. Come il giallo, per esempio, di volta in volta simbolo di luce, purezza e regalità o al contrario di malattia, veleno e vecchiaia. O il viola, simbolo di morte o di festa, e a volte di entrambi come nel caso del carnevale o dei paramenti di certe cerimonie liturgiche.
Ma c’è dell’altro. Il colore è molto più di una percezione fisica e la suddivisione dello spettro cromatico è in stretta relazione con la cultura e l’ambiente in cui un linguaggio nasce e si sviluppa. Si comprende piuttosto facilmente perché i popoli dell’Artico conoscano decine e decine di parole per suddividere le varie gradazioni di colore della neve (bianco); allo stesso modo alcune popolazioni che vivono in zone particolarmente calde dell’Africa tendono a riunire verde e marrone sotto un’unica area cromatico-semantica le cui gradazioni hanno più a che fare con la vitalità degli arbusti che con la loro pigmentazione. Al contrario non è affatto chiaro perché i Maori riconoscano e nominino oltre cento tipi diversi di rosso.
Non è solo dalla pigmentazione in senso stretto quindi che dipendono i sistemi di significato che gli uomini usano per suddividere i colori entro uno spettro. Gli antichi romani, per esempio, erano soliti attribuire ai colori qualità proprie degli oggetti nel loro uso, così una spada poteva essere rossa per il sangue appena versato o celeste per il riflesso del sole e del cielo sulla lama senza alcuna elaborazione figurativa. Per altri popoli era invece più importante dividere i colori in base all’opacità e alla lucidità, per altri ancora invece in base a una loro probabile correlazione alla commestibilità o meno.
Insomma, non solo la nostra percezione dei colori può essere influenza in maniera sinestetica dal tatto o dal gusto, ma persino dalle sensazioni che ci trasmette il nostro vissuto personale, la compagnia in cui ci troviamo e il contesto socio-culturale che ci circonda. Ricordatevene la prossima volta che aprendo l’armadio vi chiederete come vi è saltato in mente di comprare una cravatta o un paio di scarpe dal colore tanto assurdo.
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