EDITORIALE
L’autodistruzione del potere
“La République n’a pas besoin de savants…” (la Repubblica non ha bisogno di sapienti). Questa frase sarebbe stata pronunciata da Jean-Baptiste Coffinhal, vice presidente del tribunale rivoluzionario, nella sua requisitoria contro Antoine-Laurent Lavoisier, condannato a morte e giustiziato l’8 maggio 1794. Sembra che al padre della chimica moderna non fosse stato nemmeno concesso un rinvio dell’esecuzione per portare a termine un esperimento chimico in corso. Certo è che questa frase, per cui Coffinhal è passato alla storia, non gli portò fortuna, perché qualche mese dopo, il 6 agosto dello stesso anno, in seguito alla caduta di Robespierre, fu lui stesso condannato e giustiziato.
Questa vicenda colpisce nel profondo la sensibilità di chi oggi dedica la propria vita alla ricerca, allo studio e alla diffusione della conoscenza. Essa porta a due ordini di considerazioni. La prima è anche la più ovvia: esauritasi in Occidente la spinta messa in moto dall’Illuminismo e dal Positivismo verso la formazione su larga scala di una opinione pubblica colta, coraggiosa e capace di servirsi del proprio intelletto senza affidarsi ciecamente a ciò che dicono i mass media, la Repubblica ha bisogno soprattutto di ignoranti!La seconda considerazione è invece più sottile e nasce dall’interrogativo intorno a cui ruota il pensiero politico cinese a partire dalle sue più remote origini: come può mantenersi un potere senza sapere? non finisce col cadere in un vortice che lo conduce fatalmente all’implosione, al collasso e all’autodistruzione? Se molti governanti di oggi pensano che lo stato ha bisogno di ignoranti, da dove sperano di attingere le conoscenze necessarie per mantenersi al potere? È una grande ingenuità pensare che le scuole di eccellenza, i cosiddetti think tanks, i policy institutes, possano supplire all’ignoranza e all’inettitudine dei governanti, perché coloro che ne fanno parte non sono marziani: essi appartengono a quella stessa società in cui trionfa il fenomeno del dumbing down (abbrutimento, istupidimento e ammutolimento), il quale investe i media, la cultura, l’amministrazione, la scuola, l’università non meno della vita quotidiana nel suo complesso. In altre parole, difficilmente riescono ad essere immuni dal virus del nichilismo e della competizione selvaggia, specie se vogliono essere consiglieri dei politici.
Fin dalla seconda metà dell’Ottocento lo storico svizzero Jakob Burckhardt, che può essere considerato il fondatore dei Cultural Studies, aveva colto con grandissima precocità la china discendente verso cui si avviava la cultura europea. Nel mondo attuale è un’illusione pensare che lo stato e la religione possano conservare la loro credibilità senza la cultura, vale a dire senza la somma complessiva delle manifestazioni umane che avvengono in modo disinteressato e non rivendicano nessuna validità coercitiva. Per Burckhardt, da ogni azione eseguita con zelo e senza servilismo nasce un’eccedenza, che per quanto esigua, costituisce la linfa di cui si nutre la civiltà. Senza una società colta, lo stato degenera in una lotta continua di lobbies e la religione nell’arroganza di avere un diritto sulle opinioni e sul comportamento degli altri.
Da Agalma, 15, marzo 2008, La République n’a pas besoin de savants
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