Tratto da Il Manifesto del 29 maggio 2003.
Ilya Prigogine compone nel 1945 una tesi di dottorato che segna l’inizio della sua impostazione originale nel campo della termodinamica: in condizioni lontane dall’equilibrio, possono prodursi in modo aleatorio delle fluttuazioni da cui si sviluppano nuovi sistemi, le strutture dissipative che, grazie all’energia ricevuta dall’esterno, mantengono una stabilità dinamica. Nell’irreversibilità può costituirsi un ordine mediante fluttuazioni; la fisica non si riduce all’ordine ripetitivo o alla deriva necessaria verso la dissipazione, prevista dal secondo principio. La freccia del tempo non scorre soltanto verso la morte, la direzionalità dei fenomeni procede anche verso l’innovazione. Già in ambito fisico-chimico appaiono processi di auto-organizzazione, che anticipano quelli propri del vivente. Da questi studi, per i quali Prigogine ricevette nel `77 il Nobel per la chimica, prende avvio una ricerca feconda che ha trovato la sua migliore espressione nel libro scritto con Isabelle Stengers La nuova alleanza (Einaudi, 1981).
La natura che la scienza a lungo ci ha svelato non era poi molto lontana dal mondo illusorio da cui i mistici tendono a fuggire; ancora per Einstein il vero universo è trasparente e purificato, la relatività rimane inscritta nel solco della teoria parmenidea dell’essere, in cui si ignora la differenza fra passato e futuro.
Ma per Prigogine erano legittime le critiche rivolte da Bergson al più grande scienziato del `900: il tempo è creazione, il suo ruolo è di operare trasformazioni, di aprire lo spettro di possibilità evolutive ed è questo che sfuggiva al determinismo della scienza classica.
La termodinamica avvia una fisica del divenire, eraclitea, e soprattutto consente di ritrovare una visione unitaria in cui la descrizione scientifica della realtà e l’esperienza che viviamo del tempo convergono (Dall’Essere al Divenire, Einaudi).
A Prigogine dobbiamo il contributo forse più significativo di messa in discussione della visione tradizionale di un universo inteso come assemblaggio di parti semplici. Era questa ancora la concezione su cui si fondava Monod ne Il caso e la necessità, riflettendo sui progressi della biologia molecolare: la vecchia alleanza era infranta, l’uomo sapeva infine di ritrovarsi solo nell’immensità indifferente dell’universo dal quale è emerso per caso, come un numero uscito alla roulette. Ma il baratro fra le leggi ripetitive della materia inerte e l’evoluzione biologica risulta colmato grazie a Prigogine; in una natura che ritrova il clinamen epicureo, la processualità di Whihetead e il decorso imprevedibile dei fenomeni instabili, più simili al bighellonare delle nuvole che alla traiettorie delle palle da biliardo, l’uomo riscopre un suo spazio.
La materia stessa porta memoria del suo passato, ha in sé inscritte le condizioni iniziali da cui si è formata; il mondo fisico non è più estraneo all’evoluzione che credevamo prerogativa dei sistemi viventi, e la storia stessa non risulta più esclusiva dell’uomo, ma si rintraccia nello stesso mondo fisico. Prigogine ha così fornito alla filosofia nuovi stimoli per rinnovare l’antica l’interrogazione sul tempo; del resto gli interessi giovanili dello scienziato erano rivolti ai problemi filosofici e proprio la lettura di Bergson lo aveva condotto a prestare attenzione al problema del tempo, un problema che, nelle discussioni che Prigogine ebbe negli anni della guerra con Bohr e Pauli, veniva giudicato risolto da Newton, salvo le modificazioni poi apportate da Einstein. Ma alla scienza classica sembrava sfuggire la varietà di forme e comportamenti che nella natura si ritrovano, le potenzialità impreviste della sua evoluzione. Come per il Popper che riflette sulle implicazioni della meccanica quantistica, anche per Prigogine il futuro è aperto, il reale è un dispiegarsi di possibili a ogni istante, come diceva uno scrittore che gli era caro, Valéry. Il concetto originale della scienza occidentale è quello di leggi di natura deterministiche, esito della credenza nel Dio cristiano, onnipotente legislatore; in questo mondo senza eventi, le scienze non ritrovano l’irreversibilità del vissuto e del vivente. La vita e la storia restano instabili, stabile invece appariva la natura, su cui la nostra presunzione imponeva le sue certezze (La fine delle certezze, Bollati Boringhieri, 1997).
La scoperta dell’instabilità dinamica, dei fenomeni caotici, ci obbliga invece a rivedere le leggi della scienza classica, al fine di includervi il temporale e il locale; e gli ultimi scritti di Prigogine puntavano verso una sintesi in grado di ritrovare nelle fondamenta stesse delle scienze l’instabilità e l’irreversibilità, facendo delle leggi che mantengono l’isotropia temporale, in dinamica o in meccanica quantistica, dei casi limite, delle idealizzazioni.
«La musica è il vero paradigma della scienza moderna – ha scritto Prigogine – poiché come la musica, gli eventi che sono oggetto della scienza vengono dal silenzio e tornano al silenzio».
Il multiverso in cui oggi sappiamo di abitare è fatto sia di leggi che di eventi e l’opera musicale è appunto l’espressione di questo dualismo: obbedisce a leggi ma vi sono anche biforcazioni da cui avrebbero potuto partire cammini diversi, in essa convivono determinismo e novità, ripetizione e innovazione. I sistemi instabili consentono di introdurre il tempo alla base stessa della descrizione e riscoprire il tempo era per Prigogine un modo per ritrovare la nostra appartenenza alla natura. Superare il cuore platonico (e poi spinoziano ed einsteniano) della scienza occidentale, rivolta a un mondo statico e idealizzato, è stato l’obiettivo della ricerca di Prigogine; per farlo occorreva costruire una matematica e una fisica del cambiamento e del tempo, ma insieme conservare un’interazione costante tra la visione scientifica e le conseguenze filosofiche che se ne possono trarre.
Prigogine ha così rinnovato l’intreccio fra scienza, filosofia e cultura che sembrava dal dopoguerra dissolto negli specialismi; non sorprende allora che il suo percorso abbia incrociato gli sforzi di quanti hanno cercato di attraversare il Paese d’Enciclopedia, da Michel Serres a Calvino, nell’intento di far comunicare campi separati. Calvino ricordava quanto fosse sensibile all’immagine dell’integrazione dell’uomo nel cosmo, attraverso un legame che passa per il tempo; e nel richiamo all’universo di partecipazione, esito dal percorso intrapreso da Prigogine, scorgeva le basi di un’etica fondata sull’immagine di un universo a cui siamo tutti chiamati a collaborare.
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