«La fisica è l’unica vera scienza; tutto il resto è collezione di francobolli».
Con questa frase sprezzante, più di un secolo fa il fisico Ernest Rutherford amava chiudere il conto dei rapporti, spesso competitivi, tra discipline diverse. Erano gli anni in cui fisica e chimica si contendevano, anche aspramente, fenomeni e oggetti di studio. Da sempre discipline “rampanti”, forti dei propri successi e del proprio riconoscimento pubblico, “colonizzano” territori tradizionalmente di pertinenza di altri settori. Nei decenni successivi alla tragedia di Hiroshima, i ricercatori del Department of Energy americano estesero gradualmente le proprie competenze all’ambito biologico con il mandato di monitorare gli effetti delle radiazioni atomiche sulla salute e sui geni, giungendo addirittura a un passo dall’aggiudicarsi il coordinamento del Progetto Genoma.
È in questa tradizione che può essere letta, da un certo punto di vista, l’attuale situazione delle scienze sociali, incalzate dalla pressione di almeno due settori “emergenti”. Il primo è quello delle neuroscienze: una pressione così forte dal punto di vista dell’appeal pubblico da essere stata definita “neuro-mania”, come recitava il titolo di un saggio di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà. Sempre più spesso, fenomeni e comportamenti tradizionalmente oggetto di studio da parte di psicologia, sociologia o economia (scelte di consumo, preferenze politiche, innamoramento) sono spiegati sulla base dell’attività di particolari aree del cervello. Così, in un recente libro di grande successo (Noi siamo il nostro cervello), il neurobiologo Dick Swaab sostiene che è nel cervello che sono già fissati
l’orientamento sessuale, il livello di aggressività, il carattere, la religione.
Studi e perizie basati su simili presupposti compaiono sempre più anche in ambito giudiziario. Negli Stati Uniti si è chiesta l’assoluzione o la riduzione di pena per giovani omicidi argomentando che
la corteccia prefrontale matura lentamente; in base alla neurobiologia la soglia di applicazione del diritto penale andrebbe alzata fino a 23/25 anni.
Un’altra linea di pressione è legata al fenomeno dei cosiddetti Big Data: enormi quantità di informazioni raccolte grazie ai grandi archivi digitali ai quali offriamo i nostri dati in cambio di servizi quali email e social network. Un diluvio di dati che non minaccia solo le scienze sociali.
Qualche anno fa ha fatto scalpore uno studio pubblicato su Nature dai ricercatori di Google: analizzando sul motore di ricerca alcune parole chiave come “influenza” riuscirono a monitorare con accuratezza, prima degli stessi dati epidemiologici, la diffusione del virus. Tuttavia, è evidente che la potenza di questi archivi e dei colossi informatici ha particolare rilevanza per le scienze sociali. Fisico di formazione, Duncan Watts di Microsoft Research si presenta come “sociologo” in grado di elucidare, attraverso il trattamento sempre più sofisticato dei network informativi (ad esempio i messaggi su Twitter), fenomeni quali il cambiamento di opinioni, il “contagio informativo” e perfino la crisi finanziaria (!). La neonata computational personality recognition ricostruisce la nostra personalità analizzando con sofisticati software le conversazioni online («chi usa molta punteggiatura ha un basso tasso di estroversione, chi utilizza parole più lunghe di sei caratteri è di solito più introverso »).
Si potrebbero certamente sottolineare i limiti metodologici e gli eccessi di alcuni di questi studi, talvolta criticati dagli stessi colleghi. Raramente i solerti data miners sono sfiorati dal semplice sospetto, magari nutrito dalla lettura di autori come Goffmann o Turkle, che i contenuti postati su Facebook, blog e Twitter rappresentino un indicatore della rappresentazione di sé e soprattutto di come vorremmo apparire, più che della personalità o di altre dimensioni profonde. Oppure che i motori di ricerca registrino, oltre alle nostre malattie, le nostre paure: in tentativi successivi GoogleFlu Trends ha di gran lunga sovrastimato la diffusione delle patologie influenzali.
A rafforzare queste pressioni, secondo alcuni commentatori, contribuirebbe la seducente prospettiva (o pretesa) di poter finalmente ancorare ad elementi “materiali”– le immagini del cervello o i flussi di dati digitali – le interpretazioni di fenomeni e comportamenti sociali e psicologici, sottraendole così a discussioni spesso divisive anche sul piano sociale e politico. Non c’è dubbio tuttavia che simili tendenze invitino indirettamente a riflettere sullo stato delle scienze sociali e in particolare sulla loro attuale capacità di influenzare il dibattito pubblico e più in generale la cultura.
Agli indubbi risultati ottenuti dalle neuroscienze e dalle tecnologie dell’informazione negli ultimi decenni, alla capacità crescente delle narrazioni costruite su questi risultati di intercettare bisogni e aspettative diffuse, pare infatti corrispondere una certa debolezza delle scienze sociali, non di rado sedotte dalla tentazione di imitare, perlopiù in modo formale e pedissequo, discipline considerate “più scientifiche”. Secondo la sociologa e presidente dello European Research Council Helga Nowotny,
questa competizione diventa una minaccia solo se le scienze sociali reagiscono in modo puramente difensivo. Bisogna entrare in dialogo critico con settori come le neuroscienze, e mostrare quanto siano incomplete e parziali le loro spiegazioni.
Più preoccupante, secondo Nowotny, l’avanzata dei Big Data, e non solo per gli scienziati sociali:
Tradizionalmente i dati sociali erano raccolti perlopiù dalle istituzioni pubbliche; anche per ragioni finanziarie, oggi questi dati sono raccolti sempre di più dalle aziende private, che non hanno l’obbligo di metterli a disposizione. Questo sottrae materiale e rilevanza alle scienze sociali, con conseguenze negative per tutti noi.
Ma l’appeal di alcune di queste interpretazioni “concorrenti” agisce probabilmente anche a un livello sociale e culturale più profondo. Trasformare un bambino vivace in un caso patologico di “sindrome da iperattività e deficit di attenzione” o interpretarne l’aggressività su base neurobiologica solleva infatti genitori e insegnanti da parte delle loro responsabilità educative; attribuire complessi problemi sociali a processi cerebrali offre alla società un’appetibile alternativa al conflitto aperto tra diverse visioni delle loro cause e delle possibili soluzioni, e più in generale una comoda scorciatoia per evitare di interrogarsi su di sé e sul proprio futuro. In ogni caso, è sempre bene andare cauti nel giudizio sommario su intere discipline; Rutherford stesso dovette riconoscerlo quando, nel 1908, andò a Stoccolma per ricevere il premio Nobel proprio perla tanto vituperata chimica.
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