Il nuovo saggio che Massimo Recalcati ha dedicato al declino del padre e al destino di una generazione costretta ad elaborarne l’assenza: ormai, nessun Dio-padre ci può salvare, non resta che salvarsi da sé.
Bisogna essere chiari: il mio punto di vista è che questa eclissi non indica una crisi provvisioria della funzione paterna destinata a lasciare il posto a un suo eventuale recupero. Rilanciare il tema del tramonto dell’imago paterna non significa rimpiangere il mito del padre-padrone. Personalmente non ho nessuna nostalgia per il pater familias. Il suo tempo è irrimediabilmente finito, esaurito, scaduto. Il problema non è dunque come restaurarne l’antica e perduta potenza simbolica ma piuttosto quello di interrogare quel che resta del padre nel tempo della sua dissoluzione (…) In tale contesto la figura di Telemaco mi pare un punto-luce. Essa mostra l’impossibilità di separare il movimento dell’ereditare – l’eredità è un movimento singolare e non una acquisizione che avviene per diritto – dal riconoscimento del proprio essere figli.
In questo senso Telemaco rappresenta l’opposto di Edipo che nell’ansia di evitare la profezia autoavverante di una filiazione maledetta uccide il padre:
Telemaco si emancipa dalla violenza parricida di Edipo; egli cerca il padre non come un rivale con il quale battersi a morte, ma come un augurio, una speranza, come la possibilità di riportare la Legge della parola sulla propria terra (…) egli prega affinché il padre ritorni dal mare ponendo in questo ritorno la speranza che vi sia ancora una giustizia giusta per Itaca. Mentre lo sguardo di Edipo finisce per spegnersi nella furia impotente dell’autoaccecamento – come marchio indelebile della colpa – quello di Telemaco si rivolge all’orizzonte per vedere se qualcosa torna dal mare. Certo, il rischio di Telemaco è la malinconia, la nostalgia per il padre glorioso, per il re di Itaca, per il grande eroe che ha espugnato Troia. La domanda di padre, come Nietzsche aveva intuito bene, nasconde sempre l’ insidia di coltivare un’ attesa infinita e melanconica di qualcuno che non arriverà mai. È il rischio di confondersi con uno dei due vagabondi protagonisti di Aspettando Godot di Samuel Beckett. Lo sappiamo: Godot è il nome di un’ assenza. Nessun Dio-padre ci potrà salvare: la nostalgia per un padre-eroe è sempre in agguato! (…) Dal mare non tornano monumenti, flotte invincibili, capi-partito, leader autoritari e carismatici, uomini-dei, ma solo frammenti, pezzi staccati, padri fragili, vulnerabili, nuovi sindaci dal sorriso gentile, poeti, registi, insegnanti precari, migranti, lavoratori, semplici testimoni di come si possa trasmettere ai propri figli e alle nuove generazioni la fede nell’avvenire, il senso dell’ orizzonte, una responsabilità che non rivendica alcuna proprietà.
Noi siamo nell’epoca del tramonto irreversibile del padre, ma siamo anche nell’epoca di Telemaco; le nuove generazioni guardano il mare aspettando che qualcosa del padre ritorni. Ma questa attesa non è una paralisi melanconica. Le nuove generazioni sono impegnate – come farà Telemaco – nel realizzare il movimento singolare di riconquista del proprio avvenire, della propria eredità. Certo il Telemaco omerico si aspetta di vedere all’orizzonte le vele gloriose della flotta vincitrice del padre-eroe. Eppure egli potrà ritrovare il proprio padre solo nelle spoglie di un migrante senza patria.
Nel video sottostante, la presentazione di Recalcati alla Libreria Feltrinelli di Milano.
Gerolamo Cardini, Per una pedagogia degli orfani
Con questo articolo, Cardini discute le tesi di Recalcati intorno all’assenza del Padre per rispondere alla domanda sul tipo di scuola da costruire. Secondo la condivisibile analisi del nostro, «scuola e università dovrebbero sottrarsi all’alternativa tra desiderio e godimento, ben sapendo che entrambi sono ineliminabili. Scuola e università dovrebbero essere il luogo in cui sperimentare forme di rapporto tra generazioni e di trasmissione del sapere diverse sia rispetto alla figura edipica dello studente come vaso da riempire da parte del Maestro, sia a quella post-edipica dello studente come colui che apprende da sé (ma cosa? E come?) attraverso la figura dell’insegnante-facilitatore. Se la prima è situazione tipica della scuola gentiliana, la seconda, diffusasi soprattutto in ambito anglosassone, sta ormai invadendo l’Europa continentale». Tratto da SConnessioni precarie.
Può succedere talora che i cattivi maestri, come i cattivi padri, siano più efficaci dei buoni. La loro eredità in negativo, infatti, può essere così forte che chi è costretto a raccoglierla impara e interiorizza con un metabolismo diverso.
S. Campailla, Gli occhi di Malpelo
La pedagogia, in quanto studio dei processi formativi degli esseri umani che coinvolgono unitamente educazione e istruzione, è da sempre troppo intrisa di politica per lasciarla ai pedagogisti. Se il suo intento disciplinante, di per sé non deprecabile se si fa riferimento alla disciplina come forza autonoma, può diventare oppressivo, l’opposizione a essa, spesso supportata da una credenza, secondo la quale crescere ‘spontaneamente’ e ‘naturalmente’ è salutare – fingendo di non sapere che spontaneità e natura sono costruzioni artificiali – ha portato a processi di emancipazione da codici autoritari, moltiplicatori di disuguaglianze d’ogni genere. Non ha saputo, però, tenere separata la necessità della critica al sapere e ai modi della sua trasmissione dall’istigazione della società ad abbracciare l’etica del «godimento», che si sta diffondendo, secondo alcune recenti riflessioni di Massimo Recalcati [1], grazie alla capacità del capitalismo contemporaneo di mettere in crisi, se non addirittura di far evaporare, il ruolo del Padre.
Questo testo non ha la velleità di fare i conti con le teorie pedagogiche degli ultimi decenni, ma vuole confrontarsi con la proposta pedagogica di Recalcati, che riformula in maniera interessante opinioni diffuse, ma che si mostra avversa a qualsiasi progetto di trasformazione radicale della società. Nonostante gli aspetti di conservazione politica impliciti nel suo discorso, però, esso contiene anche importanti elementi di sfida per un ragionamento che si batta per mettere in campo un’idea alternativa di ‘società’.
1. Innanzitutto, bisogna chiedersi: che relazione c’è tra crisi del ruolo del Padre e istigazione al godimento,
ovvero tra crisi delle istituzioni preposte alla trasmissione dei saperi (famiglia, scuola, università, partiti e via dicendo) e l’imperativo categorico a inseguire qualcosa di «superfluo, di dispendioso, di semplicemente inutile» per provare l’emozione dello spreco [Cfr. Recalacati, Ritratti del desiderio, cit., pp. 87-113; cit. da p. 90.]?
Molti sostengono che i giovani non credono più a niente; che nella nostra società non ci sono più ideali né valori, nulla per cui vale la pena vivere o morire, perché ciò che conta è solo la soddisfazione immediata di qualunque desiderio. Ogni agire, dicono costoro, è finalizzato solo al raggiungimento di questo traguardo e, dunque, tutto ciò che non lo fa conseguire, con la minor fatica possibile è respinto, rifiutato e decretato inutile. L’umanità – questa umanità e non tutta – non ha più orizzonti: la sua etica è il godimento, la pulsione di morte, l’istinto a cercare il piacere di là dalle conseguenze ben visibili che ciò comporta [Cfr. M. Houellebecq, Le particelle elementari, Bompiani, Milano 1999]. In quest’ottica, la storia, soprattutto moderna, è giudicata un fallimento colossale e i grandi ideali che l’hanno mossa i responsabili del disastro assieme ai loro propugnatori[6].
La causa di tutto, per i sostenitori di tale approccio, sarebbe il rifiuto di accollarsi il sacrificio che comporta il differimento del proprio desiderio in nome di un bene maggiore rispetto al proprio. In questo modo si precipita nell’autismo dell’intrascendibilità dell’immanenza, nell’assolutizzazione del presente e nella credenza che altro non c’è. Non stupisce che, per costoro, la risposta stia in un forte e a volte isterico richiamo ai valori e agli ideali, nel tentativo di ripristinare un altrove a cui ambire, per cui lavorare e sacrificarsi, che obblighi a differire il godimento per puntare sul desiderio.
E il desiderio, infatti, è diventato il nuovo dio cui votarsi: un dio che, come tutti gli dei che si rispettino, ha i suoi falsi, le sue controfigure, le sue maschere, i suoi miti e un certo bisogno di sangue umano. Un dio che fa proseliti non solo a destra, ma anche a sinistra; un dio che punta sulla sua capacità di indicare un avvenire perseguibile in conformità a un sapere attendibile, sia quello della tradizione, dell’autorità, della scienza o di altro. Un dio volubile però, perché nella storia umana nulla c’è di più indeterminato del desiderio. La restaurazione del discorso del Padre è in gran voga: bisogna ripristinare il rispetto per l’autorità (Padri, Maestri, Istituzioni) altrimenti tutto va a rotoli.
La nostra società sembra così attraversata da due stimoli opposti. Da un lato, c’è chi è ancora perso nel vortice dell’equazione sapere = potere, dove ogni sapere è potere e, dunque, da condannare, perché potere = inganno e, quindi, sapere = inganno. Senza nessuna critica del sapere, perché richiederebbe un altro sapere, si arriva solo all’elogio dell’ignoranza e si precipita nel fatalismo, come se davvero fossimo tutti uguali, ignoranti e sapienti, i primi perché non sanno, i secondi perché non sanno di non sapere o fingono, per convenienza, di non saperlo; come se il sapere esistesse solo come Sapere Assoluto, e non altrimenti[8]. Un qualunquismo che porta all’esigenza di criticare senza sapere, perché la critica deve essere fatta immediatamente, senza frapporre tempo: attitudine probabilmente dovuta dall’interattività in tempo reale dei nuovi media o comunque da essi amplificata. Critiche veloci, che non lascino tempo al tempo, perché più il tempo corre veloce meno ce n’è per intervenire e, dunque, per pensare e criticare in modo avveduto. Forse questo non è il destino dei nuovi media, ma di certo è il loro prevalente uso corrente.
Dall’altro, la sedicente alternativa o l’altra faccia dell’ideologia dominante – quella che, propria anch’essa di molta sinistra, pretende di sostituire la comunicazione all’organizzazione e, in ambito scientifico, alla dimostrazione – secondo cui, per riequilibrare questa situazione disastrosa, che corrompe i giovani portandoli a non rispettare gli adulti, bisogna usare l’equazione sapere = potere per ripristinare le gerarchie e, di fatto, aumentare le diseguaglianze: operazione che passa sotto il nome di meritocrazia.
Da qui o l’idea che il sapere non serve, perché è solo retorica (come se con questa i capopopolo di ogni tempo non avessero fatto le loro fortune e, di solito, le sfortune dei loro accoliti) e, dunque, che è inutile studiare: se tutti i saperi sono uguali a che pro, visto che ormai nessuno di essi ti garantisce un lavoro? Oppure l’idea che il sapere serve, ma non è per tutti, e che per gli altri basta la retorica: chi sa comanda, chi non sa obbedisce, ammansito dalle favole belle.
Diciamo allora che la critica superficiale e libertaria alla figura del Padre e la nostalgia che tende a ripristinarlo sono due risposte diverse al medesimo disagio; due risposte che, però, finiscono per avere il medesimo effetto: rafforzare i differenziali di sapere e, dunque, le gerarchie sociali date.
2. C’è invece un elemento ricordato di rado dai sostenitori dell’una e dell’altra opinione sopra esposte: la velocità dei cambiamenti, soprattutto tecnologici, negli ultimi 50 anni.
Se questa è una delle origini della crisi della figura del Padre, garante di un ordine immutabile, allora c’è ben poco da voler ripristinare, a meno di non voler retrocedere rispetto a tecniche dalle quali ormai tutti dipendiamo. È la velocità con cui cambia il mondo, anche solo in superficie, che spinge a detronizzare i Padri, figure che hanno un ruolo in società dove la trasmissione dell’esperienza ha senso perché quasi nulla cambia o cambia lentamente. Oggi, invece, tutto cambia così velocemente che i singoli sono costretti a reinventarsi continuamente o a non reinventarsi mai, tanto è una rincorsa a perdifiato. Se non c’è nulla che resti costante o almeno simile nel tempo, cosa mai si può trasmettere che si possa ragionevolmente sperare sia valido anche solo fra dieci anni? Come possono esserci Padri che non siano vecchi bacucchi abbarbicati a vecchie idee?
Quest’impressione è diventata oggi, grazie all’adolescentizzazione del mondo, quantomeno ‘occidentale’, una regola che finisce per coinvolgere gli adolescenti stessi, votati paradossalmente a un invecchiamento precoce dal punto di vista dei saperi pratici, pur restando giovani per un tempo lunghissimo dal punto di vista del marketing. Per quanto le cose vadano un po’ diversamente nel mondo reale, dove convivono ben più figure di quelle ricordate sopra, anche se proprio quelle polarizzano il dibattito, il punto sembra essere che tra la figura del Padre patriarcale, padrone, garante ed esecutore della trasmissibilità del patrimonio oltre che della cultura, e la figura del Padre debosciato, impenitente Peter Pan, amico dei figli o degli amici dei figli, inguaribile giovanilista, «coetaneo non coevo» [fr. F. Tricarico, La famigliastra, Manni, S. Cesario di Lecce 2013, p. 19], irresponsabile ed evanescente, non sembra esserci una figura alternativa. Viene quasi il sospetto che il secondo sia stato inventato per chiedere il ritorno sul trono del primo, o per confermarne la permanenza.
3. Questi due tipi di padre si specchiano in due tipi di figli, che Recalcati ha chiamato «figlio-Edipo» e «figlio-Narciso»
individuando in questo bipolarismo il dilemma del nostro tempo, la causa della crisi che attanaglia gli individui, le famiglie e la società, scuola compresa. Se il «figlio-Edipo» lotta per affermare il proprio desiderio contro la Legge oppressiva del Padre, il «figlio-Narciso» vive l’evaporazione della differenza tra padri e figli, tra Legge e desiderio, trovandosi solo e perso nel mondo reificato delle merci, senza guida. Alla verticalità del rapporto padre-figlio nell’Edipo si sostituisce un rapporto orizzontale in cui, in realtà, la distinzione tra i due tende a sfumare.
Per quanto riguarda la scuola, la diagnosi di Recalcati è la seguente:
la scuola non è più il luogo da dove si irradia il potere di controllo e l’estorsione manipolatoria del consenso. Non è più nella serie delle istituzioni totali, non è più un apparato dello Stato con una missione di intruppamento ideologico. […] Il suo dispositivo non è più disciplinare, ma indisciplinare, capace di autorizzare a un rigetto crescente delle norme. [Per questo], il nostro tempo è il tempo dell’“evaporazione del Padre” (Lacan) ed è, di conseguenza, il tempo dell’evaporazione della scuola [M. Recalcati, Cosa resta della scuola? 2013].
Siccome le ideologie, identificate con i totalitarismi, non ci sono più, anche l’Edipo, funzionale alla lotta ideologica, tende a scomparire oggi, per lasciare spazio a Narciso, cioè all’indisciplina funzionale all’iperedonismo del mercato totalmente deregolamentato e a una società dissolta, secondo la nota affermazione thatcheriana.
L’invito al godimento, però, anche se Recalcati non lo dice, ha un potere disciplinante fortissimo, soprattutto se si intende la disciplina come principio eteronomo. L’imperativo a godere, infatti, non è meno obbligante di un altro, anche se appare travestito dall’incitamento all’indisciplina. L’autorità di tipo edipico è sì sostituita con l’invito al godimento, ma questo, di fatto, reca con sé l’ennesimo appello al sacrificio: rinuncia a tutto pur di godere! Oppure, chiedi tutto quello che ti fa godere, rinunciando al resto: al piacere, ad esempio, alla gioia, alla soddisfazione, alla contentezza, alla lotta e così via. I due messaggi non sembrano per nulla contrapposti o incompatibili. Non è dunque vero che il Padre è ciò che manca, come sostiene Recalcati, perché un Padre c’è già, anzi, c’è ancora: è un Padre che ha tanti nomi, mercato, capitale, merce, denaro, consumo, successo e via dicendo; ed è un Padre severissimo, che esclude se non ci si uniforma al suo standard. Altro che fine delle ideologie! In questo senso, la schizofrenia dell’attuale messaggio capitalistico – Consuma più che puoi! Risparmia più che puoi! – non è altro che la traduzione prosaica dell’ambivalenza del godimento nichilista.
Telemaco, dunque, non è orfano, ma crede di esserlo. Se c’è un aspetto felice, del tutto non voluto, della metafora scelta da Recalcati è che mostra il rimpianto di Telemaco per un Padre che non è quello attuale, ma per un Altro Padre: Ulisse. Conclusione cui si giunge proprio seguendo il ragionamento di Recalcati. In coerenza con l’idea che la scuola senza Padre decade, perché cessa la sua funzione educatrice, Recalcati si trova, suo malgrado, preso dall’esigenza di reintrodurre, in qualche modo, una figura Paterna nella struttura sociale.
Una cosa però è vera: da qualche tempo la scuola mira solo a
«garantire l’efficienza della performance cognitiva […] che risucchia le energie del tempo morto, della pausa, della deviazione, dello sbandamento, del fallimento, della crisi che costituiscono […] il cuore di ogni autentico processo di formazione» [Che cosa resta della scuola, p. 1123].
La scuola, quindi, è un apparato, statale e non, al servizio del mercato e delle esigenze del capitale oggi più di ieri, ossia molto di più che negli anni Sessanta e Settanta, spesso denunciati come gli anni della grande e nefasta ubriacatura ideologica. La prestazione just in time ora è tutto: il resto è nulla.
Gli studenti, sostiene ancora Recalcati, non sono più
«viti storte che necessitano di pali dritti e di fili di ferro robusti per essere raddrizzate allo scopo di divenire conformi a un ideale di giusta normalità»,
anche se molti di loro invocano un palo come la salvezza, ma sono considerati come
«computer, come mappe cognitive che esigono il loro puntuale aggiornamento di informazioni. Si tratta di caricare più files possibili secondo il principio economico della loro massima utilità». La formazione è così abbandonata a favore della capacità di attivarsi cognitivamente solo quando serve e nel modo migliore possibile, senza nessun riguardo alle conoscenze necessarie per essere cittadini o comunque soggetti attivi nel proprio tempo. E se, invece, fosse proprio questo un nuovo tipo di formazione? Chi formerebbe? Certo, non il cittadino che dalla Rivoluzione francese in poi ci ha accompagnato fino agli anni Ottanta del Novecento. E allora chi? Continua Recalcati: «mentre la metafora botanica si fondava sull’autorità simbolica del grande Altro della tradizione […], quella informatica sembra voler liberare […] da ogni laccio assiologico»[ibid].
Una dicotomia che richiama ancora una volta il «figlio-Edipo» e il «figlio-Narciso». Lasciando stare le implicazioni psicoanalitiche su cui molto ci sarebbe da dire, dato che la psicoanalisi è spacciata per l’unico sapere senza inconscio, quindi Assoluto (Scienza), nonostante le dichiarazioni retoriche del contrario, il punto è che il disastro del «figlio-Narciso», che non può essere disgiunto da quello del padre e/o della madre narcisi, non si risolve, come Recalcati propone, inventandosi la figura immaginaria di un «figlio-Telemaco» che, in realtà, nasconde il desiderio di un ritorno prepotente all’Edipo, come già chiedeva Eugenio Scalfari [Il padre che manca alla nostra società, «la Repubblica», 27.12.1998].
Il «figlio-Telemaco» sarebbe un tipo nuovo di figlio, cui dovrebbe corrispondere un tipo nuovo di Padre. Telemaco, infatti, non è in
«attesa di una legge anonima […], dell’applicazione routinaria della Legge del Codice, [perché] attende il ritorno di un padre. Il suo desiderio è desiderio del “ritorno del padre”. […] Telemaco domanda giustizia: nella sua terra non c’è più Legge, non c’è più rispetto, non c’è più ordine simbolico. Egli esige che si ristabilisca la Legge e che la “notte dei Proci” finisca. […] Telemaco, diversamente da Edipo, non vive il padre come un ostacolo, come il luogo di una Legge ostile alla pulsione, non sperimenta il conflitto con il padre»[Cfr. Il complesso di Telemaco, cit., pp. 111-20; cit. da p. 112.]
– un po’ come gli operai dovrebbero fare col loro padrone!
E non è tutto, perché Telemaco
«attende la Legge del padre come ciò che potrà rimettere ordine nella sua casa usurpata, offesa, devastata da Proci. Ricerca il padre come luogo di una possibile Legge giusta». Le «giovani generazioni», infatti, che assomigliano «più a Telemaco che a Edipo, […] domandano che qualcosa faccia da padre, che qualcosa torni dal mare, domandano una Legge che possa riportare un nuovo ordine e un nuovo orizzonte nel mondo»[Ivi, p. 113].
Strano che il «nuovo ordine» sia un ri-porto: un lapsus che tradisce forse una nostalgia per il buon tempo andato, in cui i Padri facevano i Padri, le Madri le Madri e i Figli i Figli? Strano che proprio a Ulisse si venga ri-portati: tra le tante imprese del re di Itaca, chi non ricorda la strage dei Proci: il suo modo di ri-portare (qui sì il verbo è corretto) ordine sulla sua isola? Il discorso di Recalcati, benché cerchi di tenersi lontano da quest’ipotesi, le espone il fianco quando dice che
«per Telemaco, la Legge è ciò che può ricondurre il caos devastante del godimento mortale all’esperienza necessaria della castrazione e del desiderio»[Ivi, p. 116.].
E se è vero che, per la psicoanalisi non c’è desiderio senza castrazione, allora la figura di Telemaco non esclude il ritorno del Padre, come insegnano l’Odissea o le meno note Aventures de Télémaque, fils d’Ulysse (1699) dell’abate Fénelon, che contro la tirannia ri-propose l’avvento al trono di un re illuminato.
Di là dalla metafora letterariamente accattivante, il rapporto tra Telemaco e il Padre dovrebbe però essere, secondo Recalcati, qualcosa di diverso:
«il desiderio di Telemaco non è solo desiderio nostalgico che il padre ritorni, ma che vi sia “padre”, che possa esservi un senso umano e non animale della Legge, che possa esservi un Altrove, un’Altra Cosa rispetto al godimento incestuoso dei Proci»[Ivi, p. 114.].
Il Padre, dunque, è l’unico possibile portatore del «senso», di una Legge (l’ordine simbolico) non «animale».
Questo è un punto importante e riguarda anche il libro di Laffi, La congiura contro i giovani, citato in precedenza. Se la generazione ora più giovane ha trovato un mondo senza giustizia, devastato e quant’altro, non è stato molto diverso per le generazioni che l’hanno preceduta: perché allora non prova anch’essa a essere irrispettosa e a costruire il proprio mondo senza aspettare l’aiuto dei Padri?
4. Capire come e perché si sia giunti a questo punto è fondamentale
e richiederebbe un’analisi complessa che esula dai propositi di questo contributo: certo, non ci si può limitare a dare la colpa al ’68 o alle televisioni commerciali, per quanto entrambi abbiano giocato ruoli decisivi, sebbene diversi, nella storia. E non sono certo gli unici attori sulla scena.
È come se l’esaltazione del godimento e la critica del sapere, e di un sapere inteso come disciplina, in tutti i sensi del termine, andassero di pari passo. Per Recalcati, lo snodo si identifica con «il figlio Anti-Edipo», che
«ha dato involontariamente la stura a un elogio incondizionato del carattere rivoluzionario del desiderio contro la Legge, [elogio] che ha finito paradossalmente per colludere con l’orgia dissipativa che ha caratterizzato i flussi […] di denaro e di godimento che hanno alimentato il meccanismo impazzito del discorso del capitalista nell’epoca della sua globalizzazione finanziaria»[Cfr. ivi, pp. 102-7; cit. da p. 103.].
La colpa di tutto il male presente, dunque, è di questo figlio scapestrato, com’è stato anche Recalcati da giovane, che si vorrebbe «libero da ogni legame con l’Altro», finendo così per
«inneggiare a un godimento incestuoso che sfocia in una spinta alla morte»[Cfr. Il complesso di Telemaco, cit., p. 97].
Si tratta, dunque, ora, anche per Recalcati di scontare la propria colpa – di là dai fallimenti del ’77 e dell’antiedipismo – rientrando nell’ovile cattolico [Cfr. Patria senza padri, cit., pp. 107-8.]?
Tornando alla relazione tra esaltazione del godimento e critica del sapere, accennata poco sopra, bisogna dire, semplicemente, che per inseguire il godimento non è necessario sapere nulla: basta affidarsi al desiderio dell’Altro, il mercato in questo caso, e sprofondare in una comoda ignoranza. Il risultato più evidente è che sembrano non esistere più saperi né verità che non siano punti di vista personali e tutti equivalenti perché acritici, seppur non intercambiabili perché ognuno ha il suo. Ma perché questa mancanza di autonomia attecchisce sempre più e sempre più velocemente nelle giovani menti e non solo?
Se esistono solo monadi poste tutte sullo stesso piano, allora il relativismo delle conoscenze è senza relazione e, quindi, coincide con l’ignoranza: non esistono verità, ma solo impressioni, espressioni, affetti, sentimenti, stati d’animo, sensazioni, passioni, ubbie, fantasie e via discorrendo. La distruzione dell’autorevolezza dei maestri, insegnanti e intellettuali, e con essa anche quella della loro autorità, dipende da questo senso comune. Sia ben chiaro, non si tratta di difendere un sapere ex cathedra, ma la possibilità di trasmettere un sapere critico, perché sa deviare, «
per vie tutto sommato casuali, non programmate, dagli obiettivi di produzione e addestramento dei cittadini imposti dal potere politico alla scuola di massa» [B. Bonato, Senso e non senso della competizione, in «aut-aut», n. 358, cit., pos. 60.]:
un sapere che sappia rimettere in discussione autonomamente i propri fondamenti evitando la sua ossificazione dogmatica e che abbandoni ogni intento ricompositivo attraverso l’esplicitazione delle contraddizioni di massa tra individui e conoscenza. Pur essendo anche individuale, il sapere critico non è mai banale e inutile come i punti di vista di cui sopra, perché si propone sempre e intenzionalmente di sostenere processi collettivi di parte.
Un sapere questo, che si può trovare fuori dalla scuola e dall’università, ma anche al loro interno. Che scuola e università cerchino di trasmettere un sapere ideologico, funzionale agli interessi del ceto dominante, non significa che ci riescano. L’insubordinazione e il sabotaggio, sebbene non violenti e silenziosi, sono all’ordine del giorno. Non a caso, scuola e università, sono, in Italia e non solo, nel mirino di controriforme che mirano a minarne sempre più l’autonomia di pensiero e di ricerca, attraverso procedure di disciplinamento economico eterodiretto dei riottosi, quali, ad esempio, quelle punitive prodotte dai sistemi di valutazione.
5. Questo ci porta a una questione: scuola e università devono sopperire sempre più a domande provenienti da una società (o da quel che ne resta) molto diversa da quella precedente alla caduta del Muro.
Le grandi trasformazioni in ambito lavorativo, ad esempio, hanno fatto ricadere sulla scuola funzioni di accudimento, che sono pezzi di genitorialità, prima molto più smussati, e la necessità di occuparsi quasi più dell’educazione che non dell’istruzione degli alunni. Paradossalmente, poi, proprio nel momento in cui la famiglia tradizionale ha cominciato a sfaldarsi, le si è chiesto un impegno più ampio nelle vicende scolastiche, col risultato di catapultare nella scuola genitori che non si occupano dei loro figli in famiglia, ma solo nei consigli di classe. Ben prima della crisi attuale, l’inselvatichirsi del cosiddetto mercato del lavoro ha caricato l’università (luogo della ricerca e dell’alta formazione) dell’onere di fornire strumenti atti all’inserimento immediato nel suddetto ‘mercato’ a tutti i livelli, con la sua conseguente licealizzazione, l’abbassamento dei livelli di ricerca, il rapporto forzato con i ‘privati’ e con le richieste del territorio. L’incapacità o comunque la difficoltà di rispondere a queste aspettative ha gettato su scuola e università il discredito che oggi le contraddistingue e che non tiene conto né della loro impreparazione a svolgere questi compiti, perché pensate e costruite per svolgerne altri, né dello sforzo, non generalizzato, ma presente, che chi vi lavora mette in atto per venire incontro a esigenze rinnovate, la cui soddisfazione è spesso ostacolata più che favorita dai luoghi, dagli strumenti e dalle procedure con i quali ci si trova a operare.
In questo quadro quale ruolo potrebbero avere scuola e università? Di certo non avallare i comportamenti distruttivi del contemporaneo «narcinismo» (neologismo coniato da Colette Soler) né, però, proporre un ritorno, mascherato e per questo ipocrita, all’Edipo, come sembrano proporre molti insegnanti ora maturi che negli anni Sessanta e Settanta si sono ribellati ai loro padri e ora esigono di prenderne il posto, dopo aver perorato (soprattutto negli anni Ottanta) la causa anti-edipica. Esseri totemici che infestano scuole e università e che vogliono essere esattamente quello che sono stati i loro padri. Una generazione di eredi rottamatori che piace tanto forse perché evoca il bel tempo andato e propone di tornarci.
Detto in breve, scuola e università dovrebbero sottrarsi all’alternativa tra desiderio e godimento, ben sapendo che entrambi sono ineliminabili. Scuola e università dovrebbero essere il luogo in cui sperimentare forme di rapporto tra generazioni e di trasmissione del sapere diverse sia rispetto alla figura edipica dello studente come vaso da riempire da parte del Maestro, sia a quella post-edipica dello studente come colui che apprende da sé (ma cosa? E come?) attraverso la figura dell’insegnante-facilitatore. Se la prima è situazione tipica della scuola gentiliana, la seconda, diffusasi soprattutto in ambito anglosassone, sta ormai invadendo l’Europa continentale, Germania e Francia innanzitutto, e arrivando, sul far della sera, anche in Italia.
Se il berlusconismo (che ha fomentato il relativismo ignorante per cibarsene e crescere con l’unico scopo di imporre come regola di comportamento il proprio godimento, per poi rivolgersi al mercato per soddisfarlo) è un sostenitore del secondo modello, non troppo lontano da questo, negli ultimi anni, ha pascolato la sinistra, passata dal modello edipico del Padre della patria a quello post-edipico del genitore/insegnante amico e uguale dei propri figli. Ambedue gli schieramenti cercano di trasformare il desiderio in godimento per poi affidare tutto o quasi al mercato, che proprio perché non soddisfa i nostri desideri può invece farci godere senza alcun limite. Ancora una volta il sacrificio non è il limite del godimento, ma una sua variazione perversa. Solo pochi, e sicuramente tra questi non c’è il quotidiano «la Repubblica», stanno amaramente rendendosi conto di cosa significa aver distrutto l’immagine e il ruolo sociale del sapere e degli insegnanti: ma sono una minoranza, anche tra gli insegnanti stessi che, spesso, hanno partecipato con gioia ai propri auto da fé, e, per ora, non contano nulla.
In questo quadro di miseria gli insegnanti si sono trovati presi e, ingenuamente, hanno per lo più reagito assimilando il senso di colpa derivante dalla loro posizione ‘privilegiata’ e adattandosi supinamente ai nuovi ordini, nascondendosi dietro la loro missione civilizzatrice che, però, è diventata, spesso in-civilizzatrice. Di qui il loro eticismo, incapace di opporsi a qualunque istanza, anche demenziale, arrivasse da un qualunque governo degli ultimi vent’anni. Non è casuale che l’insistenza sull’insegnamento come ‘missione’ sia aumentata proprio col deteriorarsi del valore sociale dell’insegnamento come ‘professione’.
Paradossalmente, ma neanche tanto, l’avversione sociale contro gli insegnanti sembra provenire, più che dagli esempi d’inettitudine (presenti in ogni categoria), dalla percezione che essi godano di un privilegio sociale non più tollerabile: dietro al motto, frutto d’ignoranza, ‘lavorano poco e guadagnano troppo’, si nasconde, in realtà, l’invidia per una condizione di sottrazione, ancorché fortemente minacciata, alle leggi del mercato che, invece, stritolano tutti gli altri lavoratori. Forse qui va colta la radice del senso di colpa e dell’eticismo che caratterizza molti insegnanti, quasi che, consapevoli del loro inconfessabile ‘privilegio’ in un mondo governato dalle ferree leggi del mercato, cercassero di ‘ripagarlo’ con un senso del dovere inappuntabile (basti vedere la crescente avversione, negli ultimi anni soprattutto, verso lo sciopero) oppure accettando passivamente una certa frustrazione, derivante dai bassi salari e dalla scarsa considerazione sociale, quale prezzo da pagare per essere esclusi dal mercato. Del tutto insensato è che questi atteggiamenti permangano quando tale condizione sta per scomparire: le forze del capitale non si placano con sacrifici umani, ma ne vengono rinvigorite. Inoltre, non è forse proprio attraverso il senso di colpa che si creano i padri-amici o gli insegnanti-amici, quelli che vogliono a tutti i costi farsi amare (cioè farsi perdonare) dai figli, dagli alunni, dai genitori, dai colleghi, dal preside, dalla società? Che quest’atteggiamento sia l’introiezione della schizofrenia del capitale, che ingiunge: ‘non vi paghiamo, ma dovete farlo per dovere etico’ – in conformità all’ideologia del servizio pubblico – non toglie nulla, purtroppo, allo stato delle cose.
Se, invece, la conoscenza come crescita autonoma e collettiva ha bisogno dei suoi tempi, allora l’insegnamento, scolastico e universitario, deve essere sottratto alla velocità del mercato. E questo deve essere chiesto e rivendicato come condizione imprescindibile per un insegnamento di qualità, capace cioè di sviluppare saperi critici.
6. Allora bisogna essere chiari e ‘politicamente scorretti’: non si tratta di recuperare la figura edipica del Padre né di bearsi nell’anarchismo dell’anti-Edipo o perdersi nel labirinto di specchi che attrae Narciso.
Allo stesso tempo, la figura di Telemaco non sembra indicare una via del tutto nuova.
Prima però bisogna stigmatizzare l’assenza della Madre [2], di cui Recalcati non parla mai. Ci sono solo Padre e Figlio (manca solo lo Spirito Santo), conformemente al riavvicinamento al cristianesimo che l’autore stesso confessa e che era anche nelle corde di Lacan. Non si può non notare che Padre, Figlio, Parola, Altro, Eredità, Testimonianza e altri sono tutti vocaboli che, sotto una patina psicoanalitica, rivelano un carattere religioso e teologico-politico. E se non c’è Madre, non c’è neanche Figlia, come, a dire il vero, non ci sono fratelli né sorelle. Queste assenze tradiscono un modo specifico di intendere l’alterità, concepita sempre come un altro assoluto (Altro), privo di relazione, e mai come articolazione del medesimo. A fianco del due, a ben vedere, c’è anche il molteplice, al punto che perfino la dicotomia di genere andrebbe relativizzata, perlomeno sul versante pedagogico. L’Altro, in realtà, non è onnisciente, se non immaginariamente: per questo una pedagogia per orfani, che fossero davvero tali, dovrebbe riportare l’alterità tra i molti a un piano meno tragico, facendone una differenza che, pur con le sue scabrosità, non sia inattingibile e minacciosa, come un dio al quale bisogna sacrificare sempre qualcosa, senza cadere però nei sogni d’armonia del multiculturalismo.
Il punto è che l’Altro è forse creazione del singolo prima che di una collettività – per non dire che ognuno ha il suo Altro – ma ancor più importante è che prima che con l’Altro ognuno di noi ha a che fare con gli altri. Qui è il limite dell’approccio psicoanalitico, sempre taciuto: tutt’al più la psicoanalisi cura i singoli, non la società. E l’idea che essa possa costituire il fondamento concettuale per una scienza della società sconta un salto di paradigma mai spiegato, nemmeno da alcuni tentativi freudiani: dall’individuale al collettivo, dal singolo ai molti. I soggetti collettivi non sono soggetti individuali ‘più in grande’: serve dunque un pensiero dell’agire collettivo, perché i soggetti collettivi agiscono politicamente in modo specifico. Non si tratta di rinunciare agli ‘individui’ (e quali, visto che non sono tutti uguali, ma femmine e maschi, padroni e operai ecc.) a favore del collettivo, ma riconoscere che sono caratterizzati da dinamiche in parte diverse e irriducibili tra loro. Allo stesso tempo, come vedremo, questo di per sé non fa venir meno la presenza e perfino la necessità di un ordine simbolico, ma ne modifica la natura.
Il problema, allora, non è sostituire al Padre la Madre, la cui figura (o ruolo) è ormai sempre più diffusa nelle scuole anche in ragione del discredito, salariale e sociale, cui è stato ridotto il mestiere d’insegnante. E, purtroppo, la femminilizzazione dell’insegnamento è uno dei motivi principali sia del fango gettato in modo scriteriato sulla professione (molte donne fanno le insegnanti non perché motivate, ma perché, in quanto madri, possono avvantaggiarsi di un lavoro part-time che, in quanto tale, è ancora troppo pagato: un’idiozia sempre più diffusa, tra i media e non solo) sia della proliferazione dei Narcisi, generati da un atteggiamento iperprotettivo che condanna i figli alla paura del mondo e, dunque, al loro essere xenofobi, sicuritari, innamorati solo di se stessi e alieni dal legame sociale che non sia quello della dipendenza da chi dà loro protezione: come se questo atteggiamento fosse specifico solo delle donne, così come, quello contrario, degli uomini. In ogni caso, costruire realmente una convivenza post-patriarcale non significa aderire a un orizzonte neo-matriarcale.
Il figlio-Narciso, la cui nascita, secondo Recalcati, è colpa del figlio anti-Edipo, insegue solo il godimento immediato e quindi nulla lo interessa che non gli serva subito: è la figura complementare a quella del capitale e del mercato contemporanei, basati sulla chiamata e l’utilizzo immediato di competenze e conoscenze, ma anche sullo spreco, sull’eccesso di consumo. L’unico senso è l’immediata fruibilità di qualunque cosa. Il problema, dunque, è come rendere desiderabile il sapere per se stessi o per se stesso o, ancora, indipendentemente dalla sua utilità immediata. Non è un problema da poco, perché chiede di fare i conti col presente e proprio per risolvere i problemi innumerevoli del presente c’è bisogno di nuove conoscenze.
La sconfitta dei movimenti e delle alternative politiche degli anni Sessanta e Settanta implica un prezzo altissimo: l’impraticabilità delle ipotesi che sostenevano quei tentativi, anche se aggiornate. La ‘vittoria’ del capitale e del mercato, che sta portando la Terra al collasso, porta con sé la perdita del diritto di parola degli sconfitti e la necessità di parlare la lingua dei vincitori. L’idea di dover ripristinare un senso, che vada oltre il presente e la sua immediatezza, proposta da Recalcati (ma anche, seppur da altra prospettiva, da Tronti, ad esempio), significa tornare a una fase governata dall’Edipo, come dimostra tutto il discorso su Telemaco; accettare invece l’insensatezza del presente significa abdicare al mondo del capitale e del mercato. Detto che, oggi, capitale e mercato propongono (vendono?) un senso molto chiaro – il denaro, cioè il benessere per sé, per l’unica vita che si ha, senza sentire alcuna responsabilità per gli altri, presenti e futuri – anche se è un miraggio che nasconde il loro effettivo funzionamento – la domanda dovrebbe essere: è possibile vivere senza un Senso (Altro) ma non per questo come bestie affamate disposte a uccidersi l’una con l’altra? E scuola e università possono fare qualcosa in proposito?
Il punto non è evocare Socrate e Cristo[36], l’amore che genera il transfert e via dicendo, anche se, a volte, tutto questo funziona ancora, perché rende evidente che imparare non significa succhiare un contenuto da un altro, ma costruirlo da sé facendo tesoro della memoria degli avi. Ma non è solo questo: insegnare non è riempire sacchi vuoti, tramandando ciò che già si sa – come se si trattasse di fare proseliti – ma trasmettere assieme al proprio sapere anche il proprio non sapere, affinché altri si muovano alla ricerca di un sapere nuovo. Anzi, il vero compito di un docente è mostrare i limiti della propria conoscenza, insegnando la propria conoscenza: è questo che fa sentire lo studente non chiuso in una gabbia, perché lo chiama a impegnarsi per spostare i limiti del sapere, che ci sono sempre. Ed è provando a spostare i limiti del sapere che ci è dato che possiamo cambiare la nostra vita e quella degli altri, attivando una modalità di ricerca che non mira alla convergenza tra desiderio e godimento, come vuole Recalcati, ma prova a uscire dal loro bipolarismo. Non si tratta di capire come «congiungere il godimento al desiderio», ma si tratta invece di non identificarsi né col godimento né con la Legge né col desiderio (che poi non è mai Uno, ma sempre in-finito). Non si tratta, dunque, né di sottomettersi alla Legge (Edipo) né di pensare di poterne fare senza (Anti-Edipo) né di sostituirla col godimento (Narciso) né di rimpiangerla e attenderne il ritorno (Telemaco). La Legge è una componente strutturale della vita umana che la definisce ma non le dà un’unica identità: non per entrare nell’ipermercato post-moderno delle identità, ma perché la Legge, che sempre c’è, non è però mai la stessa. Anche l’Anti-Edipo e Narciso che sembrano vivere senza Legge fanno, in realtà, delle proprie pulsioni la propria Legge: ma non è la stessa Legge.
Per questo l’università deve reggersi su una didattica che parta dalla ricerca e non si basi solo sul tramandare l’acquisito, che non crea problemi ed è ‘subito’ utile a trovare lavoro: una svolta che sta liceizzando l’università e che è una delle sciagure maggiori prodotte dai governi degli ultimi vent’anni. Come il sapere non s’impara né si trasmette per contatto, ma va ri-appreso e re-inventato giovandosi della memoria, così il Senso non è dato (questa è la pretesa isterica delle giovani generazioni che reagiscono alla frustrazione di non vederla soddisfatta con il godimento), ma va continuamente e faticosamente reinventato, perché non ce n’è Uno. Il che non significa che ce ne siano Molti, tutti equivalenti e disponibili come sugli scaffali del supermercato, dove ognuno può comprare quello che più lo aggrada, ma, piuttosto, significa che non ce n’è Nessuno già prodotto e che, proprio per questo, ce ne possono essere molti: tanti quanti quelli che si riescono a inventare e per nulla tra loro equivalenti. L’alternativa, insomma, non è tra Molti equivalenti (molteplice puro, moltitudine) e Uno, ma tra queste due facce di una stessa medaglia e i molti non equivalenti che vuol dire anche non necessariamente armonici.
È dunque il vuoto del Senso che va insegnato, ma non come via fatalistica al nichilismo, bensì come occasione per la produzione di leggi che non ci identificano con un’essenza, ma ci mostrano e ci guidano attraverso percorsi possibili e rettificabili. Leggi che provengono dalla forza-invenzione dei singoli congiunti in uno sforzo comune e solo così effettivamente ed efficacemente autonomi, cioè capaci di darsi una legge traendola dalla propria comune ‘potenza’ e dai propri comuni limiti.
7. Non si tratta, dunque, di porsi solo la questione del «giusto erede»,
su cui Recalcati scrive pagine interessanti [Cfr. Il complesso di Telemaco, cit., pp. 121-44], o della «umanizzazione» che avviene attraverso il linguaggio, o sulla «lezione» come incontro che cambia la vita, ma di porsi una questione finalmente più politica e, per questo, non schiacciabile totalmente sulla dimensione psicologica. Essa chiede se c’è un’alternativa sia al desiderio sia al godimento, ben sapendo che sono ineliminabili entrambi: il primo rimanda la soddisfazione a un dopo e, dunque, si basa sul sacrificio, perché assume la legge della castrazione, cioè l’esistenza di un limite insuperabile sancito dalla Legge simbolica e dalla figura del Padre; il secondo, invece, non rimanda a niente, a qualunque costo, perché segue fanaticamente la pulsione di morte. Insomma: «che senso ha la rinuncia o il differimento se Dio è morto?». La risposta non può essere il ritorno a un Edipo debole, buonista, ragionevole e altruista come quello tratteggiato da Recalcati e atteso da Telemaco: un Edipo che non vuole sostituirsi al padre, ma magari condividere con lui la madre, in un anelito democratico e partecipativo!
Tra Legge, trasgressione, godimento e desiderio, dunque, non c’è un’unica via, ma solo la necessità di disporle in un ordine mobile, variabile, che non si pretenda assoluto. E per concepire e realizzare questo ordine ci vuole disciplina (e più d’una) e, dunque, organizzazione. La ricerca di nuove conoscenze e saperi, da scoprire e inventare collettivamente, è l’unico modo per governare la propria vita assieme a quella degli altri senza accontentarsi di essere eterodiretti in cambio di un qualche Paese dei balocchi. Una pedagogia fatta da orfani per altri orfani, dunque, è un problema collettivo, e non solo individuale: è un problema tra pari, perché pari sono tra loro quelli che cercano e non quelli che esprimono il loro irripetibile punto di vista. Ed è solo tra pari che possono e si devono formare gerarchie, sempre però dinamiche, mobili, reversibili, alterabili e, dunque, riconosciute. È solo nella libera e disciplinata ricerca della conoscenza, dunque, che sta la possibilità di riconoscere realmente l’importanza del debito che abbiamo con chi ci ha preceduto, perché essa sarebbe impossibile senza di loro. Non dunque di un debito di gratitudine astratto, si tratta, ma concreto. E solo la conoscenza è l’evento che spezza il ciclo biologico facendoci accedere alla dimensione propria dell’animale umano.
La ricerca della conoscenza tiene vivo il desiderio, perché non si è mai finito di conoscere, e dà godimento, perché soddisfa, entro i limiti di una verità finita, la nostra ansia di possesso: fin qui, è l’equilibrio del «plusgodere» lacaniano: ma c’è di più. La ricerca della conoscenza, infatti, consente di creare strumenti per cambiare la propria vita e quella degli altri: diventa un processo collettivo e non individuale. Essa non è l’universalizzazione del caso singolo, ma l’accoglienza del caso singolo in un gruppo più grande, tendenzialmente universale. La ricerca della conoscenza, dunque, è la fine del soggetto, non per «forclusione», ma per inclusione attiva. Le scienze, infatti, funzionano proprio perché, a un certo punto, escludono il soggetto opinante, lo zittiscono, gli tolgono la parola, ma non per sempre, anzi: proprio per ridargliela all’interno di un diverso regime di discorso. Le scienze, attraverso processi a volte lunghissimi, possono arrivare a produrre una verità la cui validità è però sempre circoscritta a un ambito della realtà e agli strumenti con cui è stata ottenuta. Essa resta valida finché non viene sostituita da un’altra che spieghi meglio la realtà e, al contempo, i difetti della spiegazione precedente.
Si tratta, allora, di riattivare nelle scuole e nelle università un’idea e delle pratiche di ricerca scientifica non asservite alle commesse del capitale e non votate destinalmente all’applicazione tecnologica. Sarà l’istruzione, soprattutto scientifica, non certo l’etica, ad aiutare l’economia a cambiare il proprio paradigma, a patto che la ricerca scientifica non si cristallizzi nei propri risultati e non rimuova il lato ‘oscuro’ della sua storia, come invece ha sempre fatto certo positivismo, consapevole della sua intrinseca conflittualità e delle sue contraddizioni, e aliena da ogni volontà ricompositiva.
Non si tratta di recintare di nuovo vecchi ambiti – da una parte la scienza e dall’altra la politica – ma capire in che modo può avvenire una loro combinazione proficua, fatta salva la loro autonomia. Se la politica è soggettivazione tramite la presa di parola, la ricerca scientifica è desoggettivazione tramite l’acquisizione di una parola relativamente universale; se la politica è invenzione di sé e degli altri, anche la ricerca scientifica lo è, come ogni altra attività creativa, ma i parametri per giudicarla sono diversi. Lavorare in costrizione e con margini di libertà ridotti non deprime la creatività, anzi la esalta. Ma su questo tema si rimanda a un prossimo intervento.
Una scienza senza Padre e senza Madre, ma con tanti padri e tante madri, con tanti fratelli e tante sorelle, una scienza e, quindi, anche una pedagogia fatta da orfani e per orfani: ecco di cosa ci sarebbe bisogno, ecco cosa sarebbe alla portata se l’eclisse del Padre fosse reale, finalmente, e non immaginaria. In questo caso, che per ora non si dà, ponendo semmai il problema di come far tramontare il Padre che ci governa, Telemaco non aspetterebbe il ritorno di Nessuno né andrebbe a cercarlo o penserebbe di sostituirlo con qualcun Altro, ben sapendo che se tornasse il Padre non sarebbe amico né fratello né compagno. Non è la psicoanalisi a insegnare che ciò che arriva non corrisponde mai al nostro desiderio? Se Telemaco fosse davvero orfano approfitterebbe della scomparsa del Padre per costruire un mondo diverso; se volesse davvero esserlo farebbe di tutto per liberarsene.
[1] Cfr. Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Cortina Ed., Milano 2011; Ritratti del desiderio, Cortina Ed., Milano 2012; Patria senza padri. psicopatologia della politica italiana, minimum fax, Roma 2013; Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del Padre, Feltrinelli, Milano 2013; Cosa resta della scuola? Sulla crisi del discorso educativo, in «aut-aut», n. 358, aprile-giugno 2013. Volutamente si lasciano qui da parte testi più ‘tecnici’ come L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Cortina Ed., Milano 2010, e Jacques Lacan, vol. I, Desiderio, godimento e soggettivazione, Cortina Ed., Milano 2012.
[2] Questa non va intesa in analogia con l’«evaporazione» del Padre, perché la sua assenza, nel discorso psicoanalitico, non è la sua eclissi: «l’interdizione della Cosa materna, che la Legge della castrazione stabilisce, apre al movimento del desiderio» (Cosa resta del padre, cit., p. 19). La madre per Lacan è sempre assente, perché impossibile da possedere: in ragione della Legge di castrazione (Padre) essa diventa l’oggetto del desiderio e quindi ciò che è massimamente presente in quanto assente. Al contempo, è per questo che non può essere Legge.
[43] Cfr. ivi, p. 105.
[44] Cfr. Recalcati, Cosa resta della scuola?, cit., pos. 1123.
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