Nel 2004 il liceo Parini di Milano fu letteralmente devastato da un’occupazione che lo rese inagibile per alcuni mesi. Riconosciuti i responsabili, il preside, insieme al corpo docente, decise di non adottare alcun intervento disciplinare contro i ragazzi responsabili della devastazione. Per iniziare la nostra conversazione le chiedo di commentare, riferito a questo caso particolare, il giudizio di Roberta De Monticelli: “la sostanziale impunità fa male, tanto a chi ne fruisce quanto alla comunità. [Questi ragazzi hanno così ricevuto] una supplementare cura di inconsapevolezza […] [perché sono stati] privati del senso delle conseguenze delle proprie azioni, che è un costituente essenziale della libertà”[1].
La Legge, per come la pensa la psicoanalisi, vale a dire la legge simbolica, che è la legge della castrazione, si manifesta attraverso l’introduzione dell’impossibile. La Legge segnala l’esistenza di una soglia, di un limite che è impossibile valicare, riprendendo per altro una tradizione che sta all’origine dei testi biblici. E tuttavia, a differenza dei testi biblici, questo impossibile non si chiama Eden, ma incesto. Cosa significa? Significa che è impossibile per l’uomo fare esperienza di un godimento illimitato, che è il godimento della cosa materna. Questo godimento senza limiti è interdetto dalla Legge, la cui funzione è precisamente quella di introdurre il senso del limite come elemento costitutivo dell’esperienza umana. Nello stesso tempo, questo impossibile è ciò che paradossalmente apre la possibilità stessa del desiderio.Per venire al nostro caso, il diritto ad essere puniti è un diritto, senza dubbio. Tuttavia, per uno psicoanalista questa idea rischia sempre di scivolare verso un terreno che è quello del godimento sadico di chi esercita la punizione. Abbiamo avuto tutta una pedagogia autoritaria che il ’68 e il post ’68 ha giustamente decostruito e che non è il caso di recuperare perché si fonda su un’idea autoritaria e padronale della paternità. Per questa ragione, è importante che il bisogno di essere puniti venga sganciato dal fantasma sadico che di solito accompagna l’esercizio della punizione. Anche perché quest’ultimo genera quasi sempre una predisposizione masochista nel soggetto, che non è altro poi che una predisposizione volontaria alla servitù.
Il diritto ad essere puniti può invece essere interpretato così: ogni soggetto ha bisogno che questa costitutiva condizione di impossibilità venga evocata. Ogni soggetto deve imparare, insomma, che la dimensione della libertà non è quella dell’assenza di limiti. Gli educatori e il dispositivo discorsivo della scuola devono essere in grado di evocare questa interdizione senza tuttavia richiamare sulla scena il fantasma del padre autoritario. Non è compito facile, anche perché non basta pretendere il rispetto delle regole. Questa zona di impossibilità è qualcosa di molto più radicale e poco ha a che fare con il diritto e la giurisprudenza. Non a caso la psicoanalisi l’associa all’esperienza della castrazione. Ma questo episodio in realtà illumina molto bene un problema storico più generale: la difficoltà degli adulti e delle istituzioni a fare esistere questa zona di impossibilità, che poi è il senso del limite.
Lacan sosteneva che il dispositivo istituzionale, qualunque esso sia, ha sostanzialmente una funzione: quella di frenare il godimento. Bene. Nel nostro caso, è evidente che il godimento non è stato sufficientemente frenato. Nessuno si assume la responsabilità delle proprie azioni. Questo è un punto importante: in psicoanalisi l’etica non riguarda le intenzioni, ma le conseguenze del proprio agire. Ed uno dei problemi più gravi del nostro presente è proprio l’estinzione di questa forma di etica delle azioni. Tutti parlano e nessuno è responsabile di quello che dice. Basta pensare al nostro Presidente del consiglio e alle sue continue dichiarazioni, poi regolarmente smentite. Non esiste più etica delle conseguenze.
Da psicoanalista quale consiglio potrebbe dare a quel corpo docente?
Credo che quel corpo docente abbia commesso sostanzialmente due errori. Il primo è quello di non essere stato in grado di evocare il senso del limite, vale a dire l’esistenza di quella zona necessaria di impossibilità che, come è ho detto, è il freno del godimento; il secondo è quello di aver lasciata evasa la questione della responsabilità e di non avere così chiarito il legame che stringe ogni atto alle sue conseguenze. Quello che però è strano è che in questo caso sembra esserci stata una specularità simmetrica fra gli adulti, voglio dire fra insegnanti e genitori. Una sorta di collusione immaginaria destinata a sollevare i figli dalle loro responsabilità.
Va detto che oggi, di solito, accade esattamente il contrario. Questa alleanza fra genitori e professori non viene sostenuta perché i genitori tendono a fare le veci dei figli, frantumando così un elemento che invece andrebbe sempre mantenuto sul corretto asse simbolico: sto parlando della differenza generazionale. È una situazione simile a quanto accade oggi in molte famiglie quando, di fronte ai problemi dei figli, i genitori sostengono posizioni diverse; e di solito uno dei due fa le veci del figlio, rompendo così l’alleanza generazionale che, è bene ripeterlo, è invece un ingrediente decisivo per far crescere i figli.
Proviamo ora a collocare questo episodio circoscritto in una storia di lungo periodo. La scuola pubblica italiana, temo sia difficile negarlo, ha subito in questi ultimi decenni una progressiva perdita di prestigio sociale. Potremmo sostenere che è un’istituzione ormai scarsamente in grado di esercitare il potere di castrazione simbolica che le è proprio. Un sintomo macroscopico di “evaporazione del padre”. Ma indebolimento dell’autorità e indisciplina sono qualità che non contraddistinguono solo la scuola pubblica, ma la società italiana nel suo complesso. Sono in molti oggi a ritenere causa di questa radicale mutazione sociale i movimenti di contestazione del ’68. Personalmente ritengo invece che l’origine vada semmai cercata nella reazione delle nostre oligarchie politiche ed economiche alla forza d’urto all’anti-autoritarismo del lungo ’68 italiano. Se fosse plausibile questa lettura, l’indisciplina andrebbe letta come strategia di governo – come ben argomenta Giovanni Bottiroli in uno scritto compreso in volume da lei curato[2] – e non come semplice effetto della contestazione. Qual è la sua posizione a riguardo?
Domanda complessa a cui non so se saprò rispendere con sufficiente competenza. Partiamo dal concetto di indisciplina. In Non sorvegliati ed impuniti[3] Bottiroli introduce un’osservazione critica rispetto alla lettura foucaultiana del dispositivo istituzionale. A differenza di quanto crede Foucault, l’istituzione oggi non è più tanto l’agenzia del controllo sociale, quanto il luogo dove si misura la difficoltà a fare esistere quello che l’istituzione dovrebbe incarnare, vale a dire, per usare un’espressione di Lacan, il freno al godimento. Io non credo, come lei giustamente sostiene, che di questo processo il movimento del ’68 sia la causa. Il mio giudizio sull’esperienza di quegli anni resta infatti positivo, a differenza per esempio di Lacan che del ’68 ha dato invece un giudizio riduttivo.
Lacan sostiene che il ‘68 ha radicalmente frainteso significato della Legge e quindi funzione del padre; e da un certo punto di vista può essere anche vero. Tuttavia sono convinto che quel movimento abbia introdotto una necessaria discontinuità rispetto al “discorso del padrone”, a cui per altro la figura del padre era ancora tradizionalmente legata; questa discontinuità, è bene ricordarlo, è stata vissuta come possibilità della presa di parola, come partecipazione attiva delle nuove generazioni alla vita della comunità politica. Ed è precisamente questo lo spazio nuovo che il ’68 ha creato e sarebbe davvero ingiusto dimenticarlo. Senza la forza di quel movimento saremmo molto probabilmente ancora schiacciati dal “discorso del padrone” e dalle sue leggi sadiche. Lacan a questo punto però mi risponderebbe: il ’68 ha preparato il terreno per il “discorso del capitalista” perché la sua decostruzione della mitologia paterna ha aperto la strada a quanto Pasolini, in quegli stessi anni, avrebbe chiamato “il politeismo orizzontale” della società dei consumi.
A questo punto però bisogna intendersi. Il ’68 ha operato una rottura radicale rispetto alla tradizione teologica e borghese del pater familias. Una rottura traumatica, senza dubbio. Ma necessaria. Se letta a posteriori, questa rottura ha però permesso di riconsiderare, con occhi nuovi, temi come la continuità fra le generazioni, l’eredità, la tradizione. Con il ’68 si apre, insomma, la possibilità dell’assunzione soggettiva della propria provenienza. È il soggetto ora che, attraverso un atto di responsabilità e di conoscenza, deve capire che l’esistenza è sempre iscritta in un campo che la eccede, che la trascende. È un insegnamento fondamentale e che per altro aiuta a far maturare una sana avversione verso i falsi miti autogenerativi della soggettività, come il culto iper-moderno dell’indipendenza, dell’autonomia, dell’essere genitori di se stessi, etc… Tutte versioni immaginarie della libertà.
A distanza di anni, invece, è proprio l’esperienza del ‘68 che può aiutarci a riconsiderare l’insieme di questi problemi “paterni” (eredità, tradizione, continuità) cercando nuovi equilibri. Perché se è importante saper riconsiderare il senso della tradizione e della continuità rispetto alla propria provenienza – è il compito dell’esistenza – nello stesso tempo, sono altrettanto importanti la rottura con il familismo, lo strappo, l’elemento discontinuo della differenziazione, che è, in fondo, l’altro insegnamento fondamentale di quegli anni. Perché ci sia soggettivazione non basta semplicemente assumere su di sé il peso dell’eredità; per farla davvero propria è sempre necessario fare, contro di essa, un gesto eccentrico, una mossa di rottura, un passo traumatico di conflittualità discontinua. Con il ‘68 diventa chiaro infatti che il conflitto fra le generazioni è sano se produce differenza.
Per ragioni anagrafiche non ho personalmente partecipato al ’68. Però, qualche anno dopo, sono stato un giovanissimo militante di Lotta Continua. Avevo solo 16 anni quanto si è sciolta, a Rimini, nel 1977. Ho quindi fatto parte del movimento del ’77, ma, con il senno di poi, non posso non fare autocritica rispetto a questa esperienza. Lì abbiamo fallito anzitutto sull’atto dell’ereditare. Il rischio delle congiunture rivoluzionarie, come è stato sicuramente il ’68, e, almeno in parte, il ’77, è il fallimento dell’eredità per eccesso di rivolta. L’eccesso di rivolta accende il rifiuto dell’eredità, non la sua soggettivazione. Un rifiuto della castrazione, in fondo, nel nome di una libertà pretesa senza vincoli sociali e civili. Quello che a posteriori mi stupisce di quell’esperienza è infatti una totale assenza di pensiero istituzionale. L’istituzione, che in realtà è il freno al godimento e rappresenta dunque il veicolo della castrazione simbolica, veniva rigettata in quanto limite della libertà. Ed è, questo, un fraintendimento profondo, un fraintendimento di natura perversa. In questo caso specifico, la perversione sta nell’incapacità di pensare un’alleanza possibile fra legge e desiderio, identificando nella legge il nemico, l’ostacolo alla realizzazione del desiderio, assecondando così una visione che è quella del figlio bloccato dal fantasma edipico. Il movimento del ’77 voleva rompere il sistema o, quanto meno, costituirne un’alternativa. Ma in moltissimi casi quest’esigenza ha assunto toni talmente radicali da arrivare a coincidere con la pulsione di morte. Se pensiamo alle scelte estreme che ha compiuto la mia generazione, dal terrorismo all’eroina fino alle fughe in India, vediamo bene come l’esigenza di introdurre una discontinuità rispetto al sistema, non essendo vissuta in relazione all’assunzione dell’eredità, si sia trasformata senza ragionevolezza in una pura volontà di separazione e di annullamento. Stupisce il fatto che oggi, invece, ci si trovi di fronte al capovolgimento del problema: se per la mia generazione l’angoscia stava nel rischio di essere integrati, il disagio giovanile contemporaneo nasce all’opposto dal non sentirsi sufficientemente integrati nel principio di prestazione in cui, come Marcuse ci ha spiegato, si è ormai trasfigurato il principio di realtà. Non a caso la droga più comune oggi è la cocaina che agisce come una specie di protesi dell’Io, orientata a potenziare il principio di prestazione. Mentre l’eroina, che è stata la droga comune di una parte della mia generazione, è la sostanza che fa interrompere ogni forma di contatto con la realtà, consentendo un’illusoria uscita dal mondo.
Ma lei non crede che nella lettura di questi anni manchi sempre un attore altrettanto importante? Voglio dire, se la ribellione dei figli ha assunto toni così estremi non deriverà anche dal fatto che l’Italia dei padri di quegli anni, per tantissime e complicate ragioni – si pensi anche solo alla continuità istituzionale dello Stato con le strutture del fascismo – aveva una cultura istituzionale incapace di riconoscere il conflitto come normale e sano elemento di differenziazione fra le generazioni?
Non c’è dubbio. La storia di quegli anni andrebbe letta anche attraverso la figura della paternità. Voglio dire, per come questa figura è fallita non solo nell’atto dell’ereditarla, ma soprattutto nell’atto dell’esercitarla. Capovolgendo lo sguardo si può infatti sostenere che le nuove generazioni non sono riuscite ad ereditare e fare proprio il significato profondo di questa figura anche perché il suo esercizio non lo ha consentito. Pensiamo a come la paternità si è declinata a livello istituzionale. Nel regime democristiano la paternità è stata esercitata soprattutto come corruzione, stagnazione, immobilismo. Ripetiamolo: per la psicanalisi la paternità implica un’alleanza fra legge e desiderio. Nel nostro caso, la forma di potere che ci ha governato per mezzo secolo ha generato una Legge non animata dal desiderio. Tant’è che il desiderio è dovuto passare all’atto nel’68 per potersi manifestare. Perché non c’era, di fatto, alcuna trasmissione del desiderio. La Legge viveva schiacciata nella sua dimensione burocratica e coercitiva senza alcun contatto con la dimensione propulsiva, progettuale e visionaria del desiderio; una divaricazione molto grave, non c’è dubbio. Potremmo anche leggere il caso Moro con queste lenti psicanalitiche. In fondo Moro ha provato ad incarnare una figura mite di paternità, cercando, con il compromesso storico, di riattivare un’alleanza fra Legge e desiderio, nella direzione di un possibile, per quanto difficile o improbabile fosse, cambiamento del sistema. Il fatto che questo padre, che si poneva il problema della trasmissione, sia stato ucciso, mostra fino a che punto l’effetto simbolico della trasmissione aveva generato un rifiuto radicale come ritorno diretto nel Reale. Il terrorismo è precisamente questo: il passaggio al Reale. Perché il terrorismo non è solo la rivolta dei figli contro i padri; quest’ultima, infatti, rimane nell’ambito dell’Edipo e della nevrosi, diremmo clinicamente. Il terrorismo introduce una rottura nel Simbolico. Esprime la necessità di un passaggio all’atto portandoci così direttamente nell’ordine della psicosi paranoica.
Se veniamo all’oggi la situazione appare paradossalmente capovolta: viviamo governati da istituzioni deboli o impotenti, incapaci di frenare il Godimento e di attivare la spinta trasformatrice del Desiderio. Questo capovolgimento nasconde però una continuità di fondo perché stiamo subendo l’ennesima divaricazione fra Legge e Desiderio. Di fronte a questo nuovo scenario come dovranno agire, secondo lei, le nuove generazioni per non fallire ancora una volta l’atto dell’ereditare?
Credo che sia arrivato il momento di parlare, soprattutto per la nuova generazione, di un vero e proprio complesso di Telemaco. Edipo è stata la figura che ha messo in rilievo la funzione del padre come rivale, come ostacolo alla possibilità del godimento incestuoso. In questo contesto, il Desiderio poteva essere vissuto come trasgressione. In fondo il ’68, e anche il ’77, possono essere letti attraverso questa lente psicanalitica: da una parte abbiamo l’autoritarismo paterno, dall’altra l’esigenza dei figli di trasgredire la Legge. La condizione d’esistenza del padre Edipico è però il conflitto. E la novità dei nostri anni sembra essere proprio la mancanza di un conflitto simbolicamente strutturato fra le generazioni. Siamo in presenza così di una violenza erratica non più organizzata dall’Edipo. Con Quel che resta del padre ho provato a spiegare perché oggi il conflitto non è più centrale nella costituzione della soggettività. Per tante ragioni. Per esempio perché i genitori sono più angosciati dall’essere amati dai propri figli o dalle loro performances narcisistiche, piuttosto che dall’atto educativo, etc… Se questo è il quadro, è necessario introdurre una figura nuova che per altro spiega qualcosa, credo, del successo politico di figure come Pisapia o de Magistris, dove il voto giovanile è stato decisivo, soprattutto se si pensa che negli ultimi dieci anni, lo stesso voto è stato piuttosto orientato a destra, perché ipnotizzato dal berlusconismo, che è poi il miraggio della trasformazione del mondo attraverso la televisione. In questi ultimi mesi, invece, mi pare che si sia alzato un vento nuovo di cui i giovani sono i protagonisti. Il complesso di Telemaco ha a che fare con questa nuova esigenza di partecipazione politica che è, di fatto, una domanda di paternità. Non certo rivolta a vecchie forme autoritarie, che giustamente il ’68 ha decostruito. I giovani di oggi assomigliano a Telemaco che guarda il mare e che si aspetta che qualcosa dal mare torni. Certo, Telemaco si aspetta che dal mare tornino le vele gloriose della flotta invincibile del padre. Che dal mare, insomma, torni il padre eroe, sovrano, guerriero e carismatico. E invece Ulisse tornerà dal mare irriconoscibile, come un immigrato, un mendicante, un povero. Telemaco, in un primo momento, infatti, non lo riconosce. Ma è anche questa la lezione. Si può riconoscere il padre anche nel sorriso timido di un sindaco. Le nuove generazioni, insomma, sono alla ricerca non tanto di un padre eroico, quanto di un padre testimone. Di un padre cioè capace di mostrare, nella propria esperienza vissuta, la possibilità concreta di tenere saldi Legge e Desiderio.
Questa nuova figura di padre/testimone è al centro della sua lettura dell’ultimo romanzo di Cormac McCarthy: La strada. Cosa l’ha colpita in particolare di questo testo?
Il padre della Strada è un padre che sopravvive. Non è il padre che esercita il potere. Non è il padre che ha l’ultima parola sul senso della vita e della morte, sul bene e sul male, su ciò che è giusto e su ciò che non lo è. Il padre della Strada è un padre che sopravvive contro tutto. Fa una scelta diversa da quella della madre che decide di suicidarsi. E questa dimensione della sopravvivenza è una testimonianza. Per quanto la vita sia sprovvista di senso, bisogna continuare e andare avanti: bisogna desiderare la vita e quindi aprire possibilità. McCarthy descrive una metafora estrema ed agghiacciante del nostro tempo ipermoderno (cannibalismo, stupri, furti, violenze di ogni tipo) che è un tempo governato da un Godimento senza freni. Ma questa è precisamente una metafora di cos’è il tempo senza il padre. Il problema della Strada è quello di come fare esistere un padre in un epoca che si costituisce sulla sua evaporazione. La risposta di McCarthy è che un padre ha anzitutto il compito di sopravvivere. E che la sopravvivenza fa esistere un orizzonte. Importante è ovviamente il rapporto con il figlio. Quello che mi colpisce, come lacaniano, è che qui il punto centrale della dialettica del riconoscimento non è più il Nome, ma l’Atto. McCarthy mette in scena un riconoscimento che prende forme sensibili, materiali. Il padre si prende fisicamente cura del figlio. Una messa in valore delle azioni rispetto a quanto i lacaniani chiamano Nome del Padre, vale a dire la struttura simbolicamente pura della paternità. Nell’epoca in cui il Nome del Padre evapora, perché resti qualcosa del padre, è necessario che ci sia una sua incarnazione. È l’incarnazione che può far esistere di nuovo il valore del Nome. Questo per me è il passaggio centrale. E vale anche per la dimensione politica. Per riabilitare la dimensione simbolica dell’istituzione politica, oggi completamente screditata, c’è bisogno di testimonianza. Di una testimonianza però che arrivi fuori dalle istituzioni, magari da una sorta di terra di nessuno. Testimonianza di come un padre sperduto in un mondo senza Dio sia riuscito a sopravvivere e a non impazzire. Questa testimonianza può essere la condizione attraverso cui rendere di nuovo possibile l’evocazione del Nome del Padre. C’è un altro aspetto di questo romanzo che mi ha profondamente commosso: la cura che quest’uomo ha per suo figlio ha qualcosa a che fare con l’esistenza di Dio. Non stiamo certamente parlando del Dio teologico. Nel romanzo il padre dice: “Finche esiste un bambino, esiste la possibilità di Dio”. In questo caso, non è Dio che discende e si realizza nel mondo, si incarna e diventa bambino. Ma è la sola esistenza di un bambino che può far esistere Dio. Ancora una volta, si può recuperare il Nome del Padre solo attraverso l’atto singolare della testimonianza. E il bambino rappresenta il futuro, l’avvenire, l’andare a sud. Il bambino costringe l’apertura dell’orizzonte. E del resto lo sguardo di Telemaco, diversamente dalla cecità di Edipo, ha a che fare proprio con questa necessità di tornare a guardare l’orizzonte.
McCarthy, come del resto Philip Roth o Eastwood per il cinema, è un autore che potremmo credo, senza problemi, considerare come un “classicista moderno”. Nel Miracolo della forma[4] il suo campo d’indagine è stato la pittura contemporanea. Ma anche nella tradizione figurativa, per esempio nelle opere di Tapies come di Burri, ha cercato di valorizzare un’idea di arte come armonia fra forma e forza, fra tradizione e innovazione.
Ritengo che l’arte contemporanea abbia imboccato due vie egualmente sintomatiche. Una è quella del porre la forma staccata dalla forza. Una sorta di diuresi analitica della forza in una forma sempre più nebulizzata, astratta e concettuale. Un’arte che alla fine arriva a mostrare un mondo dove non c’è più niente di significativo da vedere. La forza e l’incandescenza della pulsione si è ridotta a niente. L’altra tendenza esprime un’esigenza opposta: forza senza forma. E questa volta abbiamo disgregazione, esplosione del testo, schizofrenia performativa, esibizionismo dell’orrore e così via. Io credo invece, contro queste due derive sintomatiche, che l’arte è potente solo se sa tenere insieme forza e forma. La grande arte, in modi diversissimi, e penso a Burri o Tàpies, ma anche a Cattelan nelle sue operazioni più raffinate, se sa fare questo rende l’opera un evento. Quello che io amo in McCarthy, ma anche negli altri autori che analizzo nel libro, è proprio la capacità di armonizzare forza e forma. Andrebbe sempre ricordato a vari teorici dell’informale, che la forma non è mai un esorcismo della forza, ma un modo di organizzarla per renderla potente.
[1] R. De Monticelli, La questione morale, Raffaello Cortina, Milano 2010, p.65
[2] G. Bottiroli, Non sorvegliati e impuniti. Sulla funzione sociale dell’indisciplina, in Forme contemporanee del totalitarismo, a cura di M. Recalcati, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[3] Ivi.
[4] M.Recalcati, Il miracolo della forma: per un’estetica psicanalitica, Bruno Mondadori, Milano 2007.
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