Un intervento di Matteo Vescovi sulla relazione valutativa e i test INVALSI uscito su Carmillaonline. In coda l’inchiesta di Silvia Di Fresco sulla chiusura di una piccola scuola e l’esclusione di chi ha di meno nell’Italia dei tecnocrati.
Silvia e Matteo, insieme a Girolamo De Michele miei amici e colleghi, sono diventati un costante punto di riferimento della scuola pubblica italiana più attiva, le penne capaci di esprimere il meglio di ciò che siamo. Hanno già scritto insieme L’arrestabile ascesa della scuola delle competenze e non li ringrazierò mai abbastanza.
I test scolastici sono un mezzo per misurare il grado di banalizzazione. Se lo studente ottiene il punteggio massimo, ciò è segno di una perfetta banalizzazione: lo studente è completamente prevedibile, e quindi può essere ammesso nella società. Non sarà fonte di sorprese, né di problemi.
Heinz Von Foerster
Che dalla voce di un Ministro “tecnico” di un governo “tecnico” non potessero che uscire elogi nei confronti di uno strumento anch’esso “tecnico” di valutazione “oggettiva” degli apprendimenti dei nostri studenti, certo non poteva stupirci. Come non ci ha stupito sentirlo tessere l’elogio di un sistema di valutazione finalmente “moderno” ed europeo che basandosi sulle evidenze di questi test possa fornire ai decisori gli strumenti necessari per conoscere e intervenire nel sistema di istruzione nazionale. Come non ci ha stupito nemmeno la sede squisitamente “tecnica” (un convegno organizzato dalle Fondazioni San Paolo e TreeLLLe) in cui queste affermazioni sono state rilasciate per la prima volta dal Ministro ai mezzi d’informazione.
Cerchiamo, però, di prendere in considerazione anche alcuni aspetti sgradevoli, ma purtroppo necessari quando si ha a che fare con “obsoleti” esseri umani e non con moderne tecnologie d’avanguardia.
Alcune ovvietà sulla relazione valutativa a scuola
Cominciamo esaminando alcuni aspetti generali della relazione valutativa [1]. Aspetti che ogni insegnante conosce bene anche se spesso rimangono sottintesi alla sua attività didattica. È evidente infatti che, prima ancora di qualunque riflessione sugli obiettivi e sulle metodologie, prima ancora delle griglie e delle scale alfanumeriche o delle strategie di correzione che fanno il mestiere dell’insegnare, l’attività di valutare è parte fondamentale della relazione educativa. Per essere più precisi, valutare è una dimensione dell’essere in relazione dato che in qualunque nostro atto comunicativo è insita una richiesta di riconoscimento e conferma da parte dell’altro a cui ci rivolgiamo. Si tratta di meta-messaggi che inviamo continuamente e a cui siamo continuamente invitati a rispondere e la domanda suona all’incirca così: “tu mi vedi come io mi vedo?”; la risposta implica appunto una nostra soggettivissima valutazione, che è di fondamentale importanza non solo per la tenuta della relazione con l’altro, ma evidentemente anche per l’apprendimento e lo sviluppo delle reciproche capacità individuali. Allargando ancora di più lo sguardo, potremmo dire che questo atto è fondante di qualunque interazione tra esseri viventi e potremmo addirittura arrivare a sostenere che l’essenza stessa del comunicare stia nel cercare risposta a questa esigenza di essere confermati dagli altri, senza la quale non ci sarebbe comunicazione in senso lato, né si potrebbero immaginare le innumerevoli attività sociali, ludiche e creative che giocano su questa esigenza.
A questo livello della comunicazione, dunque, il messaggio valutativo si riduce a tre contenuti: conferma, rifiuto, disconferma [2]. Ovvero: conferma: “sì ti vedo come tu mostri di vederti”; rifiuto: “no, non ti vedo come tu mostri di vederti”; disconferma: “non ho nessun interesse ad avere una relazione con te, tu non esisti”. È evidente quale peso questi tre tipi di messaggio abbiano all’interno della relazione educativa. Mentre i primi due alternandosi danno vita al circolo virtuoso che chiamiamo “educazione”, il terzo nelle sue possibili varianti ed erronee interpretazioni è all’origine dei conflitti educativi più difficili da risolvere e che spesso finiscono per portare all’interruzione della relazione educativa da parte dei ragazzi che possono finire anche per abbandonare gli studi.
La relazione valutativa nella scuola è reciproca
È innanzitutto a questo livello relazionale che va affrontato il tema della valutazione se vogliamo collocarlo pienamente nella sua dimensione umana e se vogliamo cercare di cogliere le sfere dell’emozione e della costruzione del Sé su cui influisce. I messaggi di conferma e rifiuto sono, infatti, essenziali per il consolidamento della propria identità in particolare nei ragazzi che stanno crescendo e che hanno un continuo bisogno di conferme. Valutare, quindi, significa prima di tutto essere in relazione e per questo la relazione valutativa non può essere considerata come una attività unidirezionale, ma sempre bidirezionale, o secondo il gergo della cibernetica “ricorsiva”. La relazione, infatti, produce catene di messaggi che ritornano verso l’emittente e ne condizionano i nuovi messaggi. Da questo punto di vista, quindi, anche la valutazione è bidirezionale, o meglio: produce una “ricorsività”. Gli studenti, infatti, fin dal primo momento in cui entriamo in classe valutano ogni nostro dettaglio e lo confrontano con il nostro modo di produrre il meta-messaggio “Io mi vedo così” che, come abbiamo detto, contiene già in sé la domanda: “tu mi vedi come io mi vedo?” La forza di questo sguardo su di noi influenza, senza che ce ne rendiamo pienamente conto, diversi aspetti del nostro comportamento, a partire dall’umore fino alla costruzione della lezione e del percorso didattico. Va da sé che noi facciamo lo stesso con loro a partire dal giudizio sulla loro presenza fisica (e c’è chi prende fin troppo sul serio questo tipo di valutazione considerandolo parte integrante del proprio ruolo di educatore-censore).
In ogni caso, questa reciprocità dello sguardo ci accompagna per tutto l’anno come valutazione implicita nella relazione che si è stretta tra docente, studenti e classe (intesa come gruppo che si influenza reciprocamente). Tutte queste dimensioni implicite della valutazione producono un continuo aggiustarsi delle esigenze e della fiducia reciproche che fanno la bellezza e la forza della relazione educativa che per questo definiamo di insegnamento-apprendimento. Bisogna, inoltre, sottolineare che questi meta-messaggi sono tanto più efficaci quanto più rimangono sottotraccia, mentre vengono alla luce solo nei momenti in cui si produce un conflitto e quindi si è costretti, volenti o nolenti, a prendere in considerazione anche questi aspetti di conferma, rifiuto e disconferma, di cui altrimenti si continuerebbe pigramente a tacere.
La valutazione si basa sulla fiducia e non sull’oggettività
In ogni caso, la relazione valutativa tipica della scuola ha delle sue specificità: la più evidente ovviamente è che siano previsti momenti di valutazione esplicita attraverso prove che indaghino la corrispondenza tra aspettative degli insegnanti e capacità raggiunte dagli studenti nei singoli percorsi didattici. Anche questa attività comunque non sfugge alla reciprocità, infatti, se è vero che noi valutiamo gli studenti, non si può sottovalutare il fatto che anche loro valutano noi che li abbiamo valutati e possono accettare o meno il giudizio che abbiamo formulato nei loro confronti. È evidente che l’accettazione o meno della validità della valutazione espressa non dipenderà tanto dal carattere più o meno “oggettivo” attraverso cui si è giunti alla formulazione di un giudizio, quanto piuttosto dalla fiducia che lo studente ripone nei nostri confronti; fiducia che dobbiamo meritare continuamente con il nostro lavoro e che ci spinge a chiarire il più possibile il significato delle nostre ipotesi valutative. Se la relazione tiene, se noi ci siamo sforzati di tenere conto dei meta-messaggi che lo studente ci ha inviato con il suo lavoro e se abbiamo cercato di spiegare il senso del nostro valutare, abbiamo buone probabilità di avere formulato delle ipotesi valutative che contengano un buon grado di attendibilità e possiamo quindi sperare che vengano accettate come delle occasioni per mettersi alla prova e migliorare.
La relazione valutativa nella scuola è asimmetrica
D’altro canto è evidente che seppure esiste una reciprocità nella valutazione, questa non può essere paritaria e simmetrica. Noi docenti in quanto adulti ed educatori siamo ovviamente su di un piano diverso essendo il ragazzo ancora minorenne o comunque un soggetto in formazione (per quanto riguarda gli ultimi anni delle superiori) che in quanto tale si sottopone ad un rapporto asimmetrico quale è quello dell’apprendista. Questa differenza fonda l’autorità del docente, sia come sua autorevolezza, sia come potere che gli viene dall’istituzione in cui opera e di cui è incarnazione. Il Ministero provvede a istituire percorsi di abilitazione che servono a dare credibilità a questo rapporto di autorità. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che la scuola di massa come istituzione presente in tutti gli Stati nazionali nasce nel XIX secolo per assolvere alla funzione di disciplinamento del cittadino e tale rimane la sua ossatura anche se il corpo vivo dell’istruzione è molto più ricco e aperto. Possiamo pensare la scuola, come ci suggerisce l’antropologa Marianella Sclavi, “un grande apparato coreografico entro il quale i giovani, quasi sempre inconsapevolmente e implicitamente, sono indotti a recitare una prova generale su come “normalmente” ci si aspetta che un cittadino si rapporti all’autorità pubblica e cosa i cittadini di quella data cultura e/o sottocultura possono e devono aspettarsi a loro volta da tali rapporti” [3].
La valutazione è politica
Altro aspetto della relazione valutativa da tener presente è che valutare significa formulare un ipotesi e, quindi, significa anche esporre se stesso al giudizio di chi riceve questa valutazione. Nel momento stesso in cui ci si espone valutando, dunque, si assume anche una responsabilità pubblica. È tutta la nostra persona che è coinvolta in questa attività, comprese le nostre convinzioni sul mondo, sulla società, sulla autorità, eccetera. La valutazione è, quindi, politica nel senso che attraverso di essa promuoviamo un modello di società e pertanto non possiamo aggrapparci a visioni tecnicistiche e asettiche della valutazione, che pretendono di essere moralmente irrilevanti e che sono soltanto gli alibi dietro cui si nascondono i pavidi o i manipolatori.
A questo punto, se teniamo nella giusta considerazione queste dimensioni relazionali della valutazione scolastica, risulta evidente come l’INVALSI, con tutti i suoi strumenti di misurazione e con la sua pretesa di valutare in modo standardizzato e oggettivo le “competenze” degli studenti di ogni ordine e grado, in realtà si proponga di entrare pesantemente nella relazione didattica ed educativa. La questione sarà allora: che tipo di relazione valutativa instaura l’INVALSI con gli studenti e che modello di autorità e di società promuove?
Testificazione delle menti, conformismo, autoritarismo
Insegnando quest’anno Italiano in una seconda superiore di un istituto tecnico (con un contratto precario che scadrà il 30 giugno p.v.), mi sono trovato di fronte il problema di come affrontare le imminenti prove Invalsi che dallo scorso anno vengono somministrate anche alle superiori, oltre che alle classi 2° e 5° elementare, 1° e 3° media. La cosa che mi incuriosiva di più era capire che tipo di atteggiamento questi ragazzi avevano sviluppato nei confronti delle prove con cui si sono già cimentati lungo la loro carriera scolastica ben quattro volte e in particolare in terza media quando si era trattato di una parte sostanziale dell’esame (il cui risultato pesa per circa il 15% della valutazione complessiva: tale e quale al voto di ammissione!). Mi sono scaricato le prove dello scorso anno dal sito dell’Invalsi e ho cercato un modo per far rientrare questi strumenti nella mia attività didattica. Ho scelto di lavorare solo su di una parte della prova, quella narrativa, che ci permetteva di continuare un percorso didattico già avviato sull’analisi del testo. Così, le domande a crocette dell’Invalsi sono diventate per noi uno degli strumenti per approfondire questa analisi. Nel frattempo, suscitando i ragazzi con qualche domanda, ho osservato le loro reazioni nei confronti di questo tipo di prove [4].
Il racconto utilizzato era compreso all’interno della prova di Italiano della classe II delle superiori del 2011. Si tratta di un racconto di Mario Rigoni Stern dal titolo Sulle nevi di gennaio. Non mi soffermerò sulla possibile analisi del racconto, né svolgerò una disamina dettagliata del test prodotto dall’Invalsi [5], cercherò invece di mostrare alcuni aspetti dell’atteggiamento con cui gli studenti si approcciano a questo tipo di prove e le possibili conseguenze sul piano della didattica e della costruzione dell’identità sociale del ragazzo.
Reciprocità verso la banalizzazione
Se, come abbiamo detto, anche l’Invalsi produce una sua relazione valutativa con gli studenti questa relazione sarà bidirezionale e ricorsiva. Infatti, gli studenti si allenano a capire cosa chiede l’Invalsi da loro e si dispongono nei confronti delle prove cercando conferma di questo loro apprendimento riguardo alle richieste del valutatore. Questa reciprocità della relazione valutativa è, però, orientata verso la banalizzazione [6].
Facciamo un esempio.
All’interno del racconto di Rigoni Stern che ripercorre l’eterna odissea della ritirata dei soldati dalla Russia, in un flashback dall’atmosfera onirica, viene descritto l’incontro sulle piste innevate dell’altopiano di Asiago tra una giovane sciatrice e un allievo ufficiale durante una libera uscita. La ragazza è caduta e il giovanotto, vedendola da lontano buffa e imbronciata, corre a soccorrerla. La ragazza si alza da terra e fugge senza ringraziare. Senonché i due si rincontrano in una baita e questa volta è lei a farsi avanti per scusarsi della maleducazione. L’ufficiale con molto tatto e savoir fair glissa sull’evento e la invita ad un ballo la sera stessa. Sono le ultime ore per il militare prima di partire per il fronte. Segue il racconto di questo incontro galante.
Riguardo a questo primo incontro, alla domanda numero B4 del test Invalsi si può leggere:
Perché la ragazza, quando il militare l’aiuta a rialzarsi, se ne va “senza dire grazie” (righe 30-31)?
A. Si vergogna del proprio aspetto
B. È seccata dall’invadenza del militare
C. È irritata con se stessa per essere caduta
D. Si è fatta male cadendo
Alla riga 30-31 del racconto si legge:
“Fu lui a scusarsi per averle dato una mano a risollevarsi sugli sci: lei, come fu in piedi, senza dire grazie riprese la discesa indispettita e crucciata.”
Successivamente alle righe 32-33:
“La rivide alla Casetta Rossa, dove con il plotone e un sergente erano entrati per bere vin brulé. Lei si era avvicinata per dirgli: – Mi scusi, ero proprio arrabbiata per quella stupida caduta.”
La domanda in sé non è priva di interesse, lo conferma il fatto che anche i miei studenti e in modo autonomo l’hanno formulata. Per cercare di rispondere dovremmo, analizzando il testo, fare alcune ipotesi sulla psicologia del personaggio. Sinteticamente possiamo dire che la reazione della ragazza sta ad indicarci un certo imbarazzo che probabilmente è dovuto sia al fatto di essersi fatta trovare in una situazione “buffa”, sia un senso di fastidio nei confronti di un bellimbusto di cadetto che con la scusa di aiutarla ribadisce gli stereotipi consunti della cavalleria che la ragazza istintivamente rifiuta. Nello stesso tempo, però, dovremmo immaginare che proprio questo primo brusco incontro faccia scoccare la scintilla tra i due, altrimenti non si spiegherebbe come mai sia proprio la ragazza ad avvicinarsi per scusarsi con il giovane di essersene andata via senza ringraziare (il che implica da parte sua un ripensamento abbastanza accurato dell’episodio appena vissuto). Il fatto che dica di “essersi arrabbiata” suona più come una giustificazione data ex-post per nascondere i veri sentimenti provati e certo non giustifica la sua fuga improvvisa. A ben vedere, delle quattro risposte proposte dal test la C è quella a cui forse dobbiamo credere di meno, in quanto si tratta di una vera e propria scusa che ha più il tono di un “non parliamone più”. Così per lo meno ha inteso l’allievo ufficiale che “mangiata la foglia” glissa e da vero galantuomo quale è coglie l’occasione per invitarla al ballo.
Contrariamente, quindi, a quanto anche una rapida analisi ci spinge a pensare di questo episodio, scopriamo che l’unica risposta considerata corretta dall’Invalsi è la risposta C “È irritata con se stessa per essere caduta”, ovvero la risposta più banale, quella che la ragazza dà per giustificarsi di fronte al giovane che l’ha già affascinata e, quindi, anche la motivazione a cui dobbiamo credere meno. Ma non ci si poteva attendere qualcosa di diverso visto che secondo gli obiettivi dell’Invalsi questa domanda servirebbe a testare la capacità dello studente di “Individuare informazioni date esplicitamente nel testo”. D’altronde, si può immaginare che se il giovanotto avesse preso per buona quella risposta “esplicita” della ragazza, come sembrano fare gli esimi tecnici dell’Ente Nazionale, probabilmente avrebbe mancato totalmente il senso del messaggio e avrebbe cominciato a parlare a vanvera dell’essere arrabbiati con se stessi, trasformandosi in un verboso e impacciato personaggio di Woody Allen e perdendo l’occasione di ottenere il suo primo appuntamento con la graziosa sciatrice.
Ad onor del vero, devo dire che al momento della correzione dei test è risultato che in entrambe le classi praticamente tutti hanno risposto “correttamente” C a questa domanda e solo pochi hanno cercato di articolare altre ipotesi. Si tratta, inoltre, di un risultato che è coerente con quello nazionale, dove ben l’87,9% degli studenti italiani ha risposto “correttamente” a questa domanda. È una delle percentuali più alte di risposta “corretta” tra tutte le domande riguardanti il testo narrativo (seconda solo alla domanda: “L’ufficiale e la ragazza si incontrano sulle piste da sci: vero o falso?”) [7].
Cosa ne possiamo dedurre? Forse è vero che uno studente di 15 anni ancora pensa che l’“essere arrabbiati con se stessi” possa essere la vera motivazione della ragazza e che non ci sia altro da aggiungere. In ogni caso, anche accettando questa ipotesi, è evidente che questo dovrebbe essere il punto da cui partire per cercare di approfondire l’analisi svolgendo con gli studenti la riflessione di cui sopra. Anche in fase di valutazione, infatti, uno degli elementi che può spingere ad alzare o abbassare il voto è proprio la capacità di andare oltre questo primo livello.
L’Invalsi, invece, trasforma questa affermazione poco credibile nell’unica risposta corretta e quindi anche nell’unica motivazione possibile di quel gesto, cancellando quindi tutta la delicata ironia con cui ci viene raccontato l’incontro tra i due.
Ma cosa comporta e cosa ci rivela questa scelta? Perché i ragazzi rispondono “correttamente” anche quelli che, se lasciati liberi di esprimesi, hanno saputo andare oltre questo primo livello?
Dopo averne discusso con loro direi che gli atteggiamenti possibili sono raggruppali in tre tipologie:
1) “Si sa che sono tutte vere, ma la C è la più vera di tutte!”
2) “Prima avevo pensato che potevano esserci anche altre risposte vere, ma poi ho capito che la C era quella giusta”
3) “Lo so che ci sono anche altre risposte vere, ma so anche che di solito l’Invalsi mi chiede la risposta più superficiale, quindi è C”
Il primo tipo di atteggiamento è quello più intuitivo e brutale dovuto all’allenamento ripetuto a questo tipo di prove e che non ha prodotto nel ragazzo nessuna consapevolezza, ma lo ha addestrato a non preoccuparsi delle complicazioni e puntare su quella che appare come la risposta “più vera”. Alla mia richiesta di spiegare perché fosse proprio quella la risposta corretta, non hanno saputo rispondere o hanno risposto semplicemente “è quello che dice la ragazza”.
Il secondo atteggiamento, invece, è meno pacificato, siamo in ambito di autocastrazione (o come direbbe Augusto Boal [8]: dei “poliziotti nella testa”). È particolarmente interessante il caso di uno studente che aveva assunto questo atteggiamento dopo essersi confrontato con altri compagni più risoluti nell’atteggiamento 1 e che quindi avevano finito per tacitarlo. È possibile che anche nel momento della compilazione individuale agiscano in questi ragazzi delle spinte contrastanti e non conciliate. Infatti, è chiaro che lo studente vorrebbe poter esprimere qualcosa in più, ma è anche convinto della bontà del test che gli viene sottoposto e cerca di conciliare senza riuscirci l’esigenza di essere confermati dall’esaminatore con una capacità e sensibilità già sviluppata in altra direzione. Questo atteggiamento se non si risolve verso l’atteggiamento 3 può provocare forte frustrazione e senso di inadeguatezza.
Il terzo atteggiamento, invece, è quello più consapevole. Qui siamo di fronte a quei ragazzi che, per così dire, “prendono 10 al compito di grammatica” e quindi giustamente desiderano prendere 10 anche nell’Invalsi. Questi ragazzi che spesso nell’esercizio di comprensione e analisi hanno saputo argomentare le possibili interpretazioni psicologiche di questa situazione, hanno finito poi per cancellare quelle riflessioni senza grande preoccupazione individuando facilmente l’opzione richiesta dall’Invalsi. Questo perché, essendosi esercitati a lungo per l’esame di terza media, hanno acquisito le “competenze” necessarie per affrontare la prova. Questo atteggiamento comporta, se portato all’estremo, una distorsione della relazione didattica verso una visione cinica del rapporto con l’autorità. Si sa, infatti, che la verità è un’altra o tante altre, ma non ci si preoccupa più di affermarla.
Altro che “certificare le competenze”, l’unica cosa che questi tipi di test possono misurare è il grado di testificazione raggiunto dagli esaminati. Benché si tratti di un solo esempio, mi sembra comunque che possa confermare l’affermazione di Heinz Von Foerster, un teorico americano del costruttivismo, secondo cui «I test scolastici sono un mezzo per misurare il grado di banalizzazione. Se lo studente ottiene il punteggio massimo, ciò è segno di una perfetta banalizzazione: lo studente è completamente prevedibile, e quindi può essere ammesso nella società. Non sarà fonte di sorprese, né di problemi» [9].
Esproprio di autorità
Se, quindi, l’Invalsi costruisce con gli studenti una sua particolare relazione valutativa verso la banalizzazione, questa relazione valutativa sarà sostenuta anche da una istanza di autorità. Questo produce sotterraneamente un vero e proprio esproprio nei confronti dell’autorità del docente, innanzitutto perché lo priva del significato di alcuni fondamentali strumenti del mestiere, come appunto una valutazione di tipo soggettivo e dialogico, promuovendo un modello di valutazione “standard” e “oggettiva”. Inoltre, se utilizzati per indagare le competenze degli alunni finiscono per appiattire la valutazione stessa. Alcuni ragazzi della classe B, infatti, che nelle domande aperte hanno dimostrato di non aver speso molte energie per comprendere il testo e sono risultati insufficienti, hanno comunque svolto il test in modo non dissimile dalla media degli altri studenti, nascondendo di fatto una delle dimensioni che per la valutazione delle competenze (ammesso che si possano valutare) è fondamentale come “l’Impegno” [10].
Ancora più importante, però, è la questione affrontata a livello relazionale. Ritornando all’attività svolta con la classe A, devo ammettere che il percorso si è dovuto interrompere a metà, nella fase di rielaborazione delle risposte scelte. Mi sono reso conto, infatti, che solo una parte della classe continuava a seguirmi nel tentativo di ampliare la riflessione sforzandosi di capire perché i gruppi avevano risposto in modo differente e stabilendo insieme quali risposte ci apparivano ancora plausibili e quali, invece, sarebbe stato meglio scartare. Mentre con una parte della classe svolgevo questo lavoro di confronto e analisi in modo un po’ faticoso, un’altra metà si disinteressava sempre di più e si rifiutava di partecipare, tanto che ho interrotto la lezione e ho deciso di proseguire in modo meno dialogante. Questo insuccesso parziale mi ha spinto poi a lavorare diversamente con la seconda classe.
Ripensandoci a mente fredda mi sono reso conto che quella parte della classe mi stava dicendo: “Basta prof.! Non capisco cosa vuole ancora? La risposta giusta per me è questa. E adesso cosa dobbiamo dire ancora?”. Insomma, mi sono reso conto di essere entrato in competizione con l’autorità dell’Invalsi che sosteneva (e loro ne erano ben consapevoli) che una sola è la risposta giusta. Così, nella competizione risultavo perdente, perché la mia richiesta era più impegnativa, mentre quella dell’Invalsi più facile perché giocata al ribasso, verso la banalizzazione.
Questa competizione, non solo tra due proposte didattiche ma anche tra due modelli di autorità, si realizza in un vero e proprio esproprio il giorno della somministrazione delle prove. Infatti, come richiederebbe per esigenze “statistiche” e “scientifiche” l’Invalsi nel suo Manuale del somministratore: “Il somministratore non deve essere né un insegnante di classe né, possibilmente, della materia” [11]. Per cui il docente di Italiano o Matematica esce ed entra il collega somministratore. A questo punto anche noi docenti siamo caduti sotto l’autorità dell’Invalsi e siamo invischiati in un rapporto di minorità nei suoi confronti.
Quale modello di società?
Non dimentichiamo che la valutazione è politica. Con il suo modo di valutare l’insegnante, ma anche il Consiglio di classe e la Scuola in generale, promuovono un modello di autorità e un tipo di società. Ma qual è il modello promosso dall’Invalsi?
Nella classe B come ultima attività mi ero ripromesso di consegnare ai ragazzi i test simulando la situazione in cui si sarebbero trovati il giorno della prova. Quindi, entrato in classe mi sono attenuto alle regole del somministratore, ovvero:
Regole generali per la conduzione della somministrazione:
NON risponda alle eventuali richieste di aiuto degli alunni sulle domande delle prove cognitive.
NON dia alcuna informazione aggiuntiva, indicazione o suggerimento relativamente al contenuto di alcuna delle domande della Prova.
LA MIGLIORE RISPOSTA da dare a qualunque richiesta di aiuto è: “Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda. Se ti può essere utile, rileggi le istruzioni e scegli la risposta che ti sembra migliore” [12].
Forse non sarò stato così gentile da dire “Mi dispiace ma non posso..” come indicava il manuale, in ogni caso gli studenti hanno percepito chiaramente il cambiamento di regime. Alcuni si sono lamentati altri hanno tentato inutilmente di carpirmi qualche informazione. Io continuavo imperterrito a negarmi. Quando ho terminato anche la correzione delle prove ed è suonata la campanella, mi sono fatto riconsegnare i test. Un gruppetto si era fermato per discutere un po’ sul senso di alcune domande e abbiamo continuato un dialogo che mi è stato molto utile per capire il tipo di atteggiamento che avevano nei confronti di queste prove. Per ultimo è venuto a consegnare il compito un ragazzo un po’ imbarazzato e timoroso. Si tratta di un alunno molto educato e gentile, sempre piuttosto attento e diligente, mediamente interessato e rispettoso. In una classe in cui potrebbe succedere di tutto (mi capisce chi insegna nel biennio di un tecnico o un professionale) questo ragazzo è uno dei pochi che rimane sempre impassibile. Per questo non ho motivo di non fidarmi di lui. Insomma, mi consegna il compito e mi confessa di aver svolto solo metà della verifica. Gli chiedo perché e mi mostra la pagina bianca sul retro di una fotocopia sbagliata. «Ma perché non me l’hai detto subito?» faccio io tra il dispiaciuto e lo scocciato. «Ma prof, lei aveva detto che si sarebbe arrabbiato se noi le avessimo chiesto qualcosa!»
Certo si tratta di un episodio, ma la dice lunga su quale tipo di stress producono negli alunni queste modalità di verifica e che messaggio passa attraverso questi strumenti che vengono presentati come “strumento tecnici”, innocui, ma che invece riattivano, attraverso la spersonalizzano della relazione didattica, un tipo di autoritarismo che è sempre latente nell’Istituzione e che si era pensato di avere ormai messo da parte. Per il ragazzo era stata così forte l’istanza di comando che si era paralizzato e non era riuscito nemmeno a chiedere la seconda parte della verifica. E se questa suggestione così forte è stata provocata dall’insegnante della materia in uno studente di seconda superiore, pensate quale suggestione possa avere il “somministratore” che è un docente esterno che entra in classe in una situazione di sospensione di tutte le normali attività didattiche, tanto più se queste prove avranno qualche tipo di ricaduta sulla valutazione individuale dello studente.
Per farla breve, questi strumenti, presentati come banalmente “oggettivi”, in realtà sono dispositivi disciplinari che ripristinano il vecchio autoritarismo della scuola fascista. Il fascismo algido dei tecnocrati, ma pur sempre cieco e ottuso, come ogni fascismo.
“Ho cambiato idea, ora credo che il male non sia mai radicale, ma estremo. E che non possieda né profondità, né spessore demoniaco. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Il male sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di andare in profondità, di toccare le radici, e nel momento in cui si occupa del male è frustrato perché non trova niente. Questa è la sua banalità”. Hannah Arendt
P.S. ovviamente è possibile anche un quarto atteggiamento degli studenti nei confronti delle prove Invalsi ed è quello ben rappresentato dalle ragazze e dai ragazzi di Trieste in questo video. Valutati, non schedati!
Note al testo
[1] Per un’analisi approfondita della relazione valutativa si vedano le riflessioni nate a partire dal 1994 nell’ambito del movimento che si è definito “autoriforma gentile della scuola”; nato proprio a partire dal rifiuto delle prime schede di valutazione delle scuole elementari e medie, ha continuato fino al 2008 la sua attività di riflessione e promozione di pratiche didattiche per un cambiamento del fare scuola che nascesse dal sapere degli insegnanti e degli studenti e non fosse calato dall’alto. In particolare le pubblicazioni: Chi valuta chi e perché, atti dell’incontro Facolta di Magistero Universita degli studi Bologna, 8 ottobre 1995, Milano 1996; Antonietta Lelario, Vita Cosentino, Guido Armellini, Buone notizie dalla scuola – Fatti e parole del movimento di autoriforma, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1998. Articoli tratti da queste pubblicazioni sono reperibili nel sito CESP di Bologna: http://www.cespbo.it/testi/2012_2/resistenza.htm.
[2] Si veda Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D., Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971, pag 73 e seguenti.
[3] Marianella Sclavi, A una spanna da terra, una giornata di scuola negli Stati Uniti e in Italia e i fondamenti di una metodologia umoristica, Bruno Mondadori, Milano 2005, pag. 1.
[4] L’attività è stata svolta in due classi di 2° superiore di un Istituto tecnico. In entrambe abbiamo analizzato il racconto di Mario Rigoni Stern “Sulle nevi di gennaio”. Dopo una mia breve introduzione sulla vita e sulle opere dell’autore abbiamo letto il testo. In fase di analisi, con la prima classe (che chiamerò A) hanno lavorato in gruppo a partire dalle domande del test invalsi. Nella prima parte dell’attività ogni componente del gruppo doveva dire quale secondo lui era la risposta corretta tra quelle indicate dall’Invalsi e in caso di risposte divergenti all’interno del gruppo ho invitato a mantenerle tutte e a cercare di spiegare la motivazione per cui poteva apparire corretta una risposta piuttosto che un’altra. Nella fase di restituzione ogni risposta tra quelle possibili del test Invalsi è stata analizzata, valutata e motivata dai ragazzi. Alcune sono state scartate come palesemente false o inverosimili, altre sono state mantenute come possibili interpretazioni alternative, altre come risposte complementari e non in contraddizione tra loro. Come verifica del lavoro svolto ho fatto scrivere loro un tema. In realtà, questo metodo di lavoro si è rivelato eccessivamente dispendioso di energie per i motivi che indicherò più avanti, per questo con la seconda classe (che chiamerò B) ho deciso di affrontare il lavoro di analisi in modo diverso. Dopo l’introduzione e la lettura dello stesso racconto, ho suddiviso la classe in gruppi e fatto produrre loro le domande di analisi del testo, metodo che si è rivelato molto più fruttuoso in quanto ha permesso ai ragazzi di ragionare liberamente sul testo e ha spinto ad un confronto vero, nel quale le incertezze sulla comprensione degli elementi di base dell’intreccio sono stati risolti attraverso il confronto tra pari e le domande prodotte hanno riguardato, invece, alcuni aspetti interpretativi di maggiore interesse. Le domande prodotte sono state poi raccolte alla lavagna e raggruppate secondo tre tipologie: domande riguardanti la fabula e l’intreccio, domande sui personaggi, domande sull’autore e sul senso del racconto. A queste domande ognuno ha dovuto rispondere facendo riferimento agli elementi del testo; i testi prodotti sono stati corretti e valutati. Dopo il lavoro svolto attraverso le domande a risposta aperta ho somministrato loro il test Invalsi che è servito come esercitazione e come spunto di riflessione sulle due modalità di verifica.
[5] Per l’analisi rimando a Girolamo De Michele, Salvate il soldato Rigoni Stern.
[6] Per quanto mi riguarda limito questa affermazione alla sfera delle materie umanistiche (o scienze dell’interpretazione) ma ad un risultato simile sono arrivati anche professori Universitari di Matematica finlandesi (paese che si colloca da anni al primo posto nelle classifiche OCSE-PISA) si veda qui e qui.
[7] http://www.invalsi.it/snv1011/documenti/Rapporto_SNV%202010-11_e_Prova_nazionale_2011.pdf
[8] Augusto Boal, Il poliziotto e la maschera, giochi, esercizi e tecniche del Teatro dell’Oppresso, ed. La meridiana, Molfetta 2009.
[9] Heinz Von Foerster, Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma 1987 pag. 130.
[10] Vedi Silvia Di Fresco, Dalla formazione all’informazione: il mito delle competenze.
[11] www.invalsi.it/snv2012/documenti/istruzioni/Manuale_somministratore_SNV_2011_12.pdf , pag. 26 n. 17.
[12] Ivi, pag. 7.
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=SaM8FJ5UDEQ]
Il binario morto della scuola italiana
di Silvia Di fresco
Studiano, sono una bella classe terza, probabilmente saranno promossi, ma sono solo 13: il Provveditorato nega fin d’ora la continuazione del loro percorso di studi
Mercoledì 9 maggio 2012, alle ore 10.40, è accaduto, all’IIS Fantini di Vergato, un fatto inquietante.
La classe III Grafica si stava preparando, insieme alla prof.ssa di storia dell’arte, all’esame di qualifica che si terrà tra 10 giorni quando, la dirigente, è entrata in aula con un plico di lettere. «Dovete darle ai vostri genitori, c’è scritto che, a causa del numero esiguo, in questa scuola non verrà concessa dal provveditorato la IV. Dovrete quindi iscrivervi in un altro istituto o…». Marika inizia a piangere. Linda trattiene l’emozione. Debora si arrabbia e chiede spiegazioni. La preside chiarisce che non c’è alcuna possibilità, i numeri parlano chiaro. Debora ribatte che loro non sono numeri, sono persone. Viene organizzata un’assemblea di classe straordinaria e, insieme ai rappresentanti d’Istituto, viene scritta una lettera al provveditore di Bologna Martinez. Ancora una volta si chiede perché, qual è la ragione che impedirà loro di avere il futuro che vorrebbero. Poi, insieme ai genitori, il pomeriggio del giorno successivo, gli studenti si recano in Provveditorato, ma la risposta, anche se più elusiva, è la stessa: non ci sono i numeri. Bizzarro, mi pareva di aver letto nella Costituzione che «la scuola è aperta a tutti» (Art. 34)…
Purtroppo la situazione della Scuola Pubblica è tale che, in città, nessuno si stupisce. Il DPR 81/2009 parla chiaro: non si possono costituire classi con un numero medio inferiore a 22, quindi, ci dice il MIUR, essendo senza dubbio 13 una cifra più bassa di 22, la III grafica non ha il diritto di esistere e deve estinguersi. Non si tiene però conto che, di quei tredici, i più vivono in paesini circostanti i cui mezzi di trasporto non consentono di raggiungere Bologna, ovvero il luogo più vicino in cui è situato l’indirizzo scolastico omologo. Questo significa che, verosimilmente, 10 di loro abbandoneranno gli studi, studi che, a sentir sempre la Costituzione, dovrebbero essere un diritto. La volontà politica che il provveditorato manifesta con tale azione non è l’applicazione di un semplice atto burocratico, bensì l’eliminazione istituzionale di una classe perfettamente in corso, con tutto ciò che ne consegue. Ma l’articolo 3 non dice che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»? Imporre, a livello istituzionale, a dei ragazzi minorenni di abbandonare il proprio percorso scolastico non è forse impedirne il pieno sviluppo? Ma la Repubblica doveva rimuovere gli ostacoli o crearne?
In questi ultimi giorni si fa un gran parlare dell’importanza di diffondere nelle scuole la cultura della valutazione. Forse, invece, è il caso di diffondere, in primis al MIUR, il valore dell’istruzione. Il Paese, composto da persone e non da numeri, non può assolutamente permettersi di rinunciarvi. Quindi, vi e mi domando: dobbiamo accettare tutto nel silenzio anche questa volta? Tolleriamo che sopprimano una classe che vorrebbe semplicemente completare il proprio piano di studi? Possiamo permettere l’eliminazione burocratica del percorso scolastico di questi 13 ragazze e ragazzi?
Tratto da http://www.carmillaonline.com/archives/2012/05/004302.html
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