Maximilien Robespierre, Sul processo del re (Sur le procès du roi). Louis Antoine de Saint Just, Sur le jugement de Louis XVI

by gabriella

Il discorso sul giudizio di Louis XVI pronunciato da Robespierre alla Convenzione il 3 dicembre 1792, è uno dei capolavori dell’oratoria politica di tutti i tempi. L’originale francese è in coda alla traduzione italiana. Segue quello di  Saint-Just del 13 novembre [non tradotto].

Que cet événement mémorable soit consacré par un monument destiné à nourrir dans le coeur des peuples le sentiment de leurs droits et l’horreur des tyrans ; et, dans l’âme des tyrans, la terreur salutaire de la justice du peuple.

Maximilien Robespierre

Cittadini,

L’assemblea è stata condotta a sua insaputa lontano dalla vera questione. Qui non c’è affatto un processo da fare. Luigi non è affatto un accusato. Voi non siete dei giudici. Voi non siete, non potete che essere degli uomini di stato e i rappresentanti della nazione. Non avete affatto una sentenza da dare per o contro un uomo, ma una misura di salute pubblica da prendere, un atto di previdenza nazionale da esercitare.

Un re detronizzato, nella repubblica non è buono che a due scopi: o a turbare la tranquillità dello stato e a spezzarne la libertà o a fare l’una e l’altra insieme. Ora, io sostengo che la caratteristica che ha preso fin qui la vostra deliberazione, va direttamente contro lo scopo. In effetti, qual è la decisione che la sana politica prescrive per cementare la repubblica nascente? E’ di incidere profondamente nei cuori il disprezzo della monarchia e di impressionare tutti i partigiani del re.

Pertanto, presentare a tutto il mondo il suo delitto come un problema, fare della sua causa l’oggetto della discussione più impegnativa, più sacra, più difficile alla quale possano accingersi i rappresentanti dei popolo francese, mettere una distanza incommensurabile fra il ricordo di ciò che egli fu e la semplice dignità di un cittadino, significa precisamente aver trovato il segreto per renderlo ancora pericoloso per la libertà.

Luigi fu re, e la repubblica è stata fondata; la famosa questione che vi impegna è decisa da queste sole parole. Luigi è stato detronizzato per i suoi delitti; Luigi ha denunciato il popolo francese come ribelle e ha chiamato in suo aiuto per castigarlo, le armi dei confratelli tiranni. La vittoria del popolo ha deciso che soltanto lui era ribelle. Luigi non può dunque essere giudicato: è già condannato, o la repubblica non è affatto assolta. 

Proporre di fare il processo a Luigi XVI in questa o quella maniera, vuol dire retrocedere verso il dispotismo monarchico e costituzionale; è un’idea controrivoluzíonaria, poiché mette in discussione la rivoluzione stessa. In effetti se Luigi può essere ancora oggetto di un processo, Luigi può essere assolto; può essere innocente. Cosa dico? E’ supposto innocente fino a che non sia stato giudicato. Ma se Luigi viene assolto, se Luigi può essere supposto innocente, che ne è della rivoluzione? Se Luigi è innocente, tutti i difensori della libertà diventano dei calunniatori. Tutti i ribelli erano dunque amici della verità e difensori dell’innocenza oppressa; tutti i manifesti delle corti straniere sono legittime proteste contro una fazione dominante. La stessa detenzione che Luigi ha subito finora è un’ingiusta vessazione. I federati, il popolo di Parigi, tutti i patrioti della nazione francese sono i veri colpevoli. li grande processo che è in corso al tribunale della natura fra il delitto e la virtù, fra la libertà e la tirannia, vien deciso una buona volta a favore dei delitto e della tirannia. Cittadini, state in guardia; su questo punto voi venite ingannati da false nozioni; confondete le regole del diritto civile e positivo coi principi del diritto delle genti; confondete le relazioni dei cittadini fra di loro coi rapporti della nazione verso un nemico che cospira contro di lei, confondete ancora la situazione di un popolo in fase rivoluzionaria con quella di un popolo il cui governo sia saldamente affermato; confondete una nazione che punisce un funzionario pubblico mantenendo la stessa forma di governo con quella che distrugge il governo. […]

Quando una nazione è stata costretta a ricorrere al diritto di insurrezione, essa rientra nello stato di natura nei confronti del tiranno. […] Il processo al tiranno è l’insurrezione; il suo giudizio è la caduta della sua potenza, la sua pena è quella richiesta dalla libertà del popolo. […]

I popoli non giudicano come le corti giudiziarie, non emettono sentenze: lanciano la loro folgore; non condannano i re: li piombano nel nulla. Questa giustizia vale quanto quella dei tribunali. Se i popoli si armano contro i loro oppressori per la propria salvezza, come possono essere tenuti ad adottare un modo di punirli che sarebbe un nuovo pericolo per essi?

Ci siamo lasciati indurre in errore da esempi stranieri che non hanno nulla a che fare con noi. Che Cromwell abbia fatto giudicare Carlo I da un tribunale di cui poteva disporre, che Elisabetta abbia fatto condannare Maria di Scozia nella stessa maniera, è naturale: i tiranni che sacrificano i loro simili non al popolo, ma alla loro ambizione, cercano naturalmente di ingannare l’opinione dei volgo mediante forme illusorie. In questo caso non sono in questione né principi, né la libertà, ma la furberia e gli intrighi. Ma il popolo! quale altra legge può seguire il popolo se non quella della giustizia e della ragione sostenute dalla sua onnipotenza? […]

Quanto a me abborro la pena di morte istituita dalle vostre leggi e non ho per Luigi né amore né odio. odio solo i suoi delitti. lo ho chiesto l’abolizione della pena di morte all’assemblea che chiamate ancora costituente e non è colpa mia se i primi principi della ragione le sono sembrati eresie morali e politiche. Ma se voi non vi siete mai sognati di reclamarli in favore di tanti poveri diavoli i cui delitti sono meno imputabili a loro che al governo, per quale fatalità ve ne ricordate soltanto quando si tratta di patrocinare la causa del più grande dei criminali? Chiedete un’eccezione alla pena di morte proprio per il solo caso che può legittimarla? SI, la pena di morte in generale è un delitto e ciò per l’unica ragione che essa non può essere giustificata in base ai principi indistruttibili della natura, salvo il caso in cui sia necessaria alla sicurezza degli individui o dei corpo sociale. Ebbene, la sicurezza pubblica non lo richiede mai contro i delitti ordinari, perché la società può sempre prevenirli con altri mezzi e mettere il colpevole nell’impossibilità di nuocerle. Ma quando si tratta di un re detronizzato nel cuore di una rivoluzione tutt’altro che consolidata dalle leggi, di un re il cui solo nome attira la piaga della guerra sulla nazione agitata, né la prigione, né l’esilio, possono rendere la sua esistenza indifferente alla felicità pubblica, e questa crudele eccezione alle leggi ordinarie che la giustizia ammette può essere imputata soltanto alla natura dei suoi delitti. lo pronuncio con rincrescimento questa fatale verità.

lo vi propongo di decidere seduta stante la sorte di Luigi. Per lui, io chiedo che la Convenzione lo dichiari da questo momento traditore della nazione francese e criminale verso l’umanità; chiedo che essa dia al mondo un grande esempio nello stesso luogo dove sono motti il 10 agosto i generosi martiri della libertà. lo chiedo che questo memorabile avvenimento sia consacrato da un monumento destinato a nutrire nel cuore dei popoli il sentimento dei loro diritti e l’orrore dei tiranni, e nell’anima dei tiranni il terrore salutare della giustizia dei popolo.

Maximilien Robespierre

Citoyens,

robespierreL’assemblée a été entraînée, à son insu, loin de la véritable question. Il n’y a point ici de procès à faire. Louis n’est point un accusé. Vous n’êtes point des juges. Vous n’êtes, vous ne pouvez être que des hommes d’État, et les représentants de la nation. Vous n’avez point une sentence à rendre pour ou contre un homme, mais une mesure de salut public à prendre, un acte de providence nationale à exercer.

Un roi détrôné, dans la république, n’est bon qu’à deux usages : ou à troubler la tranquillité de l’État et à ébranler la liberté, ou à affermir l’une et l’autre à la fois. Or, je soutiens que le caractère qu’a pris jusqu’ici votre délibération va directement contre ce but. En effet, quel est le parti que la saine politique prescrit pour cimenter la république naissante ? C’est de graver profondément dans les cœurs le mépris de la royauté, et de frapper de stupeur tous les partisans du roi.

Donc, présenter à l’univers son crime comme un problème, sa cause comme l’objet de la discussion la plus imposante, la plus religieuse, la plus difficile qui puisse occuper les représentants du peuple français ; mettre une distance incommensurable entre le seul souvenir de ce qu’il fut, et la dignité d’un citoyen, c’est précisément avoir trouvé le secret de le rendre encore dangereux à la liberté.

Louis fut roi, et la république est fondée : la question fameuse qui vous occupe est décidée par ces seuls mots. Louis a été détrôné par ses crimes : Louis dénonçait le peuple français comme rebelle : il a appelé, pour le châtier, les armes des tyrans ses confrères ; la victoire et le peuple ont décidé que lui seul était rebelle : Louis ne peut donc être jugé : il est déjà condamné, ou la république n’est point absoute.

Proposer de faire le procès à Louis XVI, de quelque manière que ce puisse être, c’est rétrograder vers le despotisme royal et constitutionnel ; c’est une idée contre-révolutionnaire, car c’est mettre la révolution elle-même en litige. En effet, si Louis peut être encore l’objet d’un procès, il peut être absous ; il peut être innocent : que dis-je ? il est présumé l’être jusqu’à ce qu’il soit jugé : mais si Louis est absous, si Louis peut être présumé innocent, que devient la révolution ?

Si Louis est innocent, tous les défenseurs de la liberté deviennent des calomniateurs ; les rebelles étaient les amis de la vérité et les défenseurs de l’innocence opprimée ; tous les manifestes des Cours étrangères ne sont que des réclamations légitimes contre une faction dominatrice. La détention même que Louis a subie jusqu’à ce moment est une vexation injuste ; les fédérés, le peuple de Paris, tous les patriotes de l’empire français sont coupables : et ce grand procès pendant au tribunal de la nature, entre le crime et la vertu, entre la liberté et la tyrannie, est enfin décidé en faveur du crime et de la tyrannie.

Citoyens, prenez-y garde ; vous êtes ici trompés par de fausses notions, Vous confondez les règles du droit civil et positif avec les principes du droit des gens ; vous confondez les rapports des citoyens entre eux, avec ceux des nations à un ennemi qui conspire contre elles. Vous confondez aussi la situation d’un peuple en révolution avec celle d’un peuple dont le gouvernement est affermi. Vous confondez une nation qui punit un fonctionnaire public, en conservant la forme du gouvernement, et celle qui détruit le gouvernement lui-même. Nous rapportons à des idées qui nous sont familières an cas extraordinaire, qui dépend de principes que nous n’avons jamais appliqués.

Ainsi, parce que nous sommes accoutumés à voir les délits dont nous sommes les témoins jugés selon des règles uniformes, nous sommes naturellement portés à croire que dans aucune circonstance les nations ne peuvent avec équité sévir autrement contre un homme qui a violé leurs droits ; et où nous ne voyons point un juré, un tribunal, une procédure, nous ne trouvons point la justice.

Ces termes mêmes, que nous appliquons à des idées différentes de celles qu’elles expriment dans l’usage ordinaire, achèvent de nous tromper. Tel est l’empire naturel de l’habitude, que nous regardons les conventions les plus arbitraires, quelquefois même les institutions les plus défectueuses comme la règle absolue du vrai ou du faux, du juste ou de l’injuste.

Nous ne songeons pas même que la plupart tiennent encore nécessairement aux préjugés dont le despotisme nous a nourris. Nous avons été tellement courbés sous son joug que nous nous relevons difficilement jusqu’aux éternels principes de la raison ; que tout ce qui remonte à la source sacrée de toutes les lois semble prendre à nos yeux un caractère illégal, et que l’ordre même de la nature nous paraît un désordre.

Les mouvements majestueux d’un grand peuple les sublimes élans de la vertu, se présentent souvent à nos yeux timides comme les éruptions d’un volcan ou le renversement de la société politique ; et certes ce n’est pas la moindre cause des troubles qui nous agitent que cette contradiction entre la faiblesse de nos moeurs, la dépravation de nos esprits, et la pureté des principes, l’énergie des caractères que suppose le gouvernement libre auquel nous osons prétendre.

Lorsqu’une nation a été forcée de recourir au droit de l’insurrection, elle rentre dans l’état de la nature à l’égard du tyran. Comment celui-ci pourrait-il invoquer le pacte social ? Il l’a anéanti : la nation peut le conserver encore, si elle le juge à propos, pour ce qui concerne les rapports des citoyens entre eux ; mais l’effet de la tyrannie et de l’insurrection, c’est de les constituer réciproquement en état de guerre. Les tribunaux, les procédures judiciaires ne sont faites que pour les membres de la cité.

C’est une contradiction trop grossière de supposer que la Constitution puisse présider à ce nouvel ordre de choses : ce serait supposer qu’elle survit à elle-même. Quelles sont les lois qui la remplacent ? celles de la nature ; celle qui est la base de la société même, le salut du peuple : le droit de punir le tyran et celui de le détrôner, c’est la même chose : l’un ne comporte pas d’autres formes que l’autre. Le procès du tyran, c’est l’insurrection ; son jugement, c’est la chute de sa puissance ; sa peine, celle qu’exige la liberté du peuple.

Les peuples ne jugent pas comme les cours judiciaires ; ils ne rendent point de sentences, ils lancent la foudre ; ils ne condamnent pas les rois, ils les replongent dans le néant : et cette justice vaut bien celle des tribunaux. Si c’est pour leur salut qu’ils s’arment contre leurs oppresseurs, comment seraient-ils tenus d’adopter un mode de les punir qui serait pour eux-mêmes un nouveau danger ?

Nous nous sommes laissé induire en erreur par des exemples étrangers qui n’ont rien de commun avec nous. Que Cromwell ait fait juger Charles Ier par une commission judiciaire dont il disposait ; qu’Elisabeth ait fait condamner Marie d’Ecosse de la même manière, il est naturel que des tyrans qui immolent leurs pareils, non au peuple, mais à leur ambition, cherchent à tromper l’opinion du vulgaire par des formes illusoires : il n’est question là ni de principes, ni de liberté, mais de fourberie et d’intrigue. Mais le peuple, quelle autre loi peut-il suivre que la justice et la raison appuyées de sa toute-puissance ?

Dans quelle république la nécessité de punir le tyran fut-elle litigieuse ? Tarquin fut-il appelé en jugement ? Qu’aurait-on dit à Rome si des Romains avaient osé se déclarer ses défenseurs ? Que faisons-nous ? Nous appelons de toutes parts des avocats pour plaider la cause de Louis XVI ; nous consacrons comme des actes légitimes ce qui, chez tout peuple libre, eût été regardé comme le plus grand des crimes ; nous invitons nous-mêmes les citoyens à la bassesse et à la corruption : nous pourrons bien un jour décerner aux défenseurs de Louis des couronnes civiques, car, s’ils défendent sa cause, ils peuvent espérer de la faire triompher : autrement vous ne donneriez à l’univers qu’une ridicule comédie. Et nous osons parler de république ! Nous invoquons des formes parce que nous n’avons pas de principes ; nous nous piquons de délicatesse, parce que nous manquons d’énergie ; nous étalons une fausse humanité, parce que le sentiment de la véritable humanité nous est étranger ; nous révérons l’ombre d’un roi, parce que nous ne savons pas respecter le peuple ; nous sommes tendres pour les oppresseurs, parce que nous sommes sans entrailles pour les opprimés.

Le procès à Louis XVI ! Mais qu’est-ce que ce procès, si ce n’est l’appel de l’insurrection à un tribunal ou à une assemblée quelconque ? Quand un roi a été anéanti par le peuple, qui a le droit de le ressusciter pour en faire un nouveau prétexte de trouble et de rébellion, et quels autres effets peut produire ce système ? En ouvrant une arène aux champions de Louis XVI, vous renouvelez les querelles du despotisme contre la liberté, vous consacrez le droit de blasphémer contre la république et contre le peuple ; car le droit de défendre l’ancien despote emporte le droit de dire tout ce qui tient à sa cause. Vous réveillez toutes les factions, vous ranimez, vous encouragez le royalisme assoupi ; on pourra librement prendre parti pour ou contre.

Quoi de plus légitime, quoi de plus naturel que de répéter partout les maximes que ses défenseurs pourront professer hautement à votre barre et dans votre tribune même ! Quelle république que celle dont les fondateurs lui suscitent de toutes parts des adversaires pour l’attaquer dans son berceau ! Voyez quels progrès rapides a déjà faits ce système.

A l’époque du mois d’août dernier, tous les partisans de la royauté se cachaient : quiconque eût osé entreprendre l’apologie de Louis XVI eût été puni comme un traître. Aujourd’hui ils relèvent impunément un front audacieux ; aujourd’hui les écrivains les plus décriés de l’aristocratie reprennent avec confiance leurs plumes empoisonnées ou trouvent des successeurs qui les surpassent en impudeur.

Aujourd’hui des écrits précurseurs de tous les attentats inondent la cité où vous résidez. les 83 départements, et jusqu’au portique de ce sanctuaire de la liberté.

Aujourd’hui des hommes armés, arrivés à votre insu et contre les lois, ont fait retentir les rues de cette cité de cris séditieux, qui demandent l’impunité de Louis XVI ; aujourd’hui Paris renferme dans son sein des hommes rassemblés, vous a-t-on dit, pour l’arracher à la justice de la nation.

Il ne vous reste plus qu’à ouvrir cette enceinte aux athlètes qui se pressent déjà pour briguer l’honneur de rompre des lances en faveur de la royauté. Que dis-je ? Aujourd’hui Louis partage les mandataires du peuple ; on parle pour, on parle contre lui. Il y a deux mois, qui eût pu soupçonner que ce serait une question s’il était inviolable ou non ? Mais depuis qu’un membre de la Convention nationale a présenté cette idée comme l’objet d’une délibération sérieuse, préliminaire à toute autre question, l’inviolabilité dont les conspirateurs de l’assemblée constituante ont couvert ses premiers parjures, a été invoquée pour protéger ses dernier attentats.

O crime, ô honte ! La tribune du peuple français a retenti du panégyrique de Louis XVI ; nous avons entendu vanter les vertus et les bienfaits du tyran ! A peine avons-nous pu arracher à l’injustice d’une décision précipitée l’honneur ou la liberté des meilleurs citoyens. Que dis-je ? Nous avons vu accueillir avec une joie scandaleuse les plus atroces calomnies contre des représentants du peuple connus par leur zèle pour la liberté.

Nous avons vu une partie de cette assemblée proscrite par l’autre, presque aussitôt que dénoncée par la sottise et par la perversité combinées. La cause du tyran seul est tellement sacrée qu’elle ne peut être ni assez longuement ni assez librement discutée : et pourquoi nous en étonner ? Ce double phénomène tient à la même cause.

Ceux qui s’intéressent à Louis ou à ses pareils doivent avoir soif du sang des députés patriotes qui demandent, pour la seconde fois, sa punition ; ils ne peuvent faire grâce qu’à ceux qui se sont adoucis en sa faveur. Le projet d’enchaîner le peuple, en égorgeant ses défenseurs, a-t-il été un seul moment abandonné ? et tous ceux qui les proscrivent aujourd’hui, sous le nom d’anarchistes et d’agitateurs, ne doivent-ils pas exciter eux-mêmes les troubles que nous présage leur perfide système ?

Si nous les en croyons, le procès durera au moins plusieurs mois ; il atteindra l’époque du printemps prochain, où les despotes doivent nous livrer une attaque générale. Et quelle carrière ouverte aux conspirateurs ! Quel aliment donné à l’intrigue et à l’aristocratie ! Ainsi tous les partisans de la tyrannie pourront espérer encore dans les secours de leurs alliés ; et les armées étrangères pourront encourager l’audace des contre-révolutionnaires, en même temps que leur or tentera la fidélité du tribunal qui doit prononcer sur son sort.

Juste ciel ! toutes les hordes féroces du despotisme s’apprêtent à déchirer de nouveau le sein de notre patrie, au nom de Louis XVI ! Louis combat encore contre nous du fond de son cachot ; et l’on doute s’il est coupable, si on peut le traiter en ennemi ! Je veux bien croire encore que la République n’est point un vain nom dont on nous amuse : mais quels autres moyens pourrait-on employer, si l’on voulait rétablir la royauté ?

On invoque en sa faveur la Constitution. Je me garderai bien de répéter ici tous les arguments sans réplique développés par ceux qui ont daigné combattre cette espèce d’objection. Je ne dirai là-dessus qu’un mot pour ceux qu’ils n’auraient pu convaincre, La Constitution vous défendait tout ce que vous avez fait. S’il ne pouvait être puni que de la déchéance, vous ne pouviez la prononcer sans avoir instruit son procès. Vous n’aviez point le droit de le retenir en prison. Il a celui de vous demander son élargissement et des dommages et intérêts. La Constitution vous condamne : allez aux pieds de Louis XVI invoquer sa clémence. Pour moi, je rougirais de discuter plus sérieusement ces arguties constitutionnelles ; je les relègue sur les bancs de l’école ou du palais, ou plutôt dans les cabinets de Londres, de Vienne ou de Berlin. Je ne sais point discuter longuement où je suis convaincu que c’est un scandale de délibérer.

C’est une grande cause, a-t-on dit, et qu’il faut juger avec une sage et lente circonspection. C’est vous qui en faites une grande cause : que dis-je ? c’est vous qui en faites une cause. Que trouvez-vous là de grand ? Est-ce la difficulté ? Non. Est-ce le personnage ? Aux yeux de la liberté, il n’en est pas de plus vil ; aux yeux de l’humanité, il n’en est pas de plus coupable. Il ne peut en imposer encore qu’à ceux qui sont plus lâches que lui. Est-ce l’utilité du résultat ? C’est une raison de plus de le hâter. Une grande cause, c’est celle d’un malheureux opprimé par le despotisme. Quel est le motif de ces délais éternels que vous nous recommandez ? Craignez-vous de blesser l’opinion du peuple ? Comme si le peuple lui-même craignait autre chose que la faiblesse ou l’ambition de ses mandataires ; comme si le peuple était un vil troupeau d’esclaves stupidement attaché au stupide tyran qu’il a proscrit, voulant, à quelque prix que ce soit, se vautrer dans la bassesse et dans la servitude.

Vous parlez de l’opinion ; n’est-ce point à vous de la diriger, de la fortifier ? Si elle s’égare, si elle se déprave, à qui faudrait-il s’en prendre, si ce n’est à vous-mêmes ? Craignez-vous les rois étrangers ligués contre vous ? Oh ! sans doute, le moyen de les vaincre, c’est de paraître les craindre ! Le moyen de confondre les despotes, c’est de respecter leur complice ! Craignez-vous les peuples étrangers ? Vous croyez donc encore à l’amour inné de la tyrannie. Pourquoi donc aspirez-vous à la gloire d’affranchir le genre humain ? Par quelle contradiction supposez-vous que les nations, qui n’ont point été étonnées de la proclamation des droits de l’humanité, seront épouvantées du châtiment de l’un de ses plus cruels oppresseurs ?

Enfin, vous redoutez, dit-on, les regards de la postérité, Oui, la postérité s’étonnera, en effet, de notre inconséquence et de notre faiblesse, et nos descendants riront à la fois de la présomption et des préjugés de leurs pères. On a dit qu’il fallait du génie pour approfondir cette question. Je soutiens qu’il ne faut que de la bonne foi. Il s’agit bien moins de s’éclairer que de ne pas s’aveugler volontairement, Pourquoi ce qui nous paraît clair dans un temps nous semble-t-il obscur dans un autre ? Pourquoi ce que le bon sens du peuple décide aisément se change-t-il, pour ses délégués, en problème presque insoluble ? Avons-nous le droit d’avoir une volonté contraire à la volonté générale, et une sagesse différente de la raison universelle ?

J’ai entendu les défenseurs de l’inviolabilité avancer un principe hardi, que j’aurais presque hésité moi-même à énoncer. Ils ont dit que ceux qui, le 10 août, auraient immolé Louis XVI, auraient fait une action vertueuse ; mais la seule base de cette opinion ne pouvait être que les crimes de Louis XVI et les droits du peuple. Or, trois mois d’intervalle ont-ils changé ses crimes ou les droits du peuple ? Si alors on l’arracha à l’indignation publique, ce fut sans doute uniquement pour que sa punition, ordonnée solennellement par la Convention nationale au nom de la nation, en devînt plus imposante pour les ennemis de l’humanité : mais remettre en question s’il est coupable ou s’il peut être puni, c’est trahir la foi donnée au peuple français.

Il est peut-être des gens qui, soit pour empêcher que l’assemblée ne prenne un caractère digne d’elle, soit pour ravir aux nations un exemple qui élèverait les âmes à la hauteur des principes républicains. soit par des motifs encore plus honteux, ne seraient pas fâchés qu’une main privée remplît les fonctions de la justice nationale. Citoyens, défiez-vous de ce piège : quiconque oserait donner un tel conseil ne servirait que les ennemis du peuple. Quoi qu’il arrive, la punition de Louis n’est bonne désormais qu’autant qu’elle portera le caractère solennel d’une vengeance publique. Qu’importe au peuple le méprisable individu du dernier roi ?

Représentants, ce qui lui importe, ce qui vous importe à vous-mêmes, c’est que vous remplissiez les devoirs qu’il vous a imposés. La république est proclamée ; mais nous l’avez-vous donnée ? Vous n’avez pas encore fait une seule loi qui justifie ce nom ; vous n’avez pas encore réformé un seul abus du despotisme : ôtez les non s, nous avons encore la tyrannie tout entière, et, de plus, des factions plus viles, et des charlatans plus immoraux, avec de nouveaux ferments de troubles et de guerre civile.

La république ! et Louis vit encore ! et vous placez encore la personne du roi entre nous et la liberté ! A force de scrupules, craignons de nous rendre criminels ; craignons qu’en montrant trop d’indulgence pour le coupable, nous ne nous mettions nous-mêmes à sa place.

Nouvelle difficulté. A quelle peine condamnerons-nous Louis ? La peine de mort est trop cruelle. Non, dit un autre, la vie est plus cruelle encore ; je demande qu’il vive. Avocats du roi, est-ce par pitié ou par cruauté que vous voulez le soustraire à la peine de ses crimes ? Pour moi, j’abhorre la peine de mort prodiguée par vos lois ; et je n’ai pour Louis ni amour ni haine ; je ne hais que ses forfaits.

J’ai demandé l’abolition de la peine de mort à l’assemblée que vous nommez encore constituante ; et ce n’est pas ma faute si les premiers principes de la raison lui ont paru des hérésies morales et politiques. Mais vous, qui ne vous avisâtes jamais de les réclamer en faveur de tant de malheureux dont les délits sont moins les leurs que ceux du gouvernement, par quelle fatalité vous en souvenez-vous seulement pour plaider la cause du plus grand de tous les criminels ?

Vous demandez une exception à la peine de mort pour celui-là seul qui peut la légitimer. Oui, la peine de mort, en général, est un crime, et par cette raison seule que, d’après les principes indestructibles de la nature, elle ne peut être justifiée que dans les cas où elle est nécessaire à la sûreté des individus ou du corps social. Or, jamais la sûreté publique ne la provoque contre les délits ordinaires, parce que la société peut toujours les prévenir par d’autres moyens, et mettre le coupable dans l’impuissance de lui nuire.

Mais un roi détrôné, au sein d’une révolution qui n’est rien moins que cimentée par des lois justes ; un roi dont le nom seul attire le fléau de la guerre sur la nation agitée ; ni la prison, ni l’exil ne peut rendre son existence indifférente au bonheur public ; et cette cruelle exception aux lois ordinaires que la justice avoue ne peut être imputée qu’à la nature de ses crimes. Je prononce à regret cette fatale vérité… mais Louis doit mourir, parce qu’il faut que la patrie vive.

Chez un peuple paisible, libre et respecté au dedans comme au dehors, on pourrait écouter les conseils qu’on vous donne d’être généreux : mais un peuple à qui l’on dispute encore sa liberté, après tant de sacrifices et de combats, un peuple chez qui les lois ne sont encore inexorables que pour les malheureux, un peuple chez qui les crimes de la tyrannie sont des sujets de dispute, un tel peuple doit vouloir qu’on le venge ; et la générosité dont on vous flatte ressemblerait trop à celle d’une société de brigands qui se partagent des dépouilles.

Je vous propose de statuer dès ce moment sur le sort de Louis. Quant à sa femme, vous la renverrez aux tribunaux, ainsi que toutes les personnes prévenues des mêmes attentats. Son fils sera gardé au Temple, jusqu’à ce que la paix et la liberté publique soient affermies. Quant à Louis, je demande que la Convention nationale le déclare dès ce moment traître à la nation française, criminel envers l’humanité ; je demande qu’à ce titre il donne un grand exemple au monde, dans le lieu même où sont morts, le 10 août, les généreux martyrs de la liberté, et que cet événement mémorable soit consacré par un monument destiné à nourrir dans le coeur des peuples le sentiment de leurs droits et l’horreur des tyrans ; et, dans l’âme des tyrans, la terreur salutaire de la justice du peuple.

Maximilien Robespierre

 

Louis Antoine de Saint-Just, Sur le jugement de Louis XVI – 13 novembre 1792

Louis de Saint-Just

Louis Antoine de Saint-Just (1767 – 1794)

J’entreprends, Citoyens, de prouver que le roi peut être jugé ; que l’opinion de Morisson, qui conserve l’inviolabilité, et celle du comité, qui veut qu’on le juge en citoyen, sont également fausses, et que le roi doit être jugé dans des principes qui ne tiennent ni de l’une ni de l’autre. Le comité de législation, qui vous a parlé très sainement de la vaine inviolabilité du roi et des maximes de la justice éternelle ne vous a point, ce me semble, développé toutes les conséquences de ces principes ; en sorte que le projet de décret qu’il vous a présenté n’en dérive point, et perd, pour ainsi dire, leur sève.

L’unique but du comité fut de vous persuader que le roi devait être jugé en aimable citoyen ; et moi, je dis que le roi doit être jugé en ennemi, que nous avons moins à le juger qu’à le combattre, et que, n’étant plus rien dans le contrat qui unit les Français, les formes de la procédure ne sont point dans la loi civile, mais dans la loi du droit des gens.

Faute de ces distinctions, on est tombé dans des formes sans principes, qui conduiraient le roi à l’impunité, fixeraient trop longtemps les yeux sur lui, ou qui laisseraient sur son jugement une tache de sévérité injuste ou excessive. Je me suis souvent aperçu que de fausses mesures de prudence, les lenteurs, le recueillement, étaient ici de véritables imprudences; et après celle qui recule le moment de nous donner des lois, la plus funeste serait celle qui nous ferait temporiser avec le roi. Un jour, peut-être, les hommes, aussi éloignés de nos préjugés que nous le sommes de ceux des Vandales, s’étonneront de la barbarie d’un siècle où ce fut quelque chose de religieux que de juger un tyran, où le peuple qui eut un tyran à juger l’éleva au rang de citoyen avant d’examiner ses crimes, songea plutôt à ce qu’on dirait de lui qu’à ce qu’il avait à faire, et, d’un coupable de la dernière classe de l’humanité, je veux dire celle des oppresseurs, fit, pour ainsi dire, un martyr de son orgueil.

On s’étonnera un jour qu’au dix-huitième siècle on ait été moins avancé que du temps de César-là le tyran fut immolé en plein Sénat, sans autres formalités que vingt-trois coups de poignard et sans autre loi que la liberté de Rome. Et aujourd’hui l’on fait avec respect le procès d’un homme assassin d’un peuple, pris en flagrant délit, la main dans le sang, la main dans le crime !

Les mêmes hommes qui vont juger Louis ont une République à fonder : ceux qui attachent quelque importance au juste châtiment d’un roi ne fonderont jamais une République. Parmi nous, la finesse des esprits et des caractères est un grand obstacle à la liberté ; on embellit toutes les erreurs, et, le plus souvent, la vérité n’est que la séduction de notre goût.

Votre comité de législation vous en donne un exemple dans le rapport qui vous a été lu. Morisson vous en donne un plus frappant : à ses yeux, la liberté, la souveraineté des nations sont une chose de fait. On a posé des principes ; on a négligé leurs plus naturelles conséquences. Une certaine incertitude s’est montrée depuis le rapport. Chacun rapproche le procès du roi de ses vues particulières ; les uns semblent craindre de porter plus tard la peine de leur courage ; les autres n’ont point renoncé à la monarchie ; ceux-ci craignent un exemple de vertu qui serait un lien d’esprit public et d’unité dans la République ; ceux-là n’ont point d’énergie. Les querelles, les perfidies, la malice, la colère, qui se déploient tour à tour, ou sont un frein ingénieux à l’essor de la vigueur combinée dont nous avons besoin, ou sont la marque de l’impuissance de l’esprit humain.

Nous devons donc avancer courageusement à notre but, et, si nous voulons une République, y marcher très sérieusement. Nous nous jugeons tous avec sévérité, je dirai même avec fureur ; nous ne songeons qu’à modifier l’énergie du peuple et de la liberté, tandis qu’on accuse à peine l’ennemi commun et que tout le monde, ou rempli de faiblesse ou engagé dans le crime, se regarde avant de frapper le premier coup. Nous cherchons la liberté, et nous nous rendons esclaves l’un de l’autre ! Nous cherchons la nature, et nous vivons armés comme des sauvages furieux ! Nous voulons la République, l’indépendance et l’unité, et nous nous divisons et nous ménageons un tyran !

Citoyens, si le peuple romain. après six cents ans de vertu et de haine contre les rois ; si la Grande-Bretagne, après Cromwell mort, vit renaître les rois, malgré son énergie, que ne doivent pas craindre parmi nous les bons citoyens amis de la liberté, en voyant la hache trembler dans nos mains, et un peuple, dès le premier jour de sa liberté, respecter le souvenir de ses fers ! Quelle République voulez-vous établir au milieu de nos combats particuliers et de nos faiblesses communes ?

On semble chercher une loi qui permette de punir le roi : mais dans la forme de gouvernement dont nous sortons, s’il y avait un homme inviolable, il l’était, en partant de ce sens, pour chaque citoyen ; mais de peuple à roi, je ne connais plus de rapport naturel. Il se peut qu’une nation, stipulant les clauses du pacte social, environne ses magistrats d’un caractère capable de faire respecter tous les droits et d’obliger chacun ; mais ce caractère étant au profit du peuple, et sans garantie contre le peuple, l’on ne peut jamais s’armer contre lui d’un caractère qu’il donne et retire à son gré. Les citoyens se lient par contrat ; le souverain ne se lie pas ; ou le prince n’aurait point de juge et serait un tyran. Ainsi l’inviolabilité de Louis ne s’est point étendue au delà de son crime et de l’insurrection; ou, si on le jugeait inviolable après, si même on le mettait en question, il en résulterait, Citoyen, qu’il n’aurait pu être déchu, et qu’il aurait eu la faculté de nous opprimer sous la responsabilité du peuple.

Le pacte est un contrat entre les citoyens, et non point avec le gouvernement : on n’est pour rien dans un contrat où l’on ne s’est point obligé. Conséquemment, Louis, qui ne s’était pas obligé, ne peut pas être jugé civilement. Ce contrat était tellement oppressif, qu’il obligeait les citoyens, et non le roi : un tel contrat était nécessairement nul, car rien n’est légitime de ce qui manque de sanction dans la morale et dans la nature.

Outre ces motifs, qui tous vous portent à ne pas juger Louis comme citoyen, mais à le juger comme rebelle, de quel droit réclamerait-il, pour être jugé civilement, l’engagement que nous avons pris avec lui, lorsqu’il est clair qu’il a violé le seul qu’il avait pris envers nous, celui de nous conserver ? Quel serait cet acte dernier de la tyrannie que de prétendre être jugé par des lois qu’il a détruites ? Et, Citoyens, si nous lui accordions de le juger civilement, c’est-à-dire suivant les lois, c’est-à-dire en citoyen, à ce titre il nous jugerait, il jugerait le peuple même. Pour moi, je ne vois point de milieu : cet homme doit régner ou mourir. Il vous prouvera que tout ce qu’il a fait, il l’a fait pour soutenir le dépôt qui lui était confié ; car, en engageant avec lui cette discussion, vous ne lui pouvez demander compte de sa malignité cachée ; il vous perdra dans le cercle vicieux que vous tracez vous-mêmes pour l’accuser.

Citoyens, ainsi les peuples opprimés au nom de leur volonté s’enchaînent indissolublement par le respect de leur propre orgueil, tandis que la morale et l’utilité devraient être l’unique règle des lois. Ainsi, par le prix qu’on met à ses erreurs, on s’amuse à les combattre, au lieu de marcher droit à la vérité.

Quelle procédure, quelle information voulez-vous faire des entreprises et des pernicieux desseins du roi ? D’abord, après avoir reconnu qu’il n’était point inviolable pour le souverain, et ensuite lorsque ses crimes sont partout écrits avec le sang du peuple, lorsque le sang de vos défenseurs a ruisselé, pour ainsi dire, jusqu’à vos pieds, et jusque sur cette image de Brutus, qu’on ne respecte pas le roi. Il opprima une nation libre ; il se déclara son ennemi ; il abusa des lois : il doit mourir pour assurer le repos du peuple, puisqu’il était dans ses vues d’accabler le peuple pour assurer le sien. Ne passa-t-il pas, avant le combat, les troupes en revue ? Ne prit-il pas la fuite au lieu de les empêcher de tirer ? Que fit-il pour arrêter la fureur de ses soldats ? L’on vous propose de le juger civilement, tandis que vous reconnaissez qu’il n’était pas citoyen, et qu’au lieu de conserver le peuple il ne fit que sacrifier le peuple à lui-même.

Je dirai plus : c’est qu’une Constitution acceptée par un roi n’obligerait pas les citoyens ; ils avaient, même avant son crime, le droit de le proscrire et de le chasser. Juger un roi comme un citoyen ! Ce mot étonnera la postérité froide. Juger, c’est appliquer la loi. Une loi est un rapport de justice : quel rapport de justice y a-t-il donc entre l’humanité et les rois ? Qu’y a-t-il de commun entre Louis et le peuple français, pour le ménager après sa trahison ? Il est telle âme généreuse qui dirait, dans un autre temps, que le procès doit être fait à un roi, non point pour les crimes de son administration. mais pour celui d’avoir été roi, car rien au monde ne peut légitimer cette usurpation ; et de quelque illusion, de quelques conventions que la royauté s’enveloppe, elle est un crime éternel, contre lequel tout homme a le droit de s’élever et de s’armer ; elle est un de ces attentats que l’aveuglement même de tout un peuple ne saurait justifier. Ce peuple est criminel envers la nature par l’exemple qu’il a donné, et tous les hommes tiennent d’elle la mission secrète d’exterminer la domination en tout pays.

On ne peut point régner innocemment : la folie en est trop évidente. Tout roi est un rebelle et un usurpateur. Les rois mêmes traitaient-ils autrement les prétendus usurpateurs de leur autorité ? Ne fit-on pas le procès à la mémoire de Cromwell ? Et, certes, Cromwell n’était pas plus usurpateur que Charles Ier ; car lorsqu’un peuple est assez lâche pour se laisser mener par des tyrans, la domination est le droit du premier venu, et n’est pas plus sacrée ni plus légitime sur la tête de l’un que sur celle de l’autre.

Voilà les considérations qu’un peuple généreux et républicain ne doit pas oublier dans le jugement d’un roi.

On nous dit que le roi doit être jugé par un tribunal comme les autres citoyens… Mais les tribunaux ne sont établis que pour les membres de la cité ; et je ne conçois point par quel oubli des principes des institutions sociales un tribunal serait juge entre un roi et le souverain ; comment un tribunal aurait la faculté de rendre un maître à la patrie, et de l’absoudre, et comment la volonté générale serait citée devant un tribunal.

On vous dira que le jugement sera ratifié par le peuple. Mais si le peuple ratifie le jugement, pourquoi ne jugerait-il pas ? Si nous ne sentions point tout le faible de ces idées, quelque forme de gouvernement que nous adoptassions, nous serions esclaves ; le souverain n’y serait jamais à sa place, ni le magistrat a la sienne, et le peuple serait sans garantie contre l’oppression.

Citoyens, le tribunal qui doit juger Louis n’est point un tribunal judiciaire : c’est un conseil, c’est le peuple, c’est vous : et les lois que nous avons à suivre sont celles du droit des gens.

C’est vous qui devez juger Louis ; mais vous ne pouvez être à son égard une cour judiciaire, un juré, un accusateur ; cette forme civile de jugement le rendrait injuste ; et le roi, regardé comme citoyen, ne pourrait être jugé par le citoyen avant son crime ; il ne pouvait voter ; il ne pouvait porter les armes ; il l’est encore moins depuis son crime. Et par quel abus de la justice même en feriez-vous un citoyen, pour le condamner ? Aussitôt qu’un homme est coupable, il sort de la cité ; et, point du tout, Louis y entrerait par son crime. Je vous plus : c’est que si vous déclariez le roi simple citoyen, vous ne pourriez plus l’atteindre. De quel engagement de sa part lui parleriez-vous dans le présent ordre des choses ?

Citoyens, si vous êtes jaloux que l’Europe admire la justice de votre jugement, tels sont les principes qui le doivent déterminer ; et ceux que le comité de législation vous propose seraient précisément un monument d’injustice. Les formes, dans le procès, sont de l’hypocrisie ; on vous jugera selon vos principes.

Je ne perdrai jamais de vue que l’esprit avec lequel on jugera le roi sera le même que celui avec lequel on établira la République. La théorie de votre jugement sera celle de vos magistratures. Et la mesure de votre philosophie, dans ce jugement, sera aussi la mesure de votre liberté dans la Constitution.

Je le répète, on ne peut point juger un roi selon les lois du pays, ou plutôt les lois de cité. Le rapporteur vous l’a bien dit ; mais son idée est morte trop tôt dans son âme ; il en a perdu le fruit. Il n’y avait rien dans les lois de Numa pour juger Tarquin, rien dans les lois d’Angleterre pour juger Charles Ier : on les jugea selon le droit des gens ; on repoussa la force par la force, on repoussa un étranger, un ennemi. Voilà ce qui légitima ces expéditions, et non point de vaines formalités, qui n’ont pour principe que le consentement du citoyen, par le contrat.

On ne me verra jamais opposer ma volonté particulière à la volonté de tous. Je voudrai ce que le peuple français, ou la majorité de ses représentants voudra, mais comme ma volonté particulière est une portion de la loi qui n’est point encore faite, je m’explique ici ouvertement.

Il ne suffit pas de dire qu’il est dans l’ordre de la justice éternelle que la souveraineté soit indépendante de la forme actuelle de gouvernement, et d’en tirer cette conséquence, que le roi doit être jugé ; il faut encore étendre la justice naturelle et le principe de la souveraineté jusqu’à l’esprit même dans lequel il convient de le juger. Nous n’aurons point de République sans ces distinctions qui mettent toutes les parties de l’ordre social : dans leur mouvement naturel, comme la nature crée la vie de la combinaison des éléments.

Tout ce que j’ai dit tend donc à vous prouver que Louis XVI doit être jugé comme un ennemi étranger. J’ajoute qu’il n’est pas nécessaire que son jugement à mort soit soumis à la sanction du peuple ; car le peuple peut bien imposer des lois par sa volonté parce que ces lois importent à son bonheur ; mais le peuple même ne pouvant effacer le crime de la tyrannie, le droit des hommes contre la tyrannie est personnel ; et il n’est pas d’acte de la souveraineté qui puisse obliger véritablement un seul citoyen à lui pardonner.

C’est donc à vous de décider si Louis est l’ennemi du peuple français, s’il est étranger, si votre majorité venait à l’absoudre, ce serait alors que ce jugement devrait être sanctionné par le peuple ; car si un seul citoyen ne pouvait être légitimement contraint par un acte de la souveraineté à pardonner au roi, à plus forte raison un acte de magistrature ne serait point obligatoire pour le souverain.

Mais hâtez-vous de juger le roi car il n’est pas de citoyen qui n’ait sur lui le droit que Brutus avait sur César ; vous ne pourriez pas plutôt punir cette action envers cet étranger que vous n’avez blâmé la mort de Léopold et de Gustave.

Louis était un autre Catilina ; le meurtrier, comme le consul de Rome, jugerait qu’il a sauvé la patrie. Louis a combattu le peuple : il est vaincu. C’est un barbare, c’est un étranger prisonnier de guerre. Vous avez vu ses desseins perfides ; vous avez vu son armée ; le traître n’était pas le roi des Français, mais le roi de quelques conjurés. Il faisait des levées secrètes de troupes, avait des magistrats particuliers ; il regardait les citoyens comme ses esclaves ; il avait proscrit secrètement tous gens de bien et de courage. Il est le meurtrier de la Bastille, Nancy, du Champ-de-Mars, de Tournay, des Tuileries : quel ennemi, quel étranger nous a fait plus de mal ? Il doit être jugé promptement : c’est le conseil de la sagesse et de la saine politique : c’est une espèce d’otage que conservent les fripons. On cherche à remuer la pitié ; on achètera bientôt des larmes ; on fera tout pour nous intéresser, pour nous corrompre même. Peuple, si le roi est jamais absous, souviens-toi que nous ne serons plus dignes de ta confiance, et tu pourras nous accuser de perfidie.

 

Lettre à MM. Vergniaud, Gensonné, Brissot & Guadet sur la souveraineté du peuple & sur leur système de l’appel du jugement de Louis Capet, ainsi que le tableau des opérations de la Convention, 5 janvier 1793. 

[…] Qu’est-ce que la souveraineté, messieurs ? c’est le pouvoir qui appartient à la nation de régler sa destinée. La nation a sur elle-même, tous les droits que chaque homme a sur sa personne ; & la volonté générale gouverne la société comme la volonté particulière gouverne chaque individu isolé. Les mandataires du peuple sont, avec le souverain, dans le même rapport que les commis d’un particulier avec leur commettant, & que le serviteur avec le père de famille. Or, messieurs, que diriez-vous d’un fondé de procuration qui, au lieu de saisir l’occasion de conclure un affaire d’où dépend la ruine ou la fortune de son mandant, la laisserait échapper, sous le prétexte de le consulter ? Que diriez-vous d’un serviteur qui refuserait d’éteindre le feu qui prend à la maison de son maître, de peur d’attenter au droit qui appartient à celui-ci, de disposer de sa propriété ? or, messieurs, la république est menacée d’un grand incendie ; loin de l’éteindre, c’est vous qui l’allumez. Vous mettez le feu à la maison du souverain, pour la piller impunément.

” Comment, messieurs ! on vous a entendu mille fois faire un crime aux bons citoyens de ce qu’ils réclamaient la souveraineté du peuple, pour la défendre contre vos attaques, & voilà que, tout-à-coup, vous poussez vous-mêmes votre tendre sollicitude pour elle, au-delà des bornes de la démagogie la plus outrée, parce qu’il s’agit de sauver le tyran, & de détruire la république. Vous ne l’avez point invoquée, lorsque vous protégiez Narbonne ; lorsque vous faisiez décréter qu’il irait commander l’armée sans rendre ses comptes ; lorsque vous faisiez retentir la tribune, lorsque vous remplissiez vos feuilles vénales de son éloge, & que vous gardiez le silence sur les manoeuvres par lesquelles il livrait l’état, sans défense, à nos ennemis. Vous ne l’avez point invoquée, M. Guadet, lorsque vous fîtes remettre par la législature, le droits de faire des lois pour l’armée, & le pouvoir absolu de vie & de mort sur les défenseurs persécutés de la patrie, entre les mains des généraux de ce tems-là, c’est-à-dire, de tous les traîtres qui étaient alors à la tête de nos armées. Vous n’invoquiez point la souveraineté, messieurs, lorsque vous placiez vous-mêmes vos amis au ministère, & que vous vous empariez, à deux époques différentes, des trésors de l’état & de toute la puissance publique. Vous ne consultiez point le peuple, lorsque, disposant très-librement des deniers publics, vous faisiez donner aux ministres six millions pour dépenses secrètes ; lorsqu’ensuite vous fîtes révoquer ce décret, au moment où vous fûtes brouillés avec Dumourier, qui vous accusa publiquement de vouloir punir le refus qu’il avait fait de partager le butin entre vous. Ce n’est pas la volonté du souverain que vous consultiez, car la volonté du souverain n’est ni injuste, ni versatile. Vous ne la consultiez pas, lorsque vous entassiez des millions dans les mains de Rolland, votre ami, tantôt sous le prétexte d’acheter des grains, tantôt sous le prétexte de former l’esprit public, c’est-à-dire, pour affamer le peuple & calomnier les amis de la liberté. La consultiez-vous, lorsqu’à la fin de juillet dernier, au moment où les fédérés rassemblés à Paris, conspiraient saintement contre la tyrannie, avec toutes les sections de cette grande cité, vous osâtes vous opposer à la déchéance de Louis Capet, demandée par les cris de l’indignations universelle ; lorsque M. Vergniaud osa proposer aux représentans du peuple d’envoyer un message au tyran, & de lui faire des représentations, pour le dérober au décret qui le menaçait ? Alors, messieurs, vous paraissiez plus convaincu de la souveraineté de la cour, que de celle du peuple […]

” Portez long-tems le deuil des tyrans, pour appeler la haine sur la tête des bons citoyens, & sur le berceau de la république. On sait que vous ne vous attachez au mois de septembre, que pour vous venger du mois d’août, & pour calomnier indirectement la révolution que vous avez voulu étouffer, & que vous avez réussi à rendre nulle, jusqu’à ce moment. Prodiguez les noms d’assassins & de scélérats à la portion la plus pure de l’assemblée nationale ; il n’en sera pas moins vrai que les défenseurs de la cause du peuple sont les amis de l’humanité, & que les avocats de la tyrannie sont aussi lâches que cruels. Imputez des projets criminels aux patriotes, pour cacher vos propres attentats, & ils seront plutôt découverts ; criez aux agitateurs & à l’anarchie, afin qu’on ne s’aperçoive pas que vous excitez les troubles dont vous vous plaignez, & que vous n’aspirez qu’à déchirer la république ; & vous en serez plus promptement convaincus. […] Les Gensonné, les Vergniaud, les Brissot, les Guadet passeront ; Paris restera. Paris sera encore le rempart de la liberté, le fléau des tyrans, le désespoir des intrigans, la gloire de la république & l’ornement du globe, long-tems après que vous serez tous des émigrés. […]

” Quand Louis fugitif eut été ramené de varenne, la presqu’unanimité de l’assemblée constituante, était déterminée à le déclarer inviolable, & à lui laisser toute son autorité. La constitution monarchique existait ; & il n’y avait point eu d’insurrection qui eût renversé le tyran du trône ; le petit nombre de membres qui osèrent élever la voix contre cette conspiration contre la liberté publique, opposèrent au système dominant, la ressource du jugement du peuple qui désirait la punition de Louis. J’avoue que j’étais de ce nombre ; s’il était alors une idée tendante à la république, propre à amener la ruine du tyran & de la tyrannie, c’était celle-là ; aussi, tous les esclaves de la cour me dénoncèrent comme républicain. Mais aujourd’hui que la république est fondée, aujourd’hui que la Convention nationale, assemblée pour condamner Louis, n’oserait l’absoudre, & que les plus déterminés royalistes de votre parti n’osent le proposer ; aujourd’hui que la guerre étrangère, qui n’était point alors allumée, semble combinée avec la guerre civile, dont toutes les torches semblent préparées, il n’y a que les ennemis de la liberté qui aient pu imaginer d’anéantir, par un appel, la pressante mesure de sûreté générale que la Convention doit prononcer contre lui. Nous appelions alors au peuple du décret de l’inviolabilité & de l’absolution du roi ; aujourd’hui vous appelez du décret qui doit le condamner, & dont vous feignez vous-mêmes de reconnaître la justice. Vous faites, pour la tyrannie, tout ce que les circonstances permettent de faire en sa faveur ; nous faisions alors tout ce qu’il était possible de tenter pour la liberté. Dans vos principes, vous auriez voté alors pour la majorité corrompue, que nous combattions, & que vous imitez. Que dis-je ? les principaux champions de votre système sont du nombre de ceux qui en 1791, votèrent lâchement pour l’impunité du roi parjure, & pour l’accroissement de son pouvoir ; & ce sont ces gens-là qui nous font aujourd’hui un crime d’avoir voulu appeler de leur faiblesse ou de leur corruption, à la justice du peuple indigné ! Qu’on juge, par ce seul trait, de votre véracité & de votre pudeur ! […] “

15 janvier 1793

La Convention, à la quasi unanimité, répond OUI à la question : Louis est-il coupable de conspiration contre la liberté de la nation & d’attentat contre la sûreté de l’Etat ? Ensuite, 424 contre 281 députés répondent NON à la question : Le jugement de la Convention nationale contre Louis Capet sera-t-il soumis à la ratification du peuple réuni dans ses assemblées primaires ? 16 janvier 1793. La Convention doit se prononcer, par appel nominal, sur la question : Quelle peine sera infligée à Louis ?

Gazette nationale, ou le Moniteur universel :

” Robespierre. Je n’aime point les longs discours dans les questions évidentes ; ils sont d’un sinistre présage pour la liberté ; ils ne peuvent suppléer à l’amour de la vérité & au patriotisme qui les rend superflus. Je me pique de ne rien comprendre aux distinctions logomachiques imaginées pour éluder la conséquence évidente d’un principe reconnu. Je n’ai jamais su décomposer mon existence politique, trouver en moi deux qualités disparates, celle de juge & celle d’homme d’Etat ; la première, pour déclarer l’accuser coupable ;la seconde pour me dispenser d’appliquer la peine. Tout ce que je sais, c’est que nous sommes des représentants du peuple, envoyés pour cimenter la liberté publique par la condamnation du tyran & cela me suffit. Je ne sais pas outrager la raison & la justice, en regardant la vie d’un despote comme d’un plus grand prix que celle des simples citoyens, & en me mettant l’esprit à la torture pour soustraire le plus grand des coupables à la peine que la loi prononce contre des délits beaucoup moins graves, & qu’elle a déjà infligée à ses complices. Je suis inflexible pour les oppresseurs, parce que je suis compatissant pour les opprimés ; je ne connais point l’humanité qui égorge les peuple, & qui pardonne aux despotes.

Le sentiment qui m’a porté à demander, mais en vain, à l’Assemblée constituante, l’abolition de la peine de mort, est le même qui me force aujourd’hui à demander qu’elle soit appliquée au tyran de ma patrie, & à la royauté elle-même dans sa personne. Je ne sais point prédire ou imaginer des tyrans futurs ou inconnus, pour me dispenser de frapper celui que j’ai déclaré convaincu, avec la presque unanimité de cette assemblée,& que le peuple m’a chargé de juger avec vous. Des factions véritables ou chimériques ne seraient point, à mes yeux, des raisons de l’épargner, parce que je suis convaincu que le moyen de détruire les factions n’est pas de les multiplier, mais de les écraser toutes sous le poids de la raison & de l’intérêt national. Je vous conseille, non de conserver celle du roi, pour l’opposer à celles qui pourraient naître ; mais de commencer par abattre celle-là, & d’élever ensuite l’édifice de la félicité générale sur la ruine de tous les partis anti-populaires. Je ne cherche point non plus, comme plusieurs autres, des motifs de sauver le ci-devant roi dans les menaces ou dans les efforts des despotes de l’Europe, car je les méprise tous, & mon intention n’est pas d’engager les représentants du peuple à capituler avec eux. Je sais que le seul moyen de les vaincre, c’est d’élever le caractère français à la hauteur des principes républicains, & d’exercer sur les rois & sur es esclaves des rois l’ascendant des âmes fières & libres sur les âmes serviles & insolentes. Je croirai bien moins encore que ces despotes répandent l’or à grand flots pour conduire leur pareil à l’échafaud, comme on l’a intrépidement supposé. Si j’étais soupçonneux, ce serait précisément la proposition contraire qui me paraîtrait vraie. Je ne veux point abjurer ma propre raison pour me dispenser de remplir mes devoirs ; je me garderai bien surtout d’insulter un peuple généreux, en répétant sans cesse que je ne délibère point ici avec liberté, en m’écriant que nous sommes environnés d’ennemis, car je ne veux point protester d’avance contre la condamnation de Louis Capet, ni en appeler aux cours étrangères. J’aurais trop de regrets, si mes opinions ressemblaient à des manifestes de Pitt ou de Guillaume ; enfin, je ne sais point opposer des mots vides de sens & des distinction inintelligibles à des principes certains & à des obligations impérieuses. Je vote pour la mort. “

17 janvier 1793

L’appel nominal, commencé la veille, se termine vers 8 heures du soir.

Proclamation du 17 janvier à 10 heures du soir

745 députés un mort 6 malades 2 absents sans cause 11 absents par commission 4 se dispensent de voter soit 721 majorité à 361 voix.

387 députés sur 721 se sont prononcés pour la mort. 366 la mort 1 vote la mort en réservant au peuple de commuer la peine 23 la mort, en demandant s’il faut accélérer ou retarder l’exécution 8 la mort avec sursis tant que la “race entière” des Bourbons n’aura pas été expulsée 2 la mort avec sursis jusqu’à la paix.

319 la détention jusqu’à la paix et bannissement après 2 les fers.

Proclamation officielle du 18 janvier

749 députés 15 absents par commission 7 malades 1 absent sans cause 5 non votants.

721 voix majorité 361.

361 la mort 26 la mort en demandant s’il fallait ou non la différer (soit 387 pour la mort sans conditions) 14 la mort avec condition : expulsion des Bourbons 10 la mort condition : acceptation de la constitution par le peuple 19 la mort condition : pas avant la paix 1 la mort condition débat sur délai (soit 44 : au total la mort avec ou sans condition : 431).

190 la détention jusquà la paix 27 la détention perpétuelle 63 détention avec conditions 2 les fers 5 bannissement immédiat 3 déportation (soit 290).

Il est possible de présenter les votes ainsi 387 pour la mort 334 pour la détention ou la mort conditionnelle

ou

361 pour la mort 360 pour la détention ou la mort conditionnelle

ce cas de figure est toujours présenté pour dire que la mort de Louis XVI a été obtenue à une voix de majorité)

(AP, p. 411 Les défenseurs du roi transmettent alors à la Convention une protestation de sa part : ” j’interjette appel à la nation elle-même du jugement de ses représentants. ” En un mot, il récuse ses juges & repose la question de l’appel au peuple. Robespierre intervient. A sa suite, Guadet demande l’ajournement au lendemain. Finalement, la Convention décide qu’il n’y a pas lieu à délibérer. Gazette nationale, ou le Moniteur universel : ” Robespierre. […] Et moi qui ai éprouvé aussi les sentimens qui vous animent, je vous rappelle dans ce moment à votre caractère de représentans du peuple, aux grands principes qui doivent vous guider, si vous ne voulez pas que le grand acte de justice que vous avez accordé à la Nation elle-même ne devienne une nouvelle source de peines & de malheurs. […] Je demande donc que vous déclariez, Citoyens, que le prétendu appel au peuple qui vient de vous être signifié, doit être rejeté, comme contraire aux principes de l’autorité publique, aux droits de la Nation, aux autorités des représentans, & que vous interdisiez à qui que ce soit d’y donner aucune suite, à peine d’être poursuivi comme perturbateur du repos public. “

18 janvier 1793

Lors du vote sur la peine à infliger, les Girondins ont voté pour la mort, mais avec sursis. Ce jour est donc consacré à la question du sursis. La Montagne se prononce pour la discussion immédiate & sans désemparer. De même Robespierre, mais il ajoute que si l’Assemblée devait ajourner la discussion, qu’elle ” décrète que demain à 4 heures, l’appel nominal sera commencé sur la question du sursis ; & que si le résultat lui est contraire, l’exécution aura lieu dans les vingt-quatre heures. ” Finalement, la Convention ajourne au lendemain.

19 janvier 1793

La Convention ferme la discussion sur le sursis & procède à l’appel nominal sur la question : Sera-t-il sursis à l’exécution du jugement de Louis Capet ? 380 NON contre 310 OUI.

 

20 janvier

Assassinat par Pâris, ancien garde du corps du roi, de Lepeletier de Saint-Fargeau, député & ami intime de Robespierre. Alors que les Girondins se disent menacés par les Parisiens, c’est un Montagnard qui tombe. Le soir, à la veille de l’exécution de Louis XVI, aux Jacobins, Robespierre appelle les sections ” à maintenir un calme imposant & terrible ” & une affiche leur est envoyée à cet effet. Ce même jour, à la Convention, les Girondins, par la bouche de Gensonné, réclament des poursuites contre les auteurs des massacres de septembre, ce qui est adopté avec un amendement de Tallien incluant dans ces poursuites ces qui ont défendu les Tuileries le 10 août.

 

21 janvier

Exécution de Louis Capet, ci-devant Louis XVI.

La Convention accorde à Lepeletier les honneurs du Panthéon & décrète qu’elle assistera en corps à ses funérailles. Elle supprime le bureau de Roland relatif à la formation de l’esprit public & décrète qu’il devra en rendre les comptes. Le Logotachigraphe : ” Robespierre. […] Citoyens, que ce grand attentat, qui doit être un dernier coup porté par nos ennemis, & qui doit retourner contre la tyrannie, ne soit point une occasion de violer les principes de la liberté par un excès de zèle ; le véritable moyen de sauver la patrie, c’est d’avoir pour ces mêmes principes un respect inaltérable. […] La liberté s’opposera toujours à ce qu’un corps investi d’une énorme puissance & d’une autorité qui embrasse l’Etat tout entier, soit encore chargé spécialement & immédiatement de la police particulière d’un lieu. […]

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