Michel de Montaigne, Dell’educazione dei fanciulli

by gabriella

michel-de-montaigne

Michel Eyquem de Montaigne (1533 – 1592)

L’occasione di parlare di educazione viene a Montaigne dalla prima maternità dell’aristocratica Charlotte Diane de Foix, Contessa de Gurson, alla quale si rivolge idealmente nel capitolo ventisei del «primo libro degli Essais (1580).

Dopo aver indugiato sulla propria formazione che, a suo giudizio, gli ha dato i rudimenti di tutti i saperi senza aver coltivato in lui vera conoscenza, Montaigne esprime la propria opinione sulla «maggiore e più grave difficoltà della scienza umana», quella pedagogica, considerando la quale è bene scegliere per il proprio figlio «un precettore che abbia piuttosto la testa ben fatta che ben piena».

Una guida di questo tipo, capace di sacrificare i saperi che servono solo da ornamento di una scienza pedante, saprà portare l’allievo a conoscere l’umanità e se stesso, «a saper ben morire e ben vivere» scegliendo tra le arti liberali, quella «che ci fa liberi».

Ad una filosofia grottesca e sfigurata, Montaigne risponde che «il vero specchio dei nostri ragionamenti è il corso della nostra vita», e che «non c’è che da assecondare il desiderio e l’amore, altrimenti non si fanno che asini carichi di libri». La scienza, infatti, non va portata con sé, «bisogna sposarla».

Ho riletto il testo basandomi sull’edizione Bompiani del 2012 [pp. 261-323] rivista in qualche passaggio a partire dall’originale francese [pp. 79-97].

Comunque sia, voglio dire, e quali che siano queste sciocchezze, non ho deciso di tenerle nascoste, non più di un ritratto di me calvo e incanutito dove il pittore avesse messo non un volto perfetto, ma il mio. Perché, allo stesso modo, ci sono qui i miei umori e le mie opinioni. Le do come cose che credo io, non come cose che si debbano credere. Qui miro soltanto a scoprire me stesso, e sarò forse diverso domani, se una nuova esperienza mi avrà mutato.

Non ho autorità per essere creduto, né lo desidero, sentendomi troppo male istruito per istruire gli altri. Qualcuno, dunque, avendo visto il capitolo precedente, mi diceva l’altro giorno a casa mia che avrei dovuto dilungarmi un po’ a proposito dell’educazione dei fanciulli. Ora, signora, se avessi qualche competenza in questo argomento, non potrei impiegarla meglio che facendone un presente a quell’ometto che minaccia di uscir presto allegramente dal vostro grembo (siete troppo generosa per cominciare altrimenti che con un maschio).

Di fatto, io, che ho avuto tanta parte alla conclusione del vostro matrimonio, ho qualche diritto e qualche interesse alla grandezza e prosperità di tutto quello che ne verrà; oltre che l’antica potestà che avete sui miei servigi mi obbliga di per sé a desiderare onore, bene e fortuna a tutto quello che vi riguarda. Ma, in verità, sono edotto solo di questo: che la maggiore e più grave difficoltà della scienza umana par che s’incontri proprio là dove si tratta dell’educazione e dell’istruzione dei fanciulli.

Come nell’agricoltura le operazioni che precedono il piantare sono determinate e facili, e così il piantare medesimo. Ma quando ciò che è stato piantato comincia a vivere, per farlo crescere si ha una gran varietà di modi e molte difficoltà: così per gli uomini, ci vuol poca abilità a piantarli, ma dopo che sono nati ci si addossa un compito diverso, pieno di affanni e di ansie, per educarli e allevarli.

I segni delle loro inclinazioni son così tenui in questa prima età, e così oscuri, le promesse così incerte e fallaci, che è difficile stabilire su queste un giudizio sicuro. Guardate Cimone, guardate Temistocle e mille altri, come hanno smentito se stessi. I piccoli degli orsi, dei cani, rivelano chiaramente la loro inclinazione naturale; ma gli uomini, immergendosi immediatamente fra usanze, opinioni, leggi, mutano o si mascherano facilmente.

Eppure è difficile forzare le propensioni naturali. Da questo deriva che non avendo ben scelto la loro strada, spesso ci si affatica per nulla e si impiega molto tempo a indirizzare i fanciulli a cose nelle quali non possono riuscire. Tuttavia, in tale difficoltà, la mia opinione è che si debba avviarli sempre alle cose migliori e più giovevoli, e che si debbano trascurare quei leggeri indizi e quei pronostici che si traggono dagli atteggiamenti della loro infanzia. Anche Platone, nella Repubblica, mi pare che dia loro molta importanza.

Signora, la scienza è un grande ornamento e uno strumento di straordinaria utilità, specialmente per le persone allevate in un rango sociale pari al vostro. In verità, essa non trova mai il suo vero impiego in mani vili e volgari. È ben più fiera di fornire i propri mezzi per condurre una guerra, comandare un popolo, conquistare l’amicizia d’un principe o d’una nazione straniera, che per metter su un’argomentazione dialettica, perorare una petizione o ordinare una quantità di pillole.

Quindi, signora, siccome credo che non dimenticherete questa parte nell’educazione dei vostri, voi che ne avete assaporato la dolcezza, e che appartenete a una stirpe di letterati – infatti abbiamo ancora gli scritti di quegli antichi conti de Foix dai quali il signor conte, vostro marito, e voi stessa siete discesi; e Francesco, signore de Candale, vostro zio, ne produce ogni giorno altri che prolungheranno per parecchi secoli la fama di tale qualità della vostra famiglia –, voglio dirvi a questo proposito una sola idea che ho contraria alle opinioni correnti: è quanto posso offrire in vostro servizio su questo argomento.

Il compito del precettore che gli darete, dalla scelta del quale dipende tutto il risultato della sua educazione, ha parecchi altri aspetti importanti, ma non me ne occuperò, perché non saprei apportarvi nulla di valido; e su questo punto, sul quale mi permetto di dirgli il mio parere, mi darà ascolto in ciò che gli sembrerà ragionevole.

Per un figlio di buona famiglia che si volga alle lettere, non per guadagno (perché uno scopo tanto abietto è indegno della grazia e del favore delle Muse, e poi riguarda altri e dipende da altri), e non tanto per i vantaggi esteriori quanto per i suoi personali, e per arricchirsene e ornarsene nell’intimo, se si desidera farne un uomo avveduto piuttosto che un dotto, vorrei anche che si avesse cura di scegliergli un precettore che avesse piuttosto la testa ben fatta che ben piena, e che si richiedessero in lui ambedue le cose, ma più i costumi e l’intelligenza che la scienza.

E che nel suo ufficio egli si conducesse in una maniera nuova: non si smette di blaterarci negli orecchi, come si versa in un imbuto, e il nostro compito è soltanto ridire quello che ci è stato detto. Vorrei che egli correggesse questo punto; e che fin dal principio, secondo le possibilità dell’animo che gli è affidato, cominciasse a metterlo alla prova, facendogli gustare le cose, sceglierle e discernerle da solo. A volte aprendogli la strada, a volte lasciandogliela aprire. Non desidero che inventi e parli lui solo, desidero che ascolti il suo discepolo parlare a sua volta.

Socrate e in seguito Arcesilao facevano prima parlare i loro discepoli, e poi parlavano loro. Obest plerumque iis qui discere volunt auctoritas eorum qui docent. È bene che egli se lo faccia trottar davanti per giudicare la sua andatura, e giudicare fino a che punto debba abbassarsi per adattarsi alle sue forze. Se manca questa proporzione, guastiamo tutto; e saperla trovare, e regolarsi di conseguenza con giusta misura, è uno dei più ardui compiti che io conosca; ed è prerogativa di un’anima nobile e assai forte saper secondare la sua andatura di fanciullo e guidarla. Io cammino più sicuro e più saldo in salita che in discesa.

Quelli che, come vogliono le nostre usanze, cominciano con una medesima lezione e con ugual metodo a governare parecchi spiriti tanto diversi di misura e di forma, non c’è da meravigliarsi se in tutta una folla di ragazzi ne trovano appena due o tre che ricavino qualche buon frutto dal loro insegnamento. Non gli chieda conto soltanto delle parole della sua lezione, ma del senso e della sostanza, e giudichi del profitto che ne avrà tratto non dalle prove della sua memoria, ma della sua vita. Ciò che avrà imparato, glielo faccia esporre in cento guise e adattare ad altrettanti soggetti diversi, per vedere se l’ha anche afferrato bene e fatto veramente suo.

Basandosi, come modello al suo procedere, sui principi pedagogici di Platone. È segno d’imbarazzo di stomaco e d’indigestione rigettare il cibo come lo si è inghiottito. Lo stomaco non ha compiuto la sua operazione se non ha fatto cambiare aspetto e forma a quello che gli si era dato da digerire. La nostra anima non si muove che sulla parola altrui, legata e costretta dalla brama delle fantasie di altri, serva e prigioniera sotto l’autorità del loro insegnamento. Ci hanno sottoposto per tanto tempo alle dande che non sappiamo più camminare da soli. Il nostro vigore e la nostra libertà sono spenti. Nunquam tutelæ suæ fiunt. […]

Diceva Epicarmo, è l’intelletto che vede e ode, è l’intelletto che approfitta di tutto, che organizza tutto, che agisce, domina e regna: tutte le altre cose sono cieche, sorde e senz’anima. Certo noi lo rendiamo servile e codardo, se non gli lasciamo la libertà di fare alcunché da solo. Chi ha mai domandato al proprio discepolo che cosa gliene sembri della retorica e della grammatica, di questa o quella sentenza di Cicerone? Ce le appiccicano alla memoria tutte adorne di piume, come oracoli dove le lettere e le sillabe sono la sostanza della cosa.

Sapere a memoria non è sapere: è conservare ciò che si è dato in custodia alla propria memoria. Di quello che si sa direttamente se ne dispone, senza guardare al modello, senza volger gli occhi al libro. Fastidiosa scienza, una scienza puramente libresca. Mi auguro che serva di ornamento, non di fondamento. Secondo il parere di Platone, il quale dice che la costanza, la fede, la sincerità sono la vera filosofia, e le altre scienze, che mirano ad altro, sono soltanto belletto.

Vorrei proprio che il Palvallo o Pompeo, questi bei danzatori dei miei tempi, insegnassero le capriole soltanto facendocele vedere, senza che ci muoviamo dai nostri posti, come costoro vogliono istruire il nostro intelletto senza scuoterlo, o che qualcuno ci insegnasse a maneggiare un cavallo o una picca o un liuto o la voce senza esercizio, come costoro vogliono insegnarci a giudicar bene e a parlar bene senza esercitarci né a parlare né a giudicare.

Ora, in questo insegnamento, tutto quello che si presenta ai nostri occhi serve sufficientemente da libro: la malizia di un paggio, la stoltezza di un servo, un discorso fatto a tavola sono altrettante materie nuove. A questo scopo, il commercio con gli uomini è straordinariamente adatto, e così la visita dei paesi stranieri. Non per riportarne soltanto, secondo la moda della nostra nobiltà francese, quanti passi misura Santa Rotonda, o l’eleganza delle mutande della Signora Livia, o, come fanno altri, quanto l’immagine di Nerone in qualche vecchia rovina di laggiù sia più lunga o più larga di quella su qualche sua medaglia. Ma per riportarne soprattutto le indoli di quei popoli e la loro maniera di vivere, e per sfregare e limare il nostro cervello contro quello degli altri. Vorrei che si cominciasse a portarlo in giro fin dalla sua tenera infanzia. […]

[…] In quella scuola che è la società degli uomini ho spesso notato questo vizio: che invece di cercar di conoscere gli altri, ci affanniamo soltanto a far conoscere noi stessi, e siamo più solleciti di vendere la nostra merce che di acquistarne di nuova. Il silenzio e la modestia sono qualità utilissime alla vita di relazione. Si dovrà educare questo fanciullo a risparmiare e dosare la sua dottrina, quando l’avrà acquisita; a non scandalizzarsi per le sciocchezze e le fole che si diranno in sua presenza. Poiché è un’incivile indiscrezione dar contro a tutto ciò che non è di nostro gradimento. Si contenti di correggere se stesso. E non sembri rimproverare agli altri tutto ciò che egli rifiuta di fare, né contrastare le usanze comuni. Licet sapere sine pompa, sine invidia.

Fugga quegli esempi pretenziosi e incivili, e quella puerile ambizione di voler sembrare più acuto coll’essere diverso, e di farsi un nome con critiche e innovazioni. Come è lecito solo ai grandi poeti servirsi delle licenze dell’arte, così si può sopportare solo negli animi grandi ed elevati il mettersi al di sopra della norma. Si quid Socrates et Aristippus contra morem et consuetudinem fecerint, idem sibi ne arbitretur licere: magnis enim illi et divinis bonis hanc licentiam assequebantur. Gli si insegnerà a non entrare in un discorso o in una contesa se non quando vedrà un campione degno di lotta; ed anche in questo caso a non impiegare tutti i mezzi che possono servirgli, ma solo quelli che gli possono servire di più.

Lo si renda accorto nella scelta e nella cernita dei suoi argomenti, e amante della congruenza, e quindi della brevità. Lo si educhi soprattutto ad arrendersi e a ceder le armi alla verità appena la scorga: sia che essa nasca dalle mani del suo avversario, sia che nasca in lui stesso per qualche resipiscenza. Infatti non sarà messo in cattedra per recitare una parte prescritta. Non è impegnato in alcuna causa, se non in quanto l’approvi. Né farà quella professione in cui si vende a denari contanti la libertà di poter pentirsi e ravvedersi. […]

Egli frequenterà, per mezzo delle storie, le grandi anime dei secoli migliori. È questo, se si vuole, uno studio vano; ma è anche, se si vuole, uno studio che dà frutti inestimabili. E il solo studio, come dice Platone, che gli Spartani si fossero riservati per parte loro. Che profitto non trarrà, in questa materia, dalla lettura delle Vite del nostro Plutarco? Ma la mia guida si ricordi a che cosa mira il suo compito. E imprima nella mente del suo discepolo non tanto la data della distruzione di Cartagine, quanto piuttosto i costumi di Annibale e di Scipione; e non tanto dove morì Marcello, quanto perché fosse indegno del suo dovere che morisse là.

Non tanto gli insegni le storie, quanto piuttosto a giudicarle. A mio parere questa è, fra tutte, la materia a cui i nostri ingegni si applicano in più diversa misura. Io ho letto in Tito Livio cento cose che un altro non vi ha letto. Plutarco ve ne ha lette cento più di quelle che io ho saputo leggervi; e forse anche più di quelle che l’autore vi aveva messo. Per alcuni è un puro studio grammaticale; per altri l’anatomia della filosofia, nella quale si penetrano le parti più astruse della nostra natura. […]

Socrate (470-69 - 399 a. C.)

Socrate (470-69 – 399 a. C.)

Quelli che hanno il corpo gracile lo ingrossano con imbottiture: quelli che hanno esile l’argomento, lo gonfiano con parole. Dal frequentare la gente si ricava una meravigliosa chiarezza per giudicare gli uomini. Siamo tutti ristretti e rattrappiti in noi stessi, e non vediamo più in là del nostro naso. Domandarono a Socrate di dove fosse. Non rispose «di Atene», ma «del mondo».

Lui, che aveva l’immaginazione più ampia e più vasta, abbracciava l’universo come la sua città, estendeva le sue conoscenze, la sua compagnia e i suoi affetti a tutto il genere umano. Non come noi che guardiamo soltanto sotto di noi. Quando gelano le vigne nel mio villaggio, il mio prete ne argomenta che è l’ira di Dio sulla razza umana, e giudica che i cannibali hanno già la pepita.

A vedere le nostre guerre civili, chi non grida che questa macchina va sottosopra e che il giorno del giudizio ci sta addosso: senza pensare che si sono viste parecchie cose peggiori e che le diecimila parti del mondo non tralasciano frattanto di darsi bel tempo. Io, se penso alla licenza e all’impunità che portano con sé, mi meraviglio vedendole tanto dolci e benigne. A colui a cui grandina sulla testa sembra che tutto l’emisfero sia in tempesta e in burrasca. […]

Pitagora

Pitagora (571 – 495 a. C.)

Questo gran mondo, che alcuni moltiplicano ancora come specie sotto un genere, è lo specchio in cui dobbiamo guardare per conoscerci dal lato giusto. Insomma, voglio che questo sia il libro del mio scolaro. Tante tendenze, sette, giudizi, opinioni, leggi e costumi ci insegnano a giudicare saviamente dei nostri, e insegnano al nostro giudizio a riconoscere la propria imperfezione e la propria naturale debolezza: che non è apprendimento da poco.

Tanti mutamenti di condizione e l’alterna vicenda della fortuna pubblica ci insegnano a non tenere in troppa considerazione la nostra. Tanti nomi, tante vittorie e conquiste seppellite nell’oblio, rendono ridicola la speranza di eternare il nostro nome con la vittoria su dieci miseri archibugieri e su una bicocca che è conosciuta solo per la sua caduta.

L’orgoglio e la fierezza di tante pompe straniere, la maestà così tronfia di tante corti e grandezze ci rafforza e ci irrobustisce la vista a sostener lo splendore delle nostre senza batter ciglio. Tante migliaia d’uomini sepolti prima di noi ci incoraggiano a non temere di andare a trovare una così buona compagnia nell’altro mondo. E così per tutto il resto.

La nostra vita, diceva Pitagora, assomiglia alla grande e popolosa adunata dei giochi olimpici. Gli uni vi esercitano il corpo per conseguire la gloria nei giochi; altri portano a vendere merci per guadagnare. Vi sono alcuni, e non sono i peggiori, che non cercano altro frutto che guardare come e perché ogni cosa accada, ed essere spettatori della vita degli altri uomini per giudicarne e regolare la propria.

Che cosa è sapere e che cosa ignorare, che deve essere lo scopo dello studio. Che cosa sono il valore, la temperanza e la giustizia. Che differenza c’è tra l’ambizione e la cupidigia, la servitù e la sudditanza, la licenza e la libertà. Da quali segni si riconosce il vero e solido appagamento. Fino a che punto bisogna temere la morte, il dolore e la vergogna, […]

Quali impulsi ci muovono, e le ragioni di moti così diversi in noi. Di fatto mi sembra che i primi ragionamenti con cui si deve abbeverare la sua mente debbano essere quelli che regolano i suoi costumi e il suo buon senso. Che gli insegneranno a conoscersi e a saper ben morire e ben vivere. Fra le arti liberali, cominciamo dall’arte che ci fa liberi. Esse servono tutte in qualche modo ad insegnarci a vivere e ad usufruire della nostra vita: come tutte le altre cose servono in qualche modo a questo. Ma scegliamo quella che serve a ciò direttamente e specificamente.

Se sapessimo contenere tutto ciò che riguarda la nostra vita nei suoi limiti giusti e naturali, troveremmo che la maggior parte delle scienze che sono in uso non sono a nostro uso. Ed anche in quelle che lo sono, vi sono digressioni e approfondimenti assolutamente inutili, che faremmo meglio a tralasciare. E secondo l’insegnamento di Socrate, limitare il corso del nostro studio laddove l’utilità fa difetto. Sapere aude, Incipe: vivendi qui recte prorogat horam, Rusticus expectat dum defluat amnis; at ille Labitur, et labetur in omne volubilis ævum.

Anassimene

Anassimene (586 – 525 a. C.)

È una grande sciocchezza insegnare ai nostri ragazzi la scienza degli astri e il moto dell’ottava sfera, prima dei loro propri: Τί πλειάδεσσι κἀμοί; Τί δ᾽ἀστράσι βοωτέω;I 40 [C] Anassimene scriveva a Pitagora:

«Con che coraggio posso perder tempo dietro al segreto delle stelle, quando davanti agli occhi ho sempre presente o la morte o la schiavitù?» (i re di Persia stavano infatti preparando la guerra contro il suo paese). Ognuno deve dire così: agitato dall’ambizione, dalla cupidigia, dalla temerità, dalla superstizione, e avendo dentro di me altri simili nemici della vita, mi metterò a pensare al moto del mondo?

Dopo che gli sia stato insegnato quello che serve a farlo più saggio e migliore, gli si spiegherà che cosa sono la logica, la fisica, la geometria, la retorica; e avendo il giudizio già formato, verrà ben presto a capo della scienza che sceglierà. La sua lezione si comporrà in parte di conversazione, in parte di letture; talora il suo precettore gli fornirà direttamente passi dell’autore idoneo al fine della sua istruzione; talora gliene presenterà il midollo e la sostanza già masticati. E se, per conto suo, non ha abbastanza dimestichezza coi libri per trovarvi tutti quei bei ragionamenti che vi sono, perché raggiunga il suo scopo si potrà mettergli vicino qualche uomo di lettere, che ad ogni occorrenza gli fornisca le munizioni che saranno necessarie, per distribuirle e dispensarle al suo allievo.

E che questa lezione sia più facile e naturale di quella di Gaza, chi può metterlo in dubbio? Vi sono in quella precetti spinosi e sgradevoli, e parole vane e scarne che non hanno alcuna presa, nulla che vi risvegli lo spirito. In questa invece l’anima trova di che mordere e di che pascersi. Questo frutto è senza paragone più grande, e tuttavia maturerà prima.

È molto strano che al nostro tempo le cose siano giunte al punto che la filosofia è, anche per le persone d’ingegno, un nome vano e fantastico, che non serve a nulla e non ha alcun pregio, sia in teoria sia in pratica. Credo che ne siano causa quei cavilli che hanno invaso i suoi accessi. Si ha gran torto a descriverla inaccessibile ai fanciulli, e con un viso arcigno, accigliato e terribile. Chi me l’ha camuffata sotto questa maschera, esangue e ripugnante? Non c’è nulla di più gaio, di più vivace, di più giocondo e, direi quasi, burlone. Essa non predica che festa e buon tempo.

Una cera triste e sconsolata dimostra che non è qui la sua dimora. Il grammatico Demetrio, incontrando nel tempio di Delfi una compagnia di filosofi seduti insieme, disse loro: «O mi sbaglio, o a vedervi in atteggiamento così calmo e gaio, non state discutendo fra voi». Al che uno di essi, Eracleone di Megara, rispose: «Spetta a quelli che cercano se il futuro del verbo βάλλω ha la doppia λ, o a quelli che cercano la derivazione dei comparativi χεῖρον e βέλτιον, e dei superlativi χείριστον e βέλτιστον, di aggrottar la fronte quando discutono della loro scienza. Ma quanto ai ragionamenti della filosofia, son soliti rallegrare e allietare quelli che li trattano, non irritarli e rattristarli». Deprendas animi tormenta latentis in ægro Corpore, deprendas et gaudia: sumit utrumque Inde habitum facies.

L’anima che alberga la filosofia deve, con la sua sanità, render sano anche il corpo. Deve far risplendere anche al di fuori la sua tranquillità e il suo benessere; deve dare la sua impronta al portamento esteriore e guarnirlo quindi di un’amabile fierezza, di un’aria attiva e allegra e di un contegno soddisfatto e bonario. [C]

Il segno più caratteristico della saggezza è un giubilo costante; la sua condizione è come quella delle cose che sono al di sopra della luna: sempre serena. Sono “Barroco” e “Baralipton” che rendono i loro sostenitori così impastoiati e fumosi, non lei: quelli non la conoscono che per sentito dire. Come? Essa conta di rasserenare le tempeste dell’anima, e di insegnare a ridersi della fame e delle febbri; non con qualche epiciclo immaginario, ma con argomenti naturali e palpabili. Ha per fine la virtù, che non è, come dice la scuola, piantata sulla cima di un monte scosceso, dirupato e inaccessibile. Quelli che l’hanno avvicinata la ritengono, al contrario, situata in una bella pianura fertile e fiorente, da cui essa vede, sì, tutte le cose ben al di sotto di sé, ma dove chi ne sa la direzione può arrivare per strade ombrose, erbose e dolcemente fiorite, agevolmente e per un pendio facile e liscio, come quello delle volte celesti.

Per non aver praticato questa virtù suprema, bella, trionfante, amorosa, dilettevole e al tempo stesso coraggiosa, nemica dichiarata e irreconciliabile di amarezza, dispiacere, apprensione e oppressione, avente per guida la natura, e fortuna e voluttà per compagne, essi sono andati, seguendo la loro debolezza, ad inventar quella sciocca immagine, triste, litigiosa, corrucciata, minacciosa, arcigna, e a collocarla sopra una roccia, in disparte, fra i rovi: fantasma per spaventare la gente. […]

Ci insegnano a vivere quando la vita è passata. Cento scolari hanno preso la sifilide prima di essere arrivati alla lezione di Aristotele sulla temperanza. […] È quel che dice Epicuro all’inizio della sua lettera a Meneceo:

«Il più giovane non rifugga dal filosofare, né il più vecchio se ne stanchi. Chi fa diversamente sembra dire o che per lui non è ancora tempo di viver felicemente, o che non è più tempo».

Per tutte queste ragioni, non voglio che si imprigioni questo ragazzo. Non voglio che lo si abbandoni all’umor melanconico d’un maestro di scuola dissennato. Non voglio corrompere il suo spirito mettendolo alla tortura e al lavoro, come fanno gli altri, quattordici o quindici ore al giorno, come un facchino. Né troverei ben fatto che, se per un certo temperamento solitario e melanconico lo si vedesse dedicarsi con applicazione eccessiva allo studio dei libri, si favorisse in lui questa tendenza. Questo li rende inetti alla vita di società e li distoglie da occupazioni migliori: e quanti uomini ho visto, durante la mia vita, istupiditi da una smodata avidità di scienza! Carneade ci perse la testa al punto che non si curò più di farsi la barba e di tagliarsi le unghie. [A] Né voglio guastare i suoi nobili costumi con l’inciviltà e la barbarie altrui. […]

Diogene di Sinope

Diogene di Sinope

Ecco le mie lezioni. Ne avrà meglio profittato chi le pratica che chi le predica. Se lo vedete, l’udite; se l’udite, lo vedete. «A Dio non piaccia» dice qualcuno in Platone «che filosofare sia imparare parecchie cose e trattare le arti». Hanc amplissimam omnium artium bene vivendi disciplinam vita magis quam literis persequuti sunt.

Leone, principe dei Fliasi, domandò a Eraclide Pontico di quale scienza, di quale arte faceva professione. «Io non conosco» rispose quello «né arte né scienza, ma sono filosofo».

Si rimproverava a Diogene che, essendo ignorante, si occupasse di filosofia: «Me ne occupo» disse «tanto più a proposito».

Egesia lo pregava di leggergli qualche libro: «Siete davvero curioso» gli rispose «scegliete i fichi veri e naturali, non quelli dipinti; perché dunque non scegliete anche gli esercizi naturali, veri e non scritti?». Egli non ridirà la sua lezione, quanto piuttosto la realizzerà. La ripeterà nelle sue azioni. Si vedrà se c’è saggezza nelle sue imprese, se c’è bontà e giustizia nel suo comportamento, se c’è giudizio e grazia nel suo parlare, forza nelle malattie, moderazione nei giochi, temperanza nei piaceri, indifferenza nel gusto, sia carne, pesce, vino o acqua, ordine nella sua amministrazione: Qui disciplinam suam, non ostentationem scientiæ, sed legem vitæ putet, quique obtemperet ipse sibi, et decretis pareat. Il vero specchio dei nostri ragionamenti è il corso della nostra vita.

Zeusidamo rispose a uno che gli domandava perché gli Spartani non redigevano per scritto le regole del valore e non le davano da leggere ai loro giovani: che era perché li volevano abituare ai fatti, non alle parole. In capo a quindici o sedici anni, paragonate a costui uno di quei bei latinanti di collegio, che avrà impiegato altrettanto tempo ad imparare semplicemente a parlare. La gente non è che chiacchiera, e non vidi mai uomo che non dica piuttosto di più che di meno di quel che deve; tuttavia la metà della nostra vita se ne va così.

Ci tengono per quattro o cinque anni a imparare le parole e a cucirle in frasi. Altrettanti a formarne tutto un insieme, composto di quattro o cinque parti. E altri cinque almeno a imparare a fonderle in poco spazio e a concatenarle in qualche maniera sottile. Lasciamo tutto ciò a coloro che ne fanno espressa professione.[…]

Per tornare al mio discorso, non c’è che da assecondare il desiderio e l’amore, altrimenti non si fanno che asini carichi di libri. A colpi di frusta gli si dà in custodia la loro sacchetta piena di scienza, che, per far bene, bisogna non soltanto riporla in sé, bisogna sposarla.

Print Friendly, PDF & Email


Comments are closed.


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: