Nel corso tenuto a Berkley nell’autunno 1983, sei mesi prima di morire, Foucault si propose di indagare la nascita dell’attitudine critica in Occidente e la genealogia del soggetto e delle moderne forme di condotta occidentale. Nel tracciare la storia della libertà di parola nel mondo antico, Foucault indagò non il modo in cui l’idea o la pratica sono emerse, si sono affermate o diffuse, ma il modo in cui sono diventate un problema, staccandosi dalla normalità o familiarità di cui erano circondate in precedenza – da questo punto di vista, ogni problematizzazione si riferisce a fenomeni esistenti, ma considerati ovvi, dunque non esaminati prima.
Nel primo di questi sei seminari californiani, Foucault definì la parresia, il parlar franco o capacità di dire la verità e l’evoluzione del termine. Si rivolse poi all’idea di parresia nelle tragedie di Euripide ed evidenziò come la crisi delle istituzioni democratiche avesse cambiato il significato del termine, originariamente diritto di critica dei cittadini liberi e uguali – in quanto maschi e proprietari – legandolo progressivamente alle qualità etico-morali di chi la esercitava (il parresiastes) e di chi la subiva (il re). Dedicò infine l’ultimo seminario all’epimeleia eautou, la cura di sé, prassi caratterizzata da uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, con se stessi attraverso il pericolo, con gli altri attraverso la critica e con la legge morale attraverso la libertà e il dovere.
La cura di sé è un antidoto ai giochi di potere e di dominazione che ricorre a strategie di verità tanto più urgenti quanto più i processi di soggettivazione si intrecciano con quelli di inglobamento nella totalità sociale. Per ricavarsi uno spazio di autonomia e governare se stesso l’individuo deve quindi trovare il coraggio e la determinazione di dire il vero, modi per dare dignità e coerenza alla propria esperienza, così da essere meglio attrezzati nell’attraversamente del deserto del presente.
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Il testo seguente riproduce l’intero corso ad eccezione del commento ad Euripide. Si suggeriscono, per la particolare bellezza, le trattazioni foucaultiane del cinismo (Diogene e Alessandro, pp. 22-30) e degli esercizi di Epitteto (pp. 41-42). Per una lettura più agevole, cliccare sull’icona “stampa” in fondo al testo e scaricare il pdf. il cui indice è il seguente:
I. Il significato della parola, p. 1
Parresia e parlar chiaro, p. 2
Parresia e verità, p. 3
Parresia e pericolo, p. 4
Parresia e critica, p. 5
Parresia e dovere, p. 5
II. L’evoluzione della parola, p. 6
III. La parresia e la crisi delle istituzioni democratiche, p. 8
IV. La parresia e la cura di sé, p. 12
1. La parresia filosofica, p. 12
1.1 La parresia socratica, p. 13
2. La pratica della parresia, p. 19
2.1 Parresia e vita pubblica, p. 22
2.2 Parresia e relazioni interpersonali, p. 31
Osservazioni conclusive, p. 43
I. Significato ed evoluzione della parola parresia
1. Il significato della parola
La parola parresia appare per la prima volta nella letteratura greca in Euripide (ca. 484-407 a.C.), e ricorre in tutto il mondo letterario greco antico a partire dalla fine del V secolo a.C. Ma la si può trovare anche nei testi patristici scritti alla fine del IV e per tutto il V secolo d.C., per esempio decine di volte in Giovanni Crisostomo (345-407 d.C.).
Ci sono tre forme della parola: la forma nominale parresia (παρρησία); la forma verbale parresiazomai (παρρησίαξομαι) – o meglio parresiazestai (παρρησίαξεσται); e ce anche la parola parresiastes (παρρησίαστησ), che però non è molto frequente e non si trova nei testi classici. La si può trovare solo nel periodo greco-romano, per esempio in Plutarco e in Luciano. In un dialogo di Luciano, Il morto risuscitato, o il pescatore uno dei personaggi ha addirittura il nome di «Parresiades».
Parresia è di solito tradotto in inglese con «free speech» (in francese con «franc-parler», in tedesco con «Freimùtigkeit» [in italiano con «parlar chiaro», n.d.t.]). Parresiazomai o parresiazestai è usare la parresia, e parresiastes è colui che usa la parresia, cioè che dice la verità. Nella prima parte del seminario di oggi, vorrei dedicare uno sguardo generale al significato della parola parresia e all’evoluzione di questo significato attraverso la cultura greca e romana.
Parresia e parlar chiaro
Per cominciare, qual è il significato generale della parola parresia? Etimologicamente, parresiazestai significa «dire tutto», da «pan» (tutto) e «rhema» (ciò che viene detto). Colui che usa la parresia, il parresiastes, è qualcuno che dice tutto ciò che egli ha in mente: il parresiastes non teme niente, ma apre completamente il cuore e la mente agli altri attraverso il suo discorso. Nella parresia, si suppone che il parlante dia una spiegazione completa ed esatta di ciò che ha in mente, così che chi ascolta sia in grado di comprendere esattamente ciò che egli pensa. La parola parresia, perciò, si riferisce a un tipo di relazione tra il parlante e ciò che viene detto. Nella parresia, infatti, il parlante rende manifestamente chiaro e ovvio il fatto che ciò che egli dice è la sua personale opinione. Ed egli fa questo evitando qualunque tipo di forma retorica, che potrebbe far velo a ciò che pensa. Anzi, il parresiastes usa le parole e le forme espressive più dirette che può. Mentre la retorica fornisce al parlante strumenti tecnici per aiutarlo ad avere il sopravvento sulle opinioni dei suoi ascoltatori (indipendentemente dalla opinione personale del retore su ciò che egli sta dicendo), nella parresia il parresiastes agisce sulle opinioni degli altri manifestando loro il più direttamente possibile ciò che egli effettivamente crede.
Se si fa una distinzione tra il soggetto parlante (il soggetto dell’enunciazione) e il soggetto grammaticale dell’enunciato, potremmo dire che vi è anche un soggetto dell’enunciandum, che si riferisce strettamente alla credenza o all’opinione del parlante. Nella parresia il parlante sottolinea il fatto che egli è contemporaneamente il soggetto dell’enunciazione e dell’enunciandum, cioè che egli stesso è il soggetto dell’opinione a cui si sta riferendo. La specifica «attività oratoria» dell’enunciazione parresiastica prende dunque la forma:
«sono io che penso questo e quello».
Uso «attività oratoria» (piuttosto che «atto oratorio», come fa John Searle, o «espressione performativa», come Austin) al fine di distinguere l’espressione parresiastica e le sue intenzioni dalle normali forme di intenzione che intercorrono tra una persona e ciò che essa dice. Come vedremo, infatti, l’intenzione che comporta la parresia è legata a una certa situazione sociale, a una differenza di status tra il parlante e il suo uditorio, al fatto che il parresiastes dice qualcosa di pericoloso per lui, qualcosa che comporta un rischio, e così via.
Parresia e verità
Dobbiamo distinguere tra due tipi di parresia. In primo luogo, vi è un senso dispregiativo della parola, non molto distante da «chiacchiera», e che equivale a dire tutto ciò che si ha in mente senza specificazioni. Questo senso dispregiativo si trova in Platone [Repubblica, 577b; Fedro 240e; Leggi 649b, 671b], per esempio, come una caratterizzazione della cattiva costituzione democratica, in cui ciascuno ha il diritto di rivolgersi ai propri concittadini e di dir loro qualunque cosa, anche la più stupida o la più pericolosa per la città. Il significato dispregiativo si trova anche e più di frequente nella letteratura cristiana, in cui una certa «cattiva» parresia è opposta al silenzio, come disciplina o come condizione indispensabile per la contemplazione di Dio. Come attività verbale che riflette tutti i momenti del cuore e della mente, la parresia in questo senso negativo è ovviamente un ostacolo alla contemplazione di Dio.
Tuttavia, nei testi classici, il più delle volte, la parresia non ha questo significato dispregiativo, ma ne ha piuttosto uno positivo: parresiazestai significa «dire la verità». Ma il parresiastes dice ciò che egli pensa sia la verità, o dice quello; che è realmente vero? Secondo me il parresiastes dice ciò che è vero perché egli sa che è vero; ed egli sa che è vero perché è realmente vero. Non è solo che il parresiastes è sincero nel dire qual è la sua opinione; è che la sua opinione è anche la verità. Egli dice ciò che sa essere vero. La seconda caratteristica della parresia, è dunque che c’è tempre in essa una esatta coincidenza tra opinione e verità.
Sarebbe interessante comparare la parresia greca con la concezione moderna – cartesiana – dell’evidenza. Poiché da Cartesio in poi la coincidenza tra opinione e verità è ottenuta entro una certa esperienza mentale evidenziale. Per i greci, invece, la coincidenza tra opinione e verità non ha luogo in una esperienza mentale, ma in una attività verbale, segnatamente nella parresia. Sembra dunque che la parresia, in questo senso greco, non possa più ricorrere entro la nostra moderna cornice epistemologica.
Vorrei osservare che non ho mai trovato alcun testo nella cultura greca antica in cui il parresiastes sembri avere il minimo dubbio sul fatto di possedere la verità. E in effetti, è questa la differenza tra il dubbio cartesiano e l’atteggiamento parresiastico. Poiché prima che Cartesio raggiunga una evidenza indubitabilmente chiara e distinta, egli non è affatto certo che quello che crede sia effettivamente vero. Invece, nella concezione greca della parresia non sembra esservi un problema circa l’acquisizione della verità, giacché il fatto di avere la verità è garantito dal possesso di certe qualità morali: quando qualcuno ha certe qualità morali, allora quella è la prova che egli ha l’accesso alla verità, e viceversa. Il «gioco parresiastico» presuppone che il parresiastes sia qualcuno che possiede le qualità morali che sono richieste; per prima cosa, conoscere la verità, e, secondo, comunicare tale verità agli altri. Se c’è una specie di «prova» della sincerità del parresiastes, essa sta nel suo coraggio. Il fatto che un parlante dica qualcosa di pericoloso – qualcosa di differente da ciò che la maggioranza crede – è una forte indicazione del fatto che egli sia un parresiastes.
Quando poniamo la questione di come possiamo sapere se colui che parla dice la verità, poniamo in realtà due questioni. Primo, come possiamo sapere se quel particolare individuo è uno che dice la verità; e secondo, come l’asserito parresiastes possa essere certo del fatto che ciò che egli crede sia effettivamente vero. La prima questione – riconoscere qualcuno come parresiastes – era molto importante nella società greco-romana, e, come vedremo, fu esplicitamente solevata e discussa da Plutarco, Galeno e altri. La seconda questione, invece, è specificamente moderna, estranea, credo, al mondo greco.
Parresia e pericolo
Colui che usa la parresia è riconosciuto per tale, e merita considerazione come parresiastes, solo se il fatto di dire la verità comporta per lui un rischio o un pericolo. Per esempio, dal punto di vista greco antico, un insegnante di grammatica può dire la verità al ragazzo a cui insegna, e in effetti può non esservi il minimo dubbio sul fatto che ciò che egli insegna sia la verità. Ma nonostante questa coincidenza tra opinione e verità, egli non è un parresiastes. Invece, quando un filosofo si rivolge a un sovrano, a un tiranno, e gli dice che la sua tirannide è pericolosa e spiacevole, perché la tirannide è incompatibile con la giustizia, in quel caso il filosofo dice la verità, crede di stare dicendo la verità, e ancor più, corre un rischio (giacché il tiranno può adirarsi, può punirlo, può esiliarlo, può ucciderlo). Fu questa esattamente la situazione in cui si trovò Platone con Dionigi a Siracusa – sulla quale ci sono interessantissimi riferimenti nella Lettera settima di Platone, e anche nella Vita di Dionigi di Plutarco.
Quindi, come vedete, il parresiastes è qualcuno che corre un rischio. Naturalmente, non sempre è il rischio della vita. Quando per esempio qualcuno vede un amico che sta commettendo un errore e rischia di incorrere nelle sue ire dicendogli che sta sbagliando, costui sta agendo da parresiastes. In tal caso, certo, non rischia la vita, ma può irritare l’amico coi suoi rilievi, e conseguentemente l’amicizia può risentirne. Se, in una discussione politica, un oratore rischia di perdere la sua popolarità perché la sua opinione è contraria a quella della maggioranza, o perché può condurre ad uno scandalo politico, egli sta usando la parresia. La parresia dunque è legata al coraggio di fronte al pericolo: essa richiede propriamente il coraggio di dire la verità a dispetto di un qualche pericolo. E nella sua forma estrema, dire la verità diventa un «gioco» di vita o di morte.
È proprio perché il parresiastes deve correre un rischio nel dire la verità che il re o il tiranno in genere non possono usare la parresia; essi non rischiano nulla. Quando si accetta il gioco parresiastico, in cui si mette a repentaglio la propria vita, si sta tenendo una specifica relazione con se stessi ; si rischia la vita per dire la verità invece di riposare sulla sicurezza di una vita in cui la verità resta inespressa. Naturalmente, la minaccia di morte viene dall’altro, e dunque comporta una relazione con l’altro. Ma prima di tutto il parresiastes sceglie una specifica relazione con se stesso; egli preferisce essere uno che dice la verità, piuttosto che un essere umano falso con se stesso.
Parresia e critica
Se, durante un processo, qualcuno dice qualcosa che può essere usata contro di lui, nonostante il fatto che sia sincero, che creda di star dicendo la verità, e che si stia esponendo ad un pericolo nel dire quello che sta dicendo, non è affatto detto che egli stia usando la parresia. Nella parresia, infatti, il pericolo viene sempre dal fatto che la verità asserita è capace di urtare o irritare l’interlocutore. La parresia quindi è sempre un «gioco» tra chi dice la verità e il suo interlocutore. La parresia, per esempio, può consistere nell’esprimere l’avviso che l’interlocutore avrebbe dovuto comportarsi in un certo modo, o che sta sbagliando in ciò che pensa, o nel modo con cui agisce, e così via. Oppure la parresia può essere una confessione di quello che il soggetto parlante ha fatto, nella misura in cui egli rende questa confessione a qualcuno che esercita un potere su di lui, ed è in grado di censurarlo o di punirlo per quello che ha fatto. Come vedete, la funzione della parresia non è di dimostrare la verità a qualcun altro, ma è quella di esercitare una critica: una critica dell’interlocutore, o anche di se stesso. «Questo è quello che fai e questo è quello che pensi; ma questo è quello che non dovresti fare e che non dovresti pensare». «Questo è il modo in cui agisci, ma quell’altro è il modo in cui dovresti agire». «Questo è quello che ho fatto; e ho sbagliato». La parresia è una forma di critica, verso gli altri o verso se stesso, ma sempre in una posizione in cui colui che parla o che confessa è in una condizione di inferiorità rispetto all’interlocutore, il parresiastes è sempre meno potente della persona con cui sta parlando. La parresia viene dal «basso», ed è diretta verso l’«alto». Per questo un greco antico non avrebbe mai detto di un insegnante o di un padre che critica suo figlio che essi usano la parresia. Ma quando un filosofo critica un tiranno, quando un cittadino critica la maggioranza dell’assemblea, quando un allievo critica il maestro, è possibile che costoro usino la parresia.
Ciò non vuol dire, tuttavia, che tutti possano usare la parresia. C’è un testo in Euripide in cui un servo usa la parresia ; ma il più delle volte l’uso della parresia richiede che il parresiastes conosca la propria genealogia e il proprio status; ciò vuoi dire che normalmente, per poter dire la verità come parresiastes, bisogna essere un cittadino maschio. E in effetti, colui che è privato della parresia si trova nella medesima situazione di uno schiavo, in quanto non può partecipare alla vita politica della città, né giocare al «gioco» della parresia. Nella «parresia democratica», per poter parlare all’assemblea, all’ekklesia (εκκλησια), si deve essere cittadini; anzi, in effetti, si deve essere tra i cittadini migliori, si devono possedere quelle specifiche qualità personali, morali e sociali che garantiscano il privilegio di parlare.
Il parresiastes, però, mette a rischio il suo privilegio di parlare liberamente quando svela una verità che mette paura alla maggioranza. È una situazione giuridica ben conosciuta quella per cui alcuni capi ateniesi vennero esiliati solo perché proponevano qualcosa che era avversata dalla maggioranza, o anche solo perché l’assemblea pensava che il forte influsso di questi capi potesse limitare la libertà collettiva. In questo modo l’assemblea «si proteggeva» contro la verità. Questo è lo sfondo istituzionale della « parresia democratica», che deve essere distinta dalla «parresia monarchica», in cui un consigliere dà al suo sovrano consigli utili e onesti.
Parresia e dovere
L’ultima caratteristica della parresia è che in essa il dire la verità è considerato come un dovere. Per esempio, l’oratore che dice la verità a coloro che non vogliono accettarla, e che può essere per questo esiliato o in qualche modo punito, è libero di stare zitto; nessuno lo costringe a parlare: ma egli sente che è suo dovere fare così. Quando, viceversa, qualcuno è costretto a dire la verità (per esempio sotto la minaccia della tortura) allora il suo discorso non è un discorso parresiastico. Un criminale che è costretto dai suoi giudici a confessare il proprio crimine non usa la parresia. Ma se egli confessa volontariamente la propria colpa, al di fuori di un senso di obbligazione morale, allora egli compie un atto parresiastico. Criticare un amico o un sovrano è un atto di parresia perché è un dovere aiutare un amico che non riconosce i suoi errori, ed è egualmente un dovere verso la città aiutare il re a migliorare la sua capacità di governo. La parresia è dunque connessa con la libertà e il dovere.
Proviamo a riassumere quanto detto finora. La parresia è una specie di attività verbale in cui il parlante ha uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, una certa relazione con la propria vita attraverso il pericolo, un certo tipo di relazione con se stesso e con gli altri attraverso la critica (autocritica o critica di altre persone), e uno specifico rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere. Più precisamente, la parresia è un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità, e rischia la propria vita perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o se stesso) a vivere meglio. Nella parresia il parlante fa uso della sua libertà, e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell’adulazione, e il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale. Questo, in linea generale, è il significato positivo della parola parresia nella maggior parte dei testi greci in cui essa ricorre, dal V secolo a.C. al V secolo d.C.
2. L’evoluzione della parola.
Ciò che vorrei fare in questo seminario non è analizzare tutte le dimensioni e le sfaccettature della parresia ma piuttosto sottolineare alcuni aspetti dell’evoluzione del gioco parresiastico nella cultura antica, dal V secolo a.C. fino agli inizi del mondo cristiano. E credo che questa evoluzione possa essere analizzata da tre punti di vista.
Parresia e retorica
Il primo punto di vista riguarda il rapporto tra la parresia e la retorica, un rapporto che si fa problematico a partire da Euripide. Nella tradizione socratico-platonica, la parresia e la retorica stanno in forte opposizione; e questa opposizione appare chiarissima nel Gorgia, per esempio nei luoghi in cui compare direttamente la parola parresia. Il discorso lungo e continuo è una modalità retorica o scettica, mentre è tipico della parresia il dialogo tramite domande e risposte; il dialogo è una tecnica molto importante nel gioco parresiastico.
L’opposizione tra parresia e retorica percorre anche il Fedro, dove il problema centrale non concerne l’opposizione tra linguaggio parlato e linguaggio scritto, ma piuttosto la differenza tra il logos che dice la verità e il logos che non è capace di essere veritiero. Questa opposizione tra parresia e retorica, così nettamente tracciata nel IV secolo a.C. negli scritti di Platone, rimarrà presente per molti secoli nella tradizione filosofica. In Seneca, per esempio, si trova l’idea che i colloqui personali sono il veicolo migliore per parlare franco e dire la verità, perché in simili conversazioni si può fare a meno della necessità di orpelli retorici e di frasi di ornamento. E anche nel II secolo d.C. l’opposizione culturale tra retorica e filosofia è ancora molto chiara e rilevante.
Si possono però trovare anche alcuni segni dell’incorporazione della parresia nel campo della retorica nel lavoro di alcuni retori all’inizio dell’Impero. Per esempio, nella Institutio oratoria, Quintiliano spiega che certe figure retoriche sono particolarmente adatte per rendere più intense le emozioni dell’uditorio; ed egli attribuisce a simili figure tecniche il nome di exclamationes. Connessa a queste vi è una sorta di esclamazione naturale che, osserva Quintiliano, non è «simulata o disegnata artificialmente». Egli chiama questo tipo di esclamazione naturale «parlar libero» (libera oratio), e aggiunge che l essa era chiamata «licenza» (licentia) da Cornificio, e parresia dai greci. La parresia è dunque una sorta di «figura» tra le altre figure retoriche; ma con questa caratteristica: che è una figura priva di ogni figura, dal momento che è completamente naturale. La parresia è il grado zero di quelle figure retoriche che rendono più intense le emozioni dell’uditorio.
Parresia e politica
Il secondo aspetto rilevante dell’evoluzione della parresia si riferisce all’ambito politico. Per come appare nelle tragedie di Euripide e in altri testi del IV secolo a.C., la parresia è una caratteristica essenziale della democrazia ateniese. Naturalmente dovremo approfondire il ruolo della parresia nella costituzione ateniese. Ma possiamo dire fin d’ora, in generale, che la parresia era una idea guida per la democrazia, così come un atteggiamento etico e personale caratteristico del buon cittadino. La democrazia ateniese fu definita in modo del tutto esplicito come una costituzione (politeia, πολιτεια) in cui il popolo apprezzava la democrazia (δημοκρατια), l’eguale diritto di parola (isegoria, ἰσηγορία), l’eguale partecipazione di tutti i cittadini all’esercizio del potere (isonomia, ισονομια), e la parresia. La parresia, che è un requisito del discorso pubblico, si esercita dunque tra cittadini in quanto individui, ed anche tra cittadini costituiti in assemblea. Anzi, l’agora (αγορα) il luogo in cui la parresia più propriamente si manifesta. Nel periodo successivo questo significato politico cambia col sorgere delle monarchie ellenistiche. La parresia si concentra ora nella relazione tra il sovrano e i suoi consiglieri o cortigiani.
Nella costituzione monarchica dello stato, è dovere del consigliere usare la parresia per aiutare il re nelle sue decisioni, e metterlo in guardia dalla tentazione di abusare del potere. La parresia è utile e necessaria sia per il re che per il popolo che gli è sottoposto. Il sovrano, per ciò che lo riguarda, non è un parresiastes; ma una efficace pietra di paragone di un buon sovrano è la sua abilità nel condurre il gioco parresiastico. Così, un buon re accetta tutto quello che gli dice un genuino parresiastes, anche se può risultare spiacevole ascoltare le critiche rivolte alle decisioni che ha preso. Al contrario, un sovrano si mostra un tiranno se non tiene in conto i suoi onesti consiglieri, o se li punisce per ciò che hanno detto. L’immagine del sovrano, per la maggior parte degli storici greci, è condizionata dal modo in cui egli si comporta verso i suoi consiglieri; questo comportamento è infatti considerato un indice della sua capacità di dare ascolto al parresiastes.
C’è anche una terza categoria di giocatori, nel gioco parresiastico monarchico: la maggioranza silenziosa, il popolo in generale, il quale non è presente alle conversazioni tra il re e i suoi consiglieri, ma al quale si riferiscono e in nome del quale parlano i consiglieri quando danno un parere al re. Il luogo in cui la parresia si esercita nel contesto del potere monarchico è la corte del re, e non più l’ agora.
Parresia e filosofia
L’evoluzione della parresia può infine essere seguita attraverso le sue relazioni con il campo della filosofia, considerata come «arte della vita» (techne tou biou, τεκνυ του βιου). Negli scritti di Platone, Socrate appare nel ruolo del parresiastes. Sebbene la parola parresia appaia parecchie volte in Platone, egli non usa mai la parola parresiastes; questa parola apparirà solo più tardi nel vocabolario greco. E tuttavia il ruolo di Socrate è tipicamente un ruolo parresiastico, poiché egli discute costantemente per strada con gli ateniesi e, come viene fatto notare nell’Apologia, rivela loro la verità, esortandoli ad avere cura della saggezza, verità e perfezione delle loro anime. Allo stesso modo, nell’Alcibiade maggiore, Socrate asssume nel dialogo un ruolo parresiastico. Giacché, mentre gli amici e gli amanti di Alcibiade lo lusingano tutti nel tentativo di ottenere i suoi favori, Socrate rischia di provocarne le ire quando lo conduce a questa idea: che prima che Alcibiade sia capace di compiere ciò che staproponendo di fare cioè di diventare il primo fra gli ateniesi, di governare Atene, e di diventare più potente del re di Persia, prima che sia capace di prendersi cura di Atene, egli deve imparare a prender cura di se stesso. La parresia filosofica è così associata al tema della cura di sé (epimeleia eautou, επιμελεια εαuτου).
A partire dal tempo degli epicurei, l’affinità della parresia con la cura di sé si sviluppò a tal punto che la parresia stessa venne considerata essenzialmente come una techne di guida spirituale per l’«educazione dell’anima». Filodemo (ca. 110-140 a.C.), per esempio, il quale, insieme con Lucrezio (ca. 99-55 a.C.) fu uno dei più significativi scrittori epicurei del I secolo a.C. – scrisse un libro sulla parresia (Peri parresias, Περι παρρησίας) che riguarda tecniche utili per insegnante ed aiutarsi l’un l’altro nella comunità epicurea. Esamineremo alcune di queste tecniche parresiastiche per come si svilupparono, per (esempio, nelle filosofie stoiche di Epitteto, di Seneca e di altri autori.
III. La parresia e la crisi delle istituzioni democratiche
Oggi vorrei completare quello che avevo cominciato a dire l’altra volta, a proposito della parresia e della crisi delle istituzioni democratiche nel IV secolo a.C.; vorrei poi spostarmi sull’analisi di un’altra forma di parresia, cioè la parresia nel campo delle relazioni personali (con se stessi e con gli altri), o della parresia come cura di sé. La critica esplicita a coloro che usavano la parresia nel senso negativo del termine divenne un luogo comune nel pensiero politico greco a partire dalla Guerra del Peloponneso; emerse allora una discussione a proposito del rapporto tra parresia e istituzioni democratiche.
Il problema, molto schematicamente, era il seguente. La democrazia è fondata da una politeia, da una costituzione, in cui il demos, il popolo, esercita il potere, e in cui ciascuno è uguale agli altri di fronte alla legge. Una simile costituzione, tuttavia, è condannata a lasciare eguale spazio a tutte le forme di parresia, anche alle peggiori. Dal momento che la parresia è concessa anche ai cittadini peggiori, la crescente influenza di oratori cattivi, immorali o ignoranti, può condurre la cittadinanza alla tirannide, o mettere in qualche altro modo in pericolo la città. Perciò la parresia può essere pericolosa per la stessa democrazia. A noi questo problema sembra ovvio e familiare, ma per i greci la sua scoperta, l’individuazione di una necessaria antinomia tra parresia – libertà di parola – e democrazia, inaugurò un lungo e appassionato dibattito relativo specificamente alla natura dei rapporti pericolosi che sembravano intercorrere tra democrazia, logos, libertà e verità.
Dobbiamo considerare il fatto che conosciamo un versante della discussione molto meglio dell’altro, per la semplice ragione che la maggior parte dei testi che si sono conservati di questo periodo viene da autori che erano o più o meno direttamente affiliati al partito aristocratico, o quanto meno diffidenti verso le istituzioni democratiche o radicalmente democratiche. E vorrei citare un certo numero di questi testi per esemplificare il problema che stiamo esaminando. Il primo è una satira ultra-conservatrice, ultra-aristocratica, della costituzione ateniese, scritta probabilmente nella seconda metà del V secolo. Per una lunga fase questa satira fu attribuita a Senofonte. Ma ora gli studiosi concordano sul fatto che quella attribuzione non è corretta, e i classicisti anglo-americani hanno un curioso nomignolo per questo Pseudo-Senofonte, lo sconosciuto autore della satira: lo chiamano il «Vecchio oligarca». Il testo proviene, presumibilmente, da uno di quei circoli aristocratici o gruppi politici che erano particolarmente attivi ad Atene alla fine del V secolo. Tati circoli influirono potentemente sulla rivoluzione antidemocratica del 411 a.C., durante la Guerra del Peloponneso. La satira ha paradossalmente la forma di un elogio o di un panegirico, un genere molto familiare ai greci. Si immagina che l’autore sia un democratico ateniese che pone l’accento su alcune tra le più ovvie imperfezioni, deficienze, distorsioni e lacune delle istituzioni democratiche e della vita politica di Atene; ed egli elogia queste imperfezioni come se fossero altrettante qualità, destinate a determinare conseguenze positive. Il testo è privo di un vero e proprio valore letterario, dal momento che il suo autore è più aggressivo che arguto. Ma vi si può trovare la tesi che è alla radice di moltissime critiche alle istituzioni democratiche ateniesi, e che è, io credo, significativa di questo tipo di atteggiamento radicalmente antidemocratico. La tesi aristocratica è la seguente. Il demos, il popolo è il più numeroso. Dal momento che è il più numeroso, il demos comprende anche i cittadini più ordinari, e per conseguenza anche i peggiori. Perciò il demos non può comprendere i cittadini migliori. Così, quello che può essere il meglio per il demos può non essere il meglio per la polis, per la città. Con questo argomento generale sullo sfondo, il «Vecchio oligarca» plaude ironicamente alle istituzioni democratiche ateniesi; e vi sono alcuni lunghi brani che mettono alla berlina la libertà di parlare: Ora si potrebbe dire che la cosa migliore sarebbe che [il popolo] non consentisse a chiunque di parlare su base paritaria, o di avere un seggio in consiglio, ma solo ai più illustri e ai migliori. Ma naturalmente, anche su questo punto hanno stabilito la cosa più giusta, consentendo di parlare anche alla gente qualunque. Se infatti fosse consentito di parlare e di partecipare al dibattito soltanto all’aristocrazia, ciò sarebbe buono per loro e per i loro pari, ma non per quelli di basso rango. Ora, invece, anche le persone volgari che lo desiderino possono farsi avanti e prendere la parola, sicché anch’esse potranno dichiarare ciò che è bene per loro e per i loro simili. Ci si potrebbe chiedere: come farà una tale persona a capire ciò che è bene per sé o per il popolo? Ora, la massa capirà che l’ignoranza, la volgarità e la simpatia di costui le sono molto più utili di tutta la moralità, la saggezza e l’antipatia di un aristocratico. Con un simile ordine sociale, è vero, lo stato non potrà evolversi verso la perfezione, ma in tal modo la democrazia potrà essere mantenuta al meglio. Infatti, al popolo non importa nulla trovarsi nella condizione di schiavo in uno stato con una costituzione perfetta; il popolo vuole essere libero e comandare; che la costituzione sia cattiva o meno, al popolo non interessa più di tanto. In effetti quella che voi ritenete il contrario di una costituzione ideale, è proprio la condizione perché il popolo sia libero e possa comandare. Se dunque cercate una costituzione ideale, farete in modo che in primo luogo le leggi siano fatte dalle persone più esperte; in secondo luogo, che l’aristocrazia sia consultata circa gli affari dello stato e impedisca che persone indegne abbiano un seggio in consiglio o parlino o prendano parte all’assemblea del popolo. Ma come conseguenza di queste buone riforme il popolo, per parte sua, precipiterà piuttosto nella schiavitù.
Vorrei passare ora a un altro testo che presenta una posizione molto più moderata. E un testo scritto da Isocrate alla metà del IV secolo a.C.; e Isocrate si riferisce in varie occasioni alla nozione di parresia e al problema del parlare chiaro in una democrazia. All’inizio della sua grande orazione, Sulla pace ( Περι ειρηνες), scritta nel 355 a.C., Isocrate contrappone l’atteggiamento dei cittadini ateniesi a proposito del fatto di ricevere consigli circa i loro affari privati, nel qual caso consultano individui assennati e ben educati, al modo in cui essi considerano i consigli quando hanno a che fare con i pubblici affari e le attività politiche:
[…] quando dovete prendere una decisione sui vostri problemi privati, cercate i consulenti più esperti; quando invece vi riunite in assemblea cittadina, agli esperti non credete per puro astio e adorate i peggiori tra quelli che salgono sulla tribuna, perché avete una precisa graduatoria in fatto di democrazia: gli ubriaconi sono meglio dei sobri, gli stupidi meglio dei saggi, i maneggioni meglio di chi ci rimette del proprio per servire lo stato. A questo punto è davvero legittimo stupirsi che ci sia ancora chi spera che con questa razza di consiglieri la città possa progredire verso il meglio .
Ma non solo gli ateniesi stanno a sentire gli oratori più corrotti; essi non vogliono sentire gli oratori che sono davvero bravi, e negano loro la possibilità di essere ascoltati:
[…] vedo che voi non prestate la vostra attenzione a tutti gli oratori nello stesso modo, ma ad alcuni porgete orecchio, di altri non tollerate neanche il tono di voce. E non vi è nulla di strano nel vostro comportamento: prima addirittura cacciavate via chiunque non vi dicesse ciò che volevate sentirvi dire.
Questo è importante, io credo. Voi vedete che la differenza tra il buono e il cattivo oratore non sta tanto nel fatto che il primo dà buoni consigli e il secondo ne dà di cattivi. La differenza sta piuttosto nel fatto che gli oratori corrotti, che sono ben accetti al popolo, dicono solo quello che il popolo desidera sentire. Perciò Isocrate chiama questo tipo di oratori «adulatori» (kolakes, κολακες). L’oratore onesto, al contrario, ha la capacità, e il coraggio sufficiente, per opporsi al demos. Egli ha un ruolo critico e pedagogico da svolgere, che richiede il tentativo di trasformare la volontà dei cittadini così che essi possano essere al servizio degli interessi migliori della città. Questa opposizione tra la volontà del popolo e gli interessi migliori della città è fondamentale nella critica di Isocrate alle istituzioni democratiche di Atene. Ed egli conclude che poiché non è neppure possibile essere ascoltati ad Atene se non si scimmiotta la volontà del popolo, ciò vuol dire che c’è sì la democrazia – il che è un bene: ma gli unici oratori parresiastici che sono ancora in grado di farsi ascoltare, sono «gli stupidi privi di serietà qui in assemblea» e i «commediografi a teatro»:
Io so che è […] erta la via del contraddirvi e che in questo regime democratico non c’è libertà di parola se non per gli stupidi privi di serietà qui in assemblea, e per i commediografi a teatro.
Dunque, la vera parresia, la parresia nel senso positivo, nel senso critico del termine, non esiste là dove esiste la democrazia. Nell’Aeropagitico (355 a.C.) Isocrate traccia un insieme di distinzioni che esprimono in modo analogo questa idea generale dell’incompatibilità tra vera democrazia e uso critico della parresia. Egli mette a confronto le vecchie costituzioni di Solone e di Clistene con l’attuale vita politica ateniese, ed elogia i vecchi sistemi politici che avevano dato ad Atene democrazia (demokratia), libertà (eleutheria), felicità (eudaimonia) ed eguaglianza davanti alla legge (isonomia). E tuttavia egli lamenta che tutti questi caratteri positivi della vecchia democrazia si sono pervertiti nella attuale democrazia ateniese. La democrazia è diventata mancanza di autocontrollo (akolasia, ακολασια); la libertà è diventata arbitrio (paranomia, παρανομια); la felicità è diventata la libertà di fare tutto ciò che si vuole (exousia tou panta poiein, εξουσια του παντα ποιειν); e l’eguaglianza di fronte alla legge è diventata parresia. In questo testo, parresia ha solo un senso negativo, dispregiativo. Come quindi potete vedere, in Isocrate vi è una costante valutazione positiva della democrazia in generale, ma accoppiata all’affermazione per cui è impossibile godere contemporaneamente della democrazia e della parresia (intesa nel suo senso positivo). Ancor più, vi è la stessa sfiducia nei sentimenti, nelle opinioni e nei desideri del demos che abbiamo incontrato in forma più radicale nella satira del «Vecchio oligarca».
Un terzo testo che vorrei prendere in esame viene dalla Repubblica di Platone (libro Vili, 557a-b), là dove Socrate spiega come la democrazia nasce e si sviluppa. E dice ad Adimanto:
[…] la democrazia sorge, io credo, quando la rivoluzione dei poveri ha il sopravvento; gli avversari vengono in parte uccisi, in parte espulsi dalla città; i restanti sono coinvolti in un patto di eguaglianza, per quanto riguarda la partecipazione alla vita politica e la gestione delle cariche pubbliche, le quali, per lo più, vengono assegnate per sorteggio.
Poi Socrate si chiede: «Qual è il carattere di questo nuovo regime?». E dice, a proposito del popolo in una democrazia:
In questo regime i cittadini sono liberi; lo stato garantisce la più piena libertà, sia di dire (parresia), sia di fare ciò che uno desidera […] Di conseguenza ogni cittadino ha la possibilità di organizzare la propria vita a modo suo.
Ciò che è interessante a proposito di questo testo è che Platone non biasima la parresia perché fornisce a ciascuno, ivi compresi i cattivi cittadini, la possibilità di influire sulle sorti della città. Per Platone, il pericolo principale della parresia non sta nel fatto che essa porta a cattive decisioni nel governo, o fornisce a qualche capo ignorante e corrotto i mezzi per conquistare il potere e per divenire un tiranno. Il pericolo principale della libertà e del libero parlare in una democrazia è ciò che succede quando ciascuno ha un proprio modo di vivere, un proprio stile di vita, quello che Platone chiama kataskeue tou biou (κατασκευε του βιου). In questo caso non può più esservi un logos comune, una possibile unità per la città. Seguendo il principio platonico per cui è un analogo rapporto tra il modo in cui un essere umano si comporta e il modo in cui una città è governata, tra l’organizzazione gerarchica delle facoltà di un essere umano e la costruzione costituzionale della polis, si può vedere assai bene che se ciascuno nella città si comporta come gli pare, se tutti seguono le proprie opinioni, volontà o desideri, allora si creano nella citta tante costituzioni tante piccole città autonome, quanti sono i cittadini che fanno quello che più loro aggrada. E si può vedere anche che Platone considera la parresia non solo come la libertà di dire ciò che si vuole, come qualcosa di connesso con la libertà di fare ciò che si vuole. È una specie di anarchia, che comporta la libertà di scegliere ciascuno il proprio stile di vita, senza limiti.
Ci sarebbero molte altre cose da dire circa la problematizzazione politica della parresia nella cultura greca, ma penso che possiamo considerare due aspetti essenziali di questa problematizzazione nel corso del IV secolo. In primo luogo, come è chiaro per esempio nel testo di Platone, il problema della libertà di parola diviene sempre più connesso ad una scelta esistenziale alla scelta del proprio modo di vita. La libertà nell’uso del logos diviene sempre di più libertà nella scelta del bios. E per conseguenza la parresia è considerata sempre più come un’attitudine individuale, una qualità personale, e sempre meno come una virtù utile per la vita politica della città, nel caso di parresia positiva o critica, o come un pericolo per la città in caso di parresia negativa, dispregiativa.
In Demostene, per esempio, si possono trovare un certo numero di riferimenti alla parresia, ma della parresia normalmente si parla come di una qualità, personale, non come di un diritto istituzionale. Demostene non cerca e non offre uno sbocco di garanzie istituzionali alla parresia ma insiste sul fatto che egli, come privato cittadino, vuole usare la parresia perché deve dire chiaramente la verità a proposito della cattiva politica della città. E afferma che nel far ciò corre un grave rischio. Giacché è pericoloso per lui parlare liberamente, dato che gli ateniesi nella assemblea sono così riluttanti ad accettare qualsiasi critica.
In secondo luogo, possiamo osservare un’altra trasformazione nella problematizzazione della parresia: la parresia è sempre più legata a un altro tipo di istituzione politica, e cioè la monarchia. Ora la libertà di parola deve essere usata nei confronti del re. Ma ovviamente, in una simile situazione monarchica, la parresia dipende molto di più dalle qualità personali sia del re (che deve scegliere se accettare o respingere l’uso della parresia), sia del consigliere del re. La parresia non è più un diritto istituzionale o un privilegio – come nella città democratica – ma è piuttosto un’attitudine personale, una scelta di bios. Questa trasformazione è evidente, per esempio, in Aristotele. La parola parresia è usata raramente nei testi aristotelici, ma ricorre tuttavia in quattro o cinque luoghi. Non c’è però nessuna analisi politica del concetto di parresia in quanto connesso a qualche istituzione politica. Quando la parola compare, è sempre o in relazione alla monarchia, o per definire una caratteristica personale del profilo etico, morale.
Nella Costituzione degli ateniesi, Aristotele dà un esempio di parresia positiva, critica, nella tirannia di Pisistrato. Come sapete, Aristotele considerò Pisistrato un tiranno umano e benefico, e il suo regno fu di grande utilità ad Atene. Ed è Aristotele a darci un resoconto dell’incontro tra Pisistrato e un piccolo contadino proprietario, dopo che era stata imposta una tassa del dieci per cento su ogni bene prodotto:
[Pisistrato] stesso usciva spesso in campagna a ispezionare e a mettere pace fra i contendenti, affinché quelli non trascurassero il lavoro scendendo in città. Durante una di tali visite dicono che avvenne l’incontro fra Pisistrato e il contadino dell’Imetto, nella località detta poi «campo franco». Vedendo un tale che scavava e lavorava una terra tutta di pietre, si meravigliò e disse al suo schiavo di chiedergli che cosa producesse quel terreno; e il contadino: «Soltanto disgrazie e dolori, e su queste disgrazie e dolori bisogna dare la decima a Pisistrato!». Quell’uomo aveva risposto così perché non lo conosceva, ma Pisistrato, compiaciuto della sua franchezza (paressia) e laboriosità, lo esentò da ogni tributo.
Dunque la parresia ricorre qui in una situazione monarchica.
La parola è usata anche da Aristotele nell’Etica nicomachea (libro IV, 1124b28), non per caratterizzare una pratica politica o un’istituzione, ma come un tratto proprio dell’uomo magnanimo, del megalopsychos. Alcune delle altre caratteristiche dell’uomo magnanimo sono più o meno connesse al carattere e all’atteggiamento parresiastico. Per esempio, il megalopsychos è coraggioso, ma non è uno che ami il pericolo tanto da corrergli incontro, non è cioè un filokindunos. Il suo coraggio è razionale (1124b7- 9). Egli preferisce l’aletheia alla doxa, la verità all’opinione. Non ama gli adulatori. E dal momento che guarda agli altri uomini dall’alto in basso (katafronein) egli è «esplicito e franco» (1124b28). Usa la parresia per dichiarare la verità perché è in grado di riconoscere gli errori degli altri: è cosciente del fatto di essere diverso da loro, è consapevole della propria superiorità.
Vedete dunque che per Aristotele la parresia o è una qualità etico-morale, o si riferisce al parlar libero rivolto a un monarca. Queste caratteristiche personali e morali della parresia divengono via via più accentuate.
IV. La parresia e la cura di sé
1. La parresia filosofica
La parresia socratica
Vorrei analizzare ora una nuova forma di parresia che era venuta emergendo e sviluppandosi già prima di Isocrate, Platone e Aristotele. Ci sono naturalmente importanti similitudini e analogie tra la parresia politica che abbiamo fin qui esaminato e questa nuova forma di parresia. Ma nonostante queste somiglianze, un certo numero di caratteristiche specifiche, direttamente connesse alla figura di Socrate, connotano e differenziano questa parresia «socratica».
Dovendo scegliere un testimone a proposito di Socrate come figura parresiastica, ho scelto il Lachete di Piatone (noto anche come Sul coraggio, Περι ανδρείας); e ciò per molte ragioni. Anzitutto, nonostante questo dialogo platonico sia piuttosto breve, la parola parresia vi compare tre volte (178a5, 179cl, 189al) – tantissimo, se si tiene conto di quanto raramente Platone adoperi il termine. All’inizio del dialogo è anche interessante notare che i diversi partecipanti sono caratterizzati dalla loro parresia. Lisimaco e Melesia, due dei protagonisti, affermano di voler dichiarare le proprie opinioni liberamente, usando la parresia per confessare che non hanno compiuto nulla di particolarmente importante, lodevole o speciale nella vita. Essi fanno questa confessione ad altri due cittadini anziani, Lachete e Nicia (entrambi famosissimi generali), nella speranza che questi ultimi vogliano anch’essi parlare apertamente e francamente, dal momento che sono abbastanza vecchi, influenti e gloriosi da poter essere franchi e non dover nascondere ciò che veramente pensano. Ma questo passo (178a5) non è quello che vorrei citare, poiché in esso il termine parresia è adoperato in un senso generico, e non evidenzia una connotazione specifica della parresia socratica.
Da un punto di vista strettamente teoretico, il dialogo è un fallimento, poiché nessuno è capace di dare una definizione razionale, compiuta e soddisfacente del «coraggio», che è l’argomento dell’opera. Ma nonostante il fatto che neppure Socrate sia in grado di dare simile definizione, alla fine del dialogo Nicia, Lachete, Lisimaco e Melesia concordano tutti sul fatto che Socrate sarebbe il miglior maestro per i loro figli. E anzi Lisimaco e Melesia gli chiedono di assumere questo ruolo. Socrate accetta, dicendo che tutti dovrebbero prendersi cura di sé e dei propri figli (201b4). E qui trovate una nozione che, come qualcuno di voi sa, mi piace moltissimo: il concetto di epimeleia eautou (επιμελεία εαυτου), di «cura di sé». Abbiamo quindi, io credo, un movimento visibile nel corso di questo dialogo dalla figura parresiastica di Socrate al problema della cura di sé.
Prima di leggere i passaggi specifici del testo che vorrei citare, bisogna tuttavia ricordare qual è la situazione all’inizio del dialogo. Dal momento che il Lachete è molto complesso e intricato, potrò richiamare qui la vicenda solo in modo molto breve e schematico. Due anziani, Lisimaco e Melesia, discutono circa il tipo di educazione da dare ai loro figli. Appartengono entrambi a eminenti famiglie ateniesi; Lisimaco è figlio di Aristide il Giusto e Melesia è figlio di Tucidide il Vecchio. Ma per quanto i loro padri siano stati un tempo illustri, Lisimaco e Melesia non hanno fatto niente di particolarmente speciale o glorioso nella loro vita: nessuna campagna militare importante, nessun significativo ruolo politico. I due usano la parresia per ammettere tutto ciò pubblicamente. E si pongono anche la domanda:
«com’è che venendo da un genos (γενος) così buono, da una così nobile famiglia, essi siano stati entrambi incapaci di farsi valere?».
Chiaramente, come mostra la loro esperienza, avere alti natali e appartenere a una nobile casata ateniese non è sufficiente a dotare qualcuno di una disposizione e un’abilità ad assumere una posizione o un ruolo preminente nella città. Essi comprendono che ci vuole qualcos’altro, e cioè l’educazione.
Ma che tipo di educazione? Se consideriamo che il Lachete si svolge attorno alla fine del V secolo, un momento in cui moltissimi individui – la maggior parte dei quali si autodefinivano sofisti – proclamavano di poter fornire ai giovani una buona educazione, possiamo riconoscere qui una problematica che è comune a parecchi altri dialoghi platonici. Le tecniche pedagogiche che venivano proposte in quel periodo sfociavano spesso in alcune pratiche educative, per esempio la retorica (l’apprendimento del modo con cui parlare in un [tribunale o in un’assemblea politica), o altre varie tecniche sofistiche, e talvolta l’addestramento militare e l’educazione del corpo. Ad Atene in quel periodo c’era anche un problema che veniva dibattuto come importante, e che riguardava il modo migliore di educare e addestrare i soldati di fanteria, che erano di gran lunga inferiori agli Opliti spartani. E tutti gli argomenti politici, sociali e istituzionali circa l’educazione, che costituiscono il contesto generale di questo dialogo, si riferiscono al problema della parresia. In campo politico abbiamo visto che c’era bisogno di un parresiastes che potesse dire la verità a proposito delle istituzioni e delle decisioni politiche, e il problema era come riconoscere un simile portatore di verità. Nella sua forma essenziale, questo stesso problema riappare ora nel campo dell’educazione. Poiché se non si è bene educati, come si può decidere che cosa costituisce una buona educazione? E se il popolo deve essere educato, deve ricevere la verità da un maestro competente. Ma come si possono riconoscere i maestri buoni, portatori di verità, da quelli cattivi e inutili?
E proprio per aiutarli ad arrivare a un simile discernimento che (Lisimaco e Melesio chiedono a Nicia e Lachete di assistere a una prova fornita da Stesileo, un uomo che dichiara di essere un maestro di oplomachia, l’arte di combattere con armi pesanti. Questo maestro è un atleta, uno specialista, un attore e un artista. Il che vuol dire che per quanto egli sia esperto nel maneggiare le armi, non usa la sua abilità per combattere effettivamente il nemico, ma soltanto per far denaro, offrendo pubblici spettacoli e insegnando la sua arte ai giovani. L’uomo è una specie di sofista delle arti marziali. Dopo aver visto all’opera le sue abilità in questa pubblica dimostrazione, tuttavia, né Lisimaco né Melesio sono in grado di decidere se questa sorta di abilità nel combattere debba costituire parte di una buona educazione. Perciò si rivolgono a due figure ben note del tempo, Nicia e Lachete, e chiedono il loro parere (178a-181d). Nicia è un generale di grande esperienza che ha riportato numerose vittorie sui campi di battaglia, e che è stato un importante capo politico. Anche Lachete è un generale rispettato, pur non avendo svolto un ruolo altrettanto importante nella politica ateniese. Entrambi esprimono la loro opinione a proposito della esibizione di Stesileo, e appare evidente che i due sono in completo disaccordo a proposito del valore di questa abilità militare. Nicia pensa che l’esperto militare abbia dato una buona prova, e che la sua abilità possa essere in grado di fornire ai giovani una buona educazione militare (181e-182d). Lachete non è d’accordo, e sostiene che gli spartani – che sono i migliori soldati di Grecia – non hanno mai fatto ricorso a simili insegnanti. Di più, egli ritiene che Stesileo non sia un soldato, dal momento che non ha riportato nessuna vera vittoria in battaglia (182d-184c). Attraverso questa discussione possiamo renderci conto che non solo i cittadini normali, privi di qualità speciali, sono incapaci di stabilire quale sia il tipo di educazione migliore, e chi sia in grado di insegnare tecniche meritevoli di essere apprese, ma neanche coloro che hanno una lunga esperienza militare e politica, come Nicia e Lachete, sono in grado di arrivare a una decisione unanime. Alla fine, Nicia e Lachete concordano entrambi sul fatto che nonostante la loro fama, il ruolo importante svolto negli affari ateniesi, l’età, l’esperienza, e così via, è preferibile rivolgersi a Socrate, rimasto lì ad ascoltare tutto il tempo, per vedere cosa ne pensa. E dopo che Socrate ha ricordato loro che l’educazione riguarda la cura dell’anima (185d), Nicia spiega perché vuole fare in modo che la sua anima venga «messa alla prova» da Socrate, cioè perché è disposto a giocare al gioco della parresia socratica. Questa spiegazione di Nicia è, io credo, un ritratto a tutto tondo di Socrate come parresiastes:
NICIA. Non mi sembra che tu sappia che chi si trovi a ragionare con Socrate, come capita, ed entri in conversazione con lui, qualunque sia il soggetto in discussione, è trascinato torno torno ed è forzato a continuare finché non casca a render conto di sé, del modo in cui ha trascorso la sua vita; e una volta che c’è cascato, Socrate non lo lascia più prima di averlo passato al vaglio ben bene e in ogni parte. Io che ho l’abitudine a lui so anche che è inevitabile che si sia trattati così e so pure benissimo che non gli sfuggirò neanch’io. Perché mi fa piacere, o Lisimaco, stare con lui e non credo che sia affatto male che ci sia richiamato alla mente che siamo vissuti e viviamo non bene, ch’anzi è forza maggiore che si sia più attenti per l’avvenire, se si subisce questo esame e se secondo il detto di Solone si vuole e si ritiene giusto imparare fino all’ultimo giorno di vita, senza credere che la vecchiaia da sola porti il senno. Per quanto dunque sta a me, non m’è affatto insolito, né d’altra parte inviso passare sotto il vaglio di Socrate, ch’anzi già da tempo sentivo che, con Socrate presente, il discorso non sarebbe stato più sui ragazzi, ma su noi stessi. Dunque, ripeto, quanto a me va benissimo di ragionare con Socrate come vuole …
Il discorso di Nicia descrive il gioco parresiastico di Socrate dal punto di vista di uno che è «messo alla prova». Ma a differenza del parresiastes che si rivolge al demos nell’assemblea, qui abbiamo un gioco parresiastico che richiede un rapporto personale, faccia a faccia. Così, all’inizio della citazione si afferma: «chi si trovi a ragionare con Socrate, ed entri in conversazione con lui» (187e). L’interlocutore di Socrate deve essere in contatto con lui, stabilire una qualche prossimità per poter giocare il gioco parresiastico. Questo è il primo punto.
In secondo luogo, in questo rapporto con Socrate, l’ascoltatore è letteralmente condotto dal discorso socratico. Ma la passività dell’ascoltatore socratico non è dello stesso tipo di quella di un partecipante all’assemblea. La passività di un ascoltatore nel gioco parresiastico politico consiste nell’esser persuaso da ciò che ascolta. Qui l’ascoltatore è condotto dal logos socratico a «render conto (didonai logon, διδοναι λογον) di sé, del modo in cui ha trascorso la sua vita» (187e-188a). Dal momento che siamo inclini a leggere questi testi attraverso le lenti della nostra cultura cristiana, potremmo interpretare questa descrizione del gioco socratico come una pratica in cui colui che viene condotto dal discorso di Socrate deve dare un resoconto autobiografico della propria vita, o deve confessare i propri errori. Ma una simile interpretazione tradirebbe il significato reale del testo. Infatti, se confrontiamo questo passaggio con analoghe descrizioni del metodo di indagine di Socrate – come nell’Apologia, nell’Alcibiade maggiore, o nel Gorgia, in cui ritroviamo l’idea per cui essere condotti dal logos di Socrate equivale a «render conto di sé» – vediamo con molta chiarezza che ciò di cui si parla non è una confessione autobiografica. Nei ritratti che ne danno Platone o Senofonte, non vediamo mai Socrate pretendere un esame di coscienza o una confessione di colpe. Ancora una volta, qui, rendere conto della propria vita, del proprio bios, non significa fare un racconto degli eventi storici che hanno avuto luogo nella propria esistenza, ma piuttosto dimostrare se si è capaci di mettere in luce una relazione tra il discorso razionale, il logos, che si è in grado di usare, e il modo in cui si vive. Socrate sta indagando circa il modo con cui quel logos dà forma allo stile di vita di una persona, poiché egli è interessato a scoprire se vi è una relazione armonica tra le due cose. Più avanti, in questo stesso dialogo (190d-194b) per esempio, quando Socrate chiede a Lachete di dare ragione del suo coraggio, egli non vuole avere un racconto delle imprese di Lachete nella guerra del Peloponneso, ma sta chiedendo a Lachete di cercare di manifestare il logos che dà forma razionale, intellegibile al suo coraggio. Il ruolo di Socrate è dunque di chiedere un resoconto razionale della vita di una persona.
Questo ruolo è caratterizzato nel testo come quello di un basanos (βασανος), un «vaglio», una pietra di paragone che misura il grado di accordo tra la vita di una persona e il suo principio di intellegibilità o logos: «Socrate non lo lascia più prima di averlo passato al vaglio ben bene e in ogni parte» (188a). La parola greca basanos si riferisce appunto a una «pietra di paragone», cioè a una pietra nera che è usata per verificare la genuinità dell’oro, cosa che si ottiene attraverso l’esame della riga lasciata sulla pietra quando è strofinata dall’oro in questione. Allo stesso modo, il ruolo «basanico» di Socrate lo rende capace di determinare la vera natura del rapporto tra logos e bios che si realizza in quanti entrano in contatto con lui .
Poi, nella seconda parte di questa citazione, Nicia spiega che, come conseguenza dell’esame socratico, uno può cominciare a curarsi del modo in cui vivrà il resto della propria vita, volendo ora vivere nella maniera migliore possibile; e questa volontà prende la forma di un particolare zelo nell’apprendere e nell’educare se stesso, indipendentemente dall’età che si ha.
Il discorso di Lachete, immediatamente successivo, descrive il gioco parresiastico socratico dal punto di vista di chi si interroga sul ruolo di Socrate in quanto «pietra di paragone». Sorge infatti il problema di sapere come possiamo essere sicuri che Socrate stesso sia un buon basanos al fine di misurare i rapporti tra logos e bios in chi lo ascolta:
In materia di discorsi il mio sentire, o Nicia, è semplice, o, se vuoi, non semplice ma duplice: talvolta può sembrare che li ami e talvolta che li detesti. Se ascolto qualcuno che parla della virtù o di qualche arte, che sia veramente uomo e degno dei discorsi che tiene, fortemente gioisco a contemplare come il parlante e le cose da lui dette si concordino e armonizzino. Un uomo simile lo sento proprio come un musico, che accordi in un’armonia bellissima non la lira o strumenti dilettosi, ma in realtà la sua vita stessa in accordo tra parole e azioni, secondo la musica dorica – e non ionica o frigia o lidia – che, sola, è armonia greca. Un tale uomo m’incanta di piacere con la sua voce e fa credere a chiunque che io ami i discorsi, tale è l’entusiasmo con cui accolgo ogni sua parola. Ma il tipo opposto di questo mi secca tanto più quanto meglio sembra che parli e fa pensare ch’io odii i discorsi. Quanto a Socrate non ho pratica dei suoi discorsi, ma in passato ho fatto esperienza delle sue azioni e qui l’ho trovato degno di bei discorsi e di ampia libertà di parola. Se dunque ha anche questa dote mi piego al suo volere e col più grande piacere mi farò esaminare da un uomo come lui, né mi rincrescerà d’imparare …
Come potete vedere, questo discorso risponde in parte alla questione su come determinare i criteri visibili, le qualità personali, che abilitano Socrate ad assumere il ruolo del basanos della vita altrui. Dalle informazioni date all’inizio del Lachete abbiamo appreso che alla data ipotetica del dialogo, Socrate non è particolarmente noto, che non è considerato come un cittadino eminente, che è più giovane di Nicia e di Lachete, e che non ha nessuna particolare competenza nel campo dell’addestramento militare – con questa eccezione: che ha mostrato grande coraggio nella battaglia di Delio in cui Lachete era comandante generale. Perché dunque due famosi generali, entrambi più vecchi di lui, dovrebbero sottoporsi all’esame incrociato di Socrate? Lachete, che non è molto interessato alle discussioni filosofiche o politiche, e che lungo tutto il dialogo mostra (al contrario di Nicia) di preferire i fatti alle parole, offre la risposta. Egli dice che c’è un rapporto armonico tra quello che Socrate dice e quello che fa, tra le sue parole (logoi) e le sue azioni (erga). Dunque, non solo Socrate stesso è capace di dare un resoconto della propria vita, ma un simile resoconto è già visibile nel suo comportamento, giacché non vi è la minima discrepanza tra ciò che dice e ciò che fa. Egli è un mousikos aner. Nella cultura greca, e nella maggior parte degli altri dialoghi di Platone, la frase mousikos aner denota una persona che è devota alle Muse – una persona istruita nelle arti liberali. Qui la frase si riferisce a qualcuno che esibisce una specie di armonia ontologica, il cui logos e il cui bios stanno in un accordo armonico. E questo rapporto armonico è anche un’armonia dorica.
Come sapete, vi sono quattro specie di armonia greca : la maniera lidia, che Platone non ama perché troppo solenne; la maniera frigia, che Platone associa con le passioni; la maniera ionica che è troppo dolce ed effeminata; e la maniera dorica, che è coraggiosa. L’armonia tra parola e fatto nella vita di Socrate è dorica, e si è manifestata nel coraggio che egli ha mostrato a Delio. Questo accordo armonico è ciò che distingue Socrate da un sofista: il sofista può fare discorsi molto belli e appassionanti sul coraggio, ma lui non è coraggioso. Questo accordo è anche il motivo per cui Lachete può dire di Socrate: «l’ho trovato degno di bei discorsi e di ampia libertà di parola».
Socrate è in grado di usare un discorso razionale, eticamente apprezzabile, bello e piacevolissimo; ma al contrario del sofista, può usare la parresia e parlare liberamente perché ciò che dice si accorda esattamente con ciò che pensa, e ciò che pensa si accorda esattamente con ciò che fa. E così Socrate, che è davvero libero e coraggioso, può per conseguenza funzionare come figura parresiastica. Esattamente come succedeva nel campo politico, anche la figura parresiastica di Socrate dischiude la verità con la parola, è coraggiosa nella vita così come nel discorso, e affronta l’opinione del suo ascoltatore in modo critico. Ma la parresia socratica è diversa dalla parresia politica per una serie di elementi. Essa si manifesta in un rapporto personale tra due esseri umani, e non nella relazione del parresiastes con il demos o con il re. E in aggiunta alle relazioni che avevamo evidenziato nella parresia politica, tra logos, verità e coraggio, con Socrate emerge un nuovo elemento, e cioè il bios. Il bios è il cuore della parresia socratica. Per ciò che riguarda Socrate e il filosofo, la relazione bios-logos è un’armonia dorica che fonda il ruolo parresiastico di Socrate, e che, al tempo stesso, costituisce il criterio visibile per la sua funzione di basanos o pietra di paragone. Per ciò che riguarda l’interlocutore, la relazione bios-logos si dischiude quando l’interlocutore dà un resoconto della propria vita, e la sua armonia è verificata tramite il contatto con Socrate. Poiché possiede, nella sua relazione con la verità, tutte le qualità che è necessario mettere in luce nel suo interlocutore, Socrate può verificare la relazione che l’esistenza dell’interlocutore ha con la verità. Lo scopo di questa attività parresiastica di Socrate, perciò, è di portare l’interlocutore alla scelta di quel tipo di vita (bios) che si porrà in un accordo armonico-dorico con il logos, la virtù, il coraggio e la verità.
Nello Ione di Euripide abbiamo visto la problematizzazione della parresia nella forma di un gioco tra logos, verità e genos (nascita) nei rapporti tra gli dèi e i mortali; e il ruolo parresiastico di Ione era basato su una genealogia mitica derivata da Atene; la parresia era il diritto civico dei cittadini ateniesi di buona famiglia. Nel campo delle istituzioni politiche, la problematizzazione della parresia comportò un gioco tra logos, verità e nomos (legge); c’era bisogno del parresiastes per mettere in luce quelle verità che avrebbero assicurato la salvezza o il benessere della città. La parresia qui era la qualità personale di un oratore coraggioso o di un capo politico, o la qualità personale di un consigliere del re. Ora, con Socrate, la problematizzazione della parresia prende la forma di un gioco tra logos (verità) e bios (vita) nel campo di un rapporto personale di apprendimento tra due esseri umani. E la verità che il discorso parresiastico pone in luce è la verità della vita di una persona, cioè il tipo di relazione che essa ha con la verità: come egli costituisce se stesso in quanto individuo che deve conoscere la verità attraverso la mathesis, e come questa relazione con la verità è ontologicamente ed eticamente manifesta nella sua vita. La parresia, d’altro canto, diventa una caratteristica ontologica del basanos, la cui relazione armonica con la verità può funzionare come una pietra di paragone. L’obiettivo delle indagini incrociate che Socrate conduce nel suo ruolo di pietra di paragone, perciò, è quello di verificare il rapporto specifico dell’esistenza dell’altro con la verità.
Nello Ione di Euripide, la parresia era contrapposta al silenzio di Apollo; nella sfera politica, la parresia era contrapposta alla volontà del demos o a coloro che blandiscono i desideri della maggioranza o del monarca. In questo terzo gioco, socratico-filosofico, la parresia è contrapposta all’ignoranza di sé e ai falsi insegnamenti dei sofisti. Il ruolo di Socrate come basanos appare molto chiaramente nel Lachete; ma in altri testi platonici, come per esempio l’Apologia, questo ruolo è presentato come una missione assegnata a Socrate dalla divinità oracolare di Delfi , cioè da Apollo, lo stesso dio che taceva nello Ione. E proprio come l’oracolo di Apollo era aperto a tutti coloro che volessero consultarlo, così Socrate offriva se stesso a chiunque come interlocutore. L’oracolo di Delfi era anche così enigmatico e oscuro che non si poteva capirlo senza sapere che tipo di domanda gli si stava ponendo, e che tipo di significato il pronunciamento dell’oracolo avrebbe potuto avere nella propria vita. Allo stesso modo, il discorso di Socrate richiede che si superi l’ignoranza circa la propria situazione. Ma, naturalmente, vi sono forti differenze. Per esempio, l’oracolo prediceva che cosa sarebbe accaduto, mentre la parresia socratica significa mostrare quello che si è, non la propria relazione con gli eventi futuri, ma l’attuale relazione che si ha con la verità.
Con ciò non voglio dire che ci sia una qualche rigida progressione cronologica tra le varie forme di parresia che abbiamo analizzato. Euripide morì nel 407 a.C. e Socrate fu messo a morte nel 399 a.C. Nelle culture antiche la continuità delle idee e dei temi è anche più accentuata. E le nostre conoscenze sono ulteriormente limitate dallo scarso numero di documenti disponibili per questo periodo. Dunque non c’è una cronologia precisa. Le forme della parresia che troviamo in Euripide non diedero vita a una tradizione molto consistente. E quando nacquero e si svilupparono le monarchie ellenistiche, la parresia politica assunse sempre più la forma di un rapporto personale tra il monarca e i suoi consiglieri, avvicinandosi così alla forma socratica. Una maggiore enfasi fu posta sull’arte di governo e sull’educazione morale del re. E il tipo socratico di parresia ebbe una lunga tradizione attraverso i cinici e altre scuole socratiche. Le distinzioni sono dunque più o meno contemporanee nel loro manifestarsi, ma il destino storico delle tre forme di parresia non è lo stesso.
In Platone, e in ciò che noi sappiamo di Socrate attraverso Platone, un problema essenziale sta nel far sì che la parresia politica, che riguarda il logos, la verità, e il nomos, coincida con la parresia etica, che riguarda il logos, la verità, e il bios. Come possono la verità filosofica e la virtù morale connettersi alla città attraverso il nomos? Troviamo questo problema nell’Apologia, nel Critone, nella Repubblica e nelle Leggi. C’è un testo molto interessante nelle Leggi, per esempio, in cui Platone sostiene che anche nelle città governate da buone leggi c’è comunque bisogno di qualcuno che usi la parresia per suggerire ai cittadini la condotta morale che devono tenere. Platone distingue tra i tutori delle leggi e il parresiastes, il quale non controlla l’applicazione delle leggi ma, come Socrate, dice la verità a proposito del bene della città e dà consigli da un punto di partenza etico, filosofico. E, per quanto io ne appia, è questo l’unico testo di Platone in cui colui che usa la parresia una sorta di figura politica che agisce nel campo della legge.
Nella tradizione cinica – che deriva anch’essa da Socrate – la relazione problematica tra nomos e bios diventerà una diretta contrapposizione. In questa tradizione, il filosofo cinico è considerato come l’unico capace di assumere il ruolo del parresiastes. E, come vedremo nel caso di Diogene, egli deve adottare un costante atteggiamento negativo e critico verso ogni specie di istituzione politica e verso ogni tipo di nomos.
Verità e conoscenza di sé
Ricorderete che nell’ultimo nostro incontro abbiamo analizzato alcuni testi dal Lachete di Platone in cui abbiamo visto l’emergere, con Socrate, di una nuova parresia «filosofica», molto diversa dalle forme esaminate in precedenza. Nel Lachete avevamo un gioco condotto da cinque giocatori principali. Due di essi, Lisimaco e Melesio, erano cittadini ateniesi di nobili natali incapaci di assumere un ruolo parresiastico perché non sapevano come educare i propri figli. Quindi si rivolgevano a un generale e a uno statista, a Lachete e a Nicia, i quali erano anch’essi incapaci di svolgere il ruolo del parresiastes. A loro volta, Lachete e Nicia, erano costretti a chiedere l’aiuto di Socrate, che appare come la vera figura parresiastica. Possiamo vedere in questi spostamenti una progressiva dislocazione del ruolo parresiastico dal cittadino di buona famiglia ateniese, e dal leader politico, i quali all’inizio sono titolari del ruolo, al filosofo, a Socrate. Prendendo il Lachete come punto di partenza, possiamo ora osservare nella cultura greco-romana il nascere e il diffondersi di un nuovo tipo di parresia, che può essere caratterizzata, io credo, come segue.
Innanzitutto, questa parresia è filosofica, ed è stata posta in pratica per secoli dai filosofi. In effetti, una larga parte dell’attività filosofica che si manifestò nella cultura greco-romana comportava l’esercizio di certi giochi parresiastici. Molto schematicamente, penso che questo ruolo filosofico richiedesse tre tipi di attività parresiastica, tutti strettamente connessi: 1) nella misura in cui il filosofo doveva scoprire e insegnare certe verità circa il mondo, la natura ecc., egli assumeva un ruolo epistemico; 2) nel prendere posizione verso la città, le leggi, le istituzioni politiche, e così via, assumeva in aggiunta un ruolo politico; 3) l’attività parresiastica comportava anche la necessità di pensare la natura delle relazioni tra la verità e il proprio stile di vita, tra la verità e un’etica e un’estetica del sé.
La parresia, così come essa appare nel campo dell’attività filosofica nella cultura greco-romana, non è in prima istanza un concetto o un argomento, ma piuttosto una pratica, che cerca di modellare le specifiche relazioni che gli individui intrattengono con se stessi. Ed io penso che la nostra soggettività morale sia fondata, almeno in parte, su queste pratiche. Più precisamente, ritengo che il criterio decisivo per identificare un parresiastes non debba essere rintracciato nella sua nascita, né nella cittadinanza, né nella competenza intellettuale, ma nell’armonia che in lui si realizza tra il logos e il bios.
In secondo luogo, l’obiettivo di questa nuova parresia non è di persuadere l’assemblea, ma di convincere qualcuno della necessità di prendersi cura di sé e degli altri; e ciò significa che egli deve cambiare la sua vita. Questo tema del cambiamento di vita, della conversione, diviene molto importante dal IV secolo a.C. agli inizi del cristianesimo. E un tema essenziale alle pratiche filosofiche parresiastiche. Naturalmente la conversione non è qualcosa di completamente diverso dal cambiamento di opinione che un oratore, usando la parresia, vuole indurre quando chiede ai suoi concittadini di svegliarsi, di rifiutare ciò che fino ad ora hanno accettato, o di accettare ciò che fin qui hanno respinto. Ma nella pratica filosofica la nozione del cambiare atteggiamento assume un significato più generale ed esteso, poiché non è più soltanto questione di modificare le proprie opinioni o convinzioni, ma è questione di cambiare il proprio stile di vita, il rapporto di sé con gli altri, e degli altri con se stessi.
In terzo luogo, queste nuove pratiche parresiastiche implicano un complesso insieme di legami tra la verità e il sé. Non solo infatti si presume che esse forniscano all’individuo la conoscenza di sé, ma è questa conoscenza di sé che si suppone possa garantire l’accesso alla verità e a ulteriori conoscenze. Il circolo che comporta la conoscenza della verità a proposito di se stessi come presupposto per poter conoscere la verità in generale è caratteristico della pratica parresiastica a partire dal IV secolo, ed è stato uno dei luoghi problematici del pensiero occidentale, presente per esempio in Cartesio o in Kant.
Un punto finale che vorrei sottolineare, a proposito di questa parresia filosofica, è che essa fa ricorso a numerose tecniche del tutto differenti dalle tecniche del discorso persuasivo utilizzate precedentemente; e che non è più specificamente legata all’agora, o alla corte del re, ma può essere utilizzata nei luoghi più diversi.
2. La pratica della parresia.
In questa sessione e in quella conclusiva della prossima settimana vorrei analizzare la parresia filosofica dal punto di vista delle sue pratiche. Per «pratica» della parresia intendo due cose: in primo luogo, l’uso della parresia in particolari tipi di relazioni umane; e in secondo luogo, le procedure e le tecniche impiegate in simili rapporti.
La parresia come attività nell’ambito delle relazioni umane
Per agevolare la chiarezza dell’esposizione, vorrei distinguere tre tipi di relazioni umane coinvolte nell’uso della nuova parresia filosofica. Naturalmente si tratta solo di uno schema generale, giacché vi sono molte forme intermedie. Innanzitutto, la parresia è un’attività che si esercita nell’ambito di piccoli gruppi di persone, o nel contesto della vita di comunità. In secondo luogo, la parresia può realizzarsi nelle relazioni umane che si svolgono nel contesto della vita pubblica. E infine la parresia si sviluppa nell’ambito delle relazioni interpersonali individuali. Più in particolare, possiamo dire che la parresia come caratteristica della vita di comunità era tenuta in alta considerazione dagli epicurei; che la parresia come attività o manifestazione pubblica era un aspetto significativo della scuola cinica, così come di quel tipo di filosofia che era un misto di cinismo e stoicismo; e che la parresia come aspetto delle relazioni personali si trova più frequentemente nello stoicismo, o in una forma di stoicismo generalizzata e comune, caratteristica di certi autori come Plutarco.
Parresia e vita di comunità
Benché gli epicurei, con l’importanza da loro attribuita all’amicizia, dessero alla vita di comunità un’enfasi maggiore di quanto non facessero gli altri filosofi di questo periodo, si possono trovare anche alcuni gruppi stoici, così come alcuni filosofi stoici e stoico-cinici, che agirono come consiglieri morali e politici di vari circoli e club aristocratici. Per esempio, Musonio Rufo fu consigliere spirituale del cugino di Nerone, Rubellio Plauto, e del suo circolo; e il filosofo stoico-cinico Demetrio fu consigliere di un gruppo liberale antiaristocratico attorno a Trasea Peto. Trasea Peto, senatore romano, si suicidò dopo essere stato condannato a morte dal senato durante il regno di Nerone. E Demetrio fu, vorrei dire, il régisseur del suo suicidio. Dunque, oltre alla vita di comunità degli epicurei ci sono altre forme intermedie.
C’è anche il caso molto interessante di Epitteto. Epitteto fu uno stoico che attribuì grande importanza alla pratica del parlare apertamente e francamente. Diresse una scuola, della quale abbiamo qualche scarna notizia dai quattro libri rimastici dei suoi Discorsi trascritti da Arriano. Sappiamo, per esempio, che la scuola di Epitteto era situata a Nicopoli, in una struttura permanente che dava la possibilità agli studenti di partecipare a una vera e propria vita di comunità . Si tenevano pubbliche lezioni e sessioni di insegnamento a cui era invitato il pubblico e in cui i singoli potevano porre questioni, anche se talvolta questi ultimi erano derisi e stuzzicati dai maestri. Sappiamo anche che Epitteto teneva sia pubbliche conversazioni con i suoi discepoli in classe, sia colloqui e interrogazioni private. La sua scuola era una specie di école normale per quelli che volevano diventare filosofi o consiglieri morali.
Quando vi dico che la parresia filosofica si manifesta come un’attività nell’ambito di tre tipi di relazioni, deve essere chiaro che le forme che ho scelto sono solo degli esempi-tipo; le pratiche reali erano naturalmente molto più complesse e interconnesse. E vediamo allora, per prima cosa, l’esempio dei gruppi epicurei, a proposito della pratica della parresia nella vita di comunità. Sfortunatamente sappiamo molto poco delle comunità epicuree, e ancor meno circa le pratiche parresiastiche in queste comunità, il che giustifica la brevità della mia esposizione. E tuttavia un testo lo abbiamo; è intitolato Peri parresias, ed è scritto da Filodemo (che trascrive le lezioni di Zenone di Sidone). Il testo non è completo, ma i brani manoscritti esistenti vengono dai resti della biblioteca epicurea scoperta a Ercolano verso la fine del secolo IX. Ciò che è rimasto è molto frammentario e piuttosto oscuro; e devo confessare che senza i commenti dello studioso italiano Marcello Gigante, non avrei capito molto di questo testo greco. Di questo trattato vorrei sottolineare i seguenti punti. In primo uogo Filodemo considera la parresia non solo come una qualità, come una virtù o come un’attitudine personale, ma anche come una techne paragonabile all’arte della medicina o all’arte di pilotare una nave. Come sapete il paragone tra medicina e navigazione ha una grande tradizione nella cultura greca. Ma anche senza questo riferimento alla parresia, il raffronto tra medicina e navigazione è interessante per questi due motivi.
1) La ragione per cui la techne di navigazione del pilota è simile a quella del medico è che in entrambi i casi l’indispensabile sapere teorico richiede anche un’esperienza pratica per poter essere messo atto. Ancor più, per poter applicare queste tecniche bisogna tenere conto non solo le regole e i principi generali dell’arte, ma anche i particolari che si riferiscono sempre specificamente a una situane data. Si devono tenere in conto le circostanze particolari, e anche ciò che i greci chiamavano il kairos, il momento critico. Il concetto di kairos – il momento o l’opportunità decisiva o cruciale – ha sempre avuto un ruolo significativo nel pensiero greco per ragioni epistemologiche, morali e tecniche. Ciò che è interessante qui è che, poiché Filodemo associa la parresia con l’arte di navigare e con la medicina, anch’essa viene considerata come una tecnica che ha a che fare con casi individuali, con situazioni specifiche, con la scelta del kairos, del momento decisivo. Utilizzando il nostro vocabolario moderno potremmo dire che la navigazione, la medicina e la pratica della parresia sono tutte delle «tecniche cliniche».
2) Un’altra ragione per cui i greci associavano spesso la medicina alla navigazione è che in entrambi i casi una persona (il pilota o il medico) deve prendere una decisione, deve dare ordini e istruzioni, deve esercitare potere e autorità, mentre gli altri – l’equipaggio, il paziente, lo staff – devono obbedire se si vuole raggiungere il fine desiderato. Da qui discende che la navigazione e la medicina sono anche entrambe collegate alla politica. Anche in politica infatti la scelta dell’opportunità, del momento migliore, è cruciale; e anche in politica si suppone che qualcuno sia più competente degli altri, e che perciò abbia il diritto di dare ordini e gli altri il dovere di obbedire. Anche in politica, quindi, ci sono delle tecniche indispensabili che stanno alla base dell’arte del governo.
Se insisto su questa antica affinità tra medicina, navigazione e politica è per indicare che, con l’aggiunta delle tecniche parresiastiche di «guida spirituale», durante il periodo ellenistico si venne a costituire un corpus di technai cliniche correlate. Naturalmente, la techne della navigazione è innanzitutto carica di significato metaforico. Ma un’analisi delle varie relazioni che la cultura greco-romana riteneva esistessero fra le tre attività cliniche della medicina, della politica e della pratica della parresia può risultare importante. Parecchi secoli dopo, Gregorio Nazianzeno (ca. 329-389 d.C.) avrebbe definito la guida spirituale come la «tecnica delle tecniche» – ars artium, techne technon. Questa espressione è significativa, poiché fino a quel momento era stata l’arte di governo, o techne politica, a essere considerata come la techne technon, o come l’arte regale. Ma a partire dal IV secolo d.C., e via via fino al XVII secolo, in Europa, l’espressione techne technon si riferisce alla guida spirituale, intesa come la più significativa tecnica clinica. Questa caratterizzazione della parresia come una techne in relazione alla medicina, alla navigazione e alla politica è indicativa della trasformazione della parresia in pratica filosofica.
Dall’arte medica di governare i pazienti e dall’arte regale di governare la città e i sudditi, ci spostiamo all’arte filosofica di governare se stessi e di agire come una sorta di «guida spirituale» nei confronti di altre persone. Un ulteriore aspetto del testo di Filodemo riguarda i riferimenti che esso contiene alla struttura delle comunità epicuree; ma i commentatori di Filodemo non sono d’accordo circa la forma esatta, la complessità e l’organizzazione gerarchica di simili comunità. DeWitt pensa che la gerarchia fosse ben codificata e molto complessa; al contrario, Gigante ritiene che essa fosse molto più semplice. Sembra che vi fossero almeno due categorie di insegnanti e due tipi di insegnamenti nelle scuole e nei gruppi epicurei. C’era l’insegnamento «in classe», in cui un insegnante si rivolgeva a un gruppo di studenti; e c’era anche l’istruzione sotto la forma di colloqui personali, cui un insegnante poteva dare consigli e precetti a singoli membri delle comunità. Mentre gli insegnanti di rango più basso potevano insegnare solo nelle classi, quelli di rango più elevato potevano sia insegnare in classe che tenere colloqui personali. Veniva così tracciata una distinzione tra l’insegnamento generale e l’istruzione o la guida personale. Questa distinzione non comporta differenze di contenuto, quali la ripartizione tra questioni di ordine teorico o pratico – cosa inconcepibile, specie se si considera che gli studi di fisica, cosmologia e scienze naturali avevano un significato etico per gli epicurei. Né comporta una differenza nell’istruzione che contrapponga la teoria etica alla sua applicazione pratica. La differenza segna piuttosto una distinzione nel rapporto pedagogico tra insegnante e discepolo.
Nella situazione socratica, c’era una procedura che rendeva possibile all’interlocutore scoprire la verità circa se stesso, il rapporto del suo bios con il logos; e questa stessa procedura gli rendeva al contempo possibile accedere ad altre verità (a proposito del mondo, delle idee, della natura dell’anima, e così via). Con le scuole epicuree, invece, è il rapporto pedagogico di guida quello in cui il maestro aiuta il discepolo a scoprire la verità circa se stesso; ma c’è ora, in aggiunta, una forma di insegnamento «autoritario», in un rapporto collettivo in cui ciascuno dice la verità a un gruppo di altre persone. Questi due tipi di insegnamento sono divenuti una caratteristica permanente della cultura occidentale. E noi sappiamo che nelle scuole epicuree era il ruolo della «guida spirituale» a essere ritenuto più importante di quello dell’insegnamento di gruppo. Non voglio concludere la discussione del testo di Filodemo senza menzionare una pratica che veniva esercitata in quei gruppi – quella che potremmo chiamare la pratica della «confessione collettiva». Alcuni dei frammenti indicano che c’erano sedute di gruppo, o incontri, in cui ciascuno dei membri della comunità, a turno, esplicitava i suoi pensieri, i suoi errori, le sue manchevolezze, e così via. Sappiamo molto poco di questi incontri, ma riferendosi a questa pratica Filodemo usa un’espressione interessante. Ne parla come del «salvarsi gli uni con gli altri» – to di’allelon sozesthai (το διαλληλων σωζεσθαι). La parola sozesthai – salvarsi – nella tradizione epicurea significa procurarsi l’accesso a una vita buona, bella e felice. Non si riferisce a nessun aldilà, a nessun giudizio divino. Nella salvezza del singolo, gli altri membri della comunità epicurea (il Giardino) hanno un ruolo decisivo in quanto agenti necessari per far sì che il singolo possa scoprire la verità circa se stesso, e per aiutarlo a conquistarsi l’accesso a una vita felice. Da qui l’importanza particolarissima dell’amicizia nei gruppi epicurei.
Parresia e vita pubblica
Vorrei ora spostare l’attenzione sulla pratica della parresia nella vita pubblica, attraverso l’esempio dei filosofi cinici. Nel caso delle comunità epicuree, sappiamo molto poco del loro stile di vita, ma abbiamo qualche idea della loro dottrina, così com’è espressa in vari testi. Coi cinici la situazione è esattamente capovolta; sappiamo pochissimo della dottrina cinica – se mai vi fu una simile esplicita dottrina. Ma possediamo, invece, numerose testimonianze a proposito del modo di vivere dei cinici. E non c’è niente di cui sorprendersi; giacché anche se i filosofi cinici scrivevano libri come tutti gli altri filosofi, erano molto più interessati a scegliere e praticare un certo tipo di vita.
C’è un problema storico relativo alle origini del cinismo. Molti dei cinici, a partire dal I secolo a.C. in avanti, si riferiscono a Diogene e ad Antistene come fondatori della filosofia cinica; e attraverso questi fondatori risalgono fino all’insegnamento di Socrate. Tutta¬via, secondo Farrand Sayre, la setta cinica apparve solo nel II secolo a.C., cioè due secoli dopo la morte di Socrate. Dovremmo essere un po’ scettici circa la spiegazione tradizionale data a proposito della nascita delle sette ciniche – una spiegazione avanzata molto spesso per dar conto della nascita di altri fenomeni; e la spiegazione sarebbe che il cinismo è la forma negativa di un individualismo aggressivo che nacque col crollo delle strutture politiche del mondo antico. Un’argomentazione più interessante è fornita da Sayre, che spiega la comparsa dei cinici sulla scena filosofica greca come conseguenza dell’espansione dell’Impero macedone. Più specificamente egli osserva che, con le conquiste di Alessandro, molti filosofi indiani – e in special modo gli insegnanti monaci e asceti delle sette indiane come i gimnosofisti – divennero più familiari ai greci.
Indipendentemente da ciò che si può dire attorno alle origini del cinismo, è un fatto che i cinici furono molto numerosi e influenti a “partire dalla fine del I secolo a.C. fino al IV secolo d.C. Così, nel , 165 d.C., Luciano di Samosata – che non amava i cinici – scriveva:
«La città pullula di questi vermi, particolarmente di quelli che professano le dottrine di Diogene, Antistene e Cratete».
Sembra di fatto che coloro che si atteggiavano a cinici fossero così numerosi che l’imperatore Giuliano, nel tentativo di rivitalizzare la cultura greca classica, scrivesse un libello contro di essi sbeffeggiando la loro ignoranza, la loro rozzezza e descrivendoli come un pericolo per l’impero e per la cultura greco-romana. Una delle ragioni per cui Giuliano trattava i cinici in modo così sprezzante era dovuta al fatto che essi mostravano una certa somiglianza con i primi cristiani. E alcune di queste somiglianze potevano essere qualcosa di più che un vago richiamo. Per esempio, Peregrino (un cinico ben noto alla fine del II secolo d.C.) era considerato una specie di santo dai suoi seguaci, specialmente da quelli che consideravano la sua morte come un’eroica emulazione ella morte di Ercole. Per mostrare la sua indifferenza (adiaforìa, αδιαφορια) alla morte, Peregrino si suicidò dandosi fuoco subito dopo i giochi olimpici del 167 d.C. Luciano, che fu testimone dell’evento, ne dà un resoconto satirico e derisorio. Giuliano era anche rammaricato del fatto che i cinici non fossero capaci di riproporre l’antica cultura greco-romana, giacché sperava che ci potesse essere qualcosa di simile a un movimento filosofico di tipo popolare in grado di competere con il cristianesimo.
Il grande valore che i cinici attribuivano al modo di vivere di una persona non significa che essi non avessero interesse per la filosofia teoretica, ma riflette la loro convinzione per cui lo stile di vita di una persona era la pietra di paragone del suo rapporto con la verità – così come abbiamo visto nel caso della tradizione socratica. La conclusione che traevano da questa idea socratica era che, per proclamare le verità da loro professate in un modo accessibile a tutti, i loro insegnamenti dovessero consistere in uno stile di vita volutamente manifesto, spettacolare, provocatorio e talvolta scandaloso. I cinici insegnavano dunque con gli esempi e con le spiegazioni ad essi collegate. Volevano che le loro vite fossero un manifesto delle verità essenziali e potessero così servire da guida e da esempio. Ma non c’è nulla in questa sottolineatura della filosofia cinica come arte della vita che sia estraneo alla filosofia greca. Anche se accettiamo l’ipotesi di Sayre circa l’influsso della filosofia indiana sulla dottrina e la pratica cinica, dobbiamo tuttavia riconoscere che l’atteggiamento cinico è, nella sua forma basilare, solo una versione particolarmente radicale della concezione greca dei rapporti tra stile di vita e conoscenza della verità. L’idea cinica per cui una persona non è null’altro che il suo rapporto con la verità, e che tale rapporto si modella o prende forma nella vita delle persone – tutto ciò è assolutamente greco.
Nelle tradizioni platonica, aristotelica e stoica, i filosofi si riferivano soprattutto a una dottrina, a dei testi, o quanto meno ad alcuni principi teorici alla base delle loro filosofie. Nella tradizione epicurea, i seguaci di Epicuro si riferiscono insieme a una dottrina e all’esempio personale tracciato da Epicuro – esempio che ogni epicureo cercava di imitare. Epicuro era l’origine della dottrina ma anche la sua personificazione. Ora, nella tradizione cinica, i principali punti di riferimento della filosofia non sono i testi o le dottrine, ma le vite esemplari. Gli esempi personali erano stati importanti anche in altre scuole filosofiche, ma nel movimento cinico – nel quale non vi erano testi prestabiliti, né alcuna dottrina prefissata e riconosciuta— il riferimento era sempre rappresentato da certe personalità, mitiche o reali, cui si attribuiva il ruolo di ispiratrici del cinismo in quanto modo di vita. Queste personalità erano il punto di partenza per la riflessione e il commento dei cinici. I personaggi mitici a cui ci si riferiva comprendevano Ercole, Ulisse e Diogene. Diogene era in realtà una figura storica, ma la sua vita divenne così leggendaria che ne nacque una sorta di mito, e agli episodi reali furono aggiunti una serie di aneddoti e scandali inventati. Della sua vita vera non si sa molto, ma è chiaro che egli divenne una sorta di eroe filosofico. Platone, Aristotele, Zenone di Cizio e altri, per esempio, furono autori filosofici, e anche autorità filosofiche, ma non vennero considerati eroi, Epicuro fu sia un autore filosofico che un uomo considerato dai seguaci come una specie di eroe. Ma Diogene fu innanzitutto una figura eroica.
L’idea che la vita del filosofo dovesse essere esemplare ed eroica è importante per capire il rapporto tra cinismo e cristianesimo, così come per comprendere la parresia cinica in quanto attività pubblica. Eccoci quindi alla parresia cinica . I tre tipi principali di pratica parresiastica utilizzati dai cinici furono: 1) la predica critica; 2) il comportamento scandaloso; 3) ciò che chiamerò «il dialogo provocatorio».
Innanzitutto la predica critica dei cinici. La dissertazione è una forma di discorso continuo e, come sapete, molti dei filosofi antichi – specialmente gli stoici – pronunciavano occasionalmente discorsi in cui esponevano le loro dottrine. Normalmente, però, essi parlavano di fronte a un uditorio piuttosto piccolo. Al contrario, i cinici disdegnavano questo tipo di esclusivismo elitario e preferivano rivolgersi a grandi folle. Per esempio, amavano parlare in un teatro, o in una piazza in cui il popolo fosse riunito per una festa, per un evento religioso, per una gara atletica e così via. Usavano talvolta alzarsi nel bel mezzo di una rappresentazione teatrale e pronunciare un discorso. Questa pubblica predica non era propriamente una loro innovazione, giacché abbiamo testimonianze di pratiche analoghe fin dal V secolo a.C. Alcuni dei sofisti che incontriamo nei dialoghi platonici, per esempio, pronunciano anch’essi prediche di questo tipo. Ma la predica cinica aveva il suo specifico carattere e il suo significato storico, in quanto faceva sì che temi di ordine filosofico relativi al modo di vita diventassero popolari, cioè fossero sottoposti all’attenzione del popolo, che non apparteneva all’élite filosofica. Da questo | punto di vista la predica cinica sul tema della libertà, della rinuncia al lusso, la critica delle istituzioni politiche e dei codici morali esistenti e così via, aprirono la strada ad alcuni temi cristiani. Ma i proseliti cristiani non solo parlavano di temi che erano spesso simili a quelli dei cinici; essi ricorrevano anche alla pratica della predica.
La predica è ancora uno dei modi principali usati nella nostra società per «dire la verità», e implica l’idea che la verità debba essere detta e insegnata non soltanto ai membri migliori della società, o a un gruppo di eletti, ma a tutti. Tuttavia, c’è uno scarsissimo contenuto dottrinale nella predica cinica: nessuna diretta definizione del bene o del male. Al contrario, i cinici si riferiscono alla libertà (eleutheria) e all’autosufficienza (autarkeia) come criteri di base su cui misurare ogni tipo di comportamento o modo di vita. Per i cinici la condizione essenziale per la felicità umana è l’autarkeia, l’autosufficienza o l’indipendenza, quella situazione nella quale ciò di cui si ha bisogno o ciò che si decide di fare dipende esclusivamente da se stessi. Per conseguenza – dal momento che i cinici agivano sempre nella maniera più radicale – essi preferivano uno stile di vita completamente naturale. Si pensava che una vita secondo natura potesse eliminare tutte le dipendenze dalla cultura, dalla società, dalla civiltà, dai giudizi ecc. La maggior parte delle loro prediche sembrano, dunque, dirette contro istituzioni sociali, contro l’arbitrarietà delle leggi e contro ogni sorta di stile di vita che derivasse da simili leggi o istituzioni. In breve, la loro predica si volgeva contro tutte le istituzioni sociali, in quanto esse erano di impedimento alla libertà e all’indipendenza dei singoli.
La parresia cinica faceva anche ricorso a comportamenti scandalosi o atteggiamenti che mettevano in discussione abitudini collettive, opinioni, criteri del pudore, regole istituzionali, e così via. Venivano usati parecchi procedimenti. Uno di essi era l’inversione dei ruoli, come si può vedere nel Quarto discorso di Dione Crisostomo, in cui è descritto il famoso incontro tra Diogene e Alessandro. L’incontro, spesso citato dai cinici, non ebbe luogo nell’ambito privato della corte di Alessandro, ma per strada, all’aperto. Il re sta in piedi mentre Diogene siede sul suo barile. Diogene ordina ad Alessandro di spostarsi per non fargli ombra e lasciarlo a crogiolarsi al sole. Il fatto di ordinare ad Alessandro di spostarsi perché la luce del sole possa raggiungere Diogene è un’affermazione del rapporto diretto e naturale che il filosofo ha con il sole, in contrasto con la genealogia mitica secondo la quale il re, in quanto discendente da un dio, era considerato la personificazione del sole.
I cinici usavano anche la tecnica di trasferire una regola da un campo in cui la regola era accettata a un campo in cui non lo era, in modo da mostrarne così l’arbitrarietà. Una volta, durante le corse atletiche e le gare di cavalli dei giochi istmici, Diogene – che molestava tutti con le sue pungenti osservazioni – prese una corona di aghi di pino e se la mise in testa come se fosse stato lui il vincitore della gara. I magistrati furono molto contenti di questo gesto, perché pensarono che quella era finalmente una buona occasione per punirlo, per escluderlo, per liberarsi di lui. Ma egli spiegò che si era messo una corona in testa perché aveva ottenuto una vittoria contro la povertà, l’esilio, il bisogno e i propri vizi, ben più ardua di quella degli atleti che avevano vinto correndo, lottando o lanciando il disco. E più tardi, durante i giochi, vide due cavalli che lottavano tra loro scalciando fino a che uno dei due cadde per terra. Allora Diogene andò a mettere una corona sulla testa del cavallo che era rimasto in piedi. Questi due spiazzamenti simmetrici hanno l’effetto di sollevare la questione: «Cosa stai facendo veramente, quando premi qualcuno con una corona ai giochi istmici?». Giacché se la corona è assegnata per sancire una vittoria morale, allora Diogene merita una corona. Se invece è solo questione di forza fisica, allora non c’è nessuna ragione perché non si debba dare la corona anche a un cavallo.
La parresia cinica, nei suoi aspetti scandalosi, utilizza anche la pratica di mettere insieme due regole di comportamento che sembrano contraddittorie e lontane l’una dall’altra. Per esempio, a proposito del problema dei bisogni corporei. Voi mangiate. Non c’è in questo, nessuno scandalo, tanto che potete mangiare in pubblico (anche se, per i greci, questa non è una cosa del tutto ovvia e Diogene veniva talvolta rimproverato per il fatto di mangiare nell’agora). Dal momento che Diogene mangiava nell’agorà, egli pensava che non ci fosse nessuna ragione per cui non dovesse anche masturbarsi nell’agora; in entrambi i casi stava soddisfacendo un bisogno corporeo (con l’aggiunta che «magari potessi cacciar via anche la fame, strofinando così il ventre»). Bene, non cercherò di nascondere la sfacciataggine (anaideia) dei cinici in quanto pratica o tecnica scandalosa. Come sapete, la parola «cinico» viene da una parola greca che significa «simile al cane» (kynikoi); e Diogene era chiamato «il cane». In effetti, il primo e unico riferimento contemporaneo a Diogene si trova nella Retorica di Aristotele e in quel luogo Aristotele non menziona nemmeno il nome «Diogene», ma lo chiama semplicemente «il cane». I nobili filosofi greci, che normalmente costituivano un gruppo d’élite, quasi sempre disprezzavano i cinici.
I cinici usavano anche un’altra tecnica parresiastica, il «dialogo provocatorio». Per darvi un esempio più preciso di questo tipo di dialogo – che deriva dalla parresia socratica – ho scelto un brano dal Quarto discorso sul regno di Dione Crisostomo di Prusa (ca. 40-110 d.C.).
Conoscete tutti Dione Crisostomo? È un tipo molto interessante, vissuto tra la metà del I e l’inizio del II secolo della nostra era. Era nato a Prusa, nell’Asia Minore, da una ricca famiglia che aveva un ruolo importante nella vita cittadina. La famiglia di Dione era tipica di quel notabilato ricco di provincia che forniva all’Impero romano molti scrittori, funzionari, alti gradi militari, talvolta persino imperatori. Dione venne a Roma probabilmente come retore di professione, ma ci sono molte discussioni su questo punto. Uno studioso americano, C. P. Johns, ha scritto un libro molto interessante su Dione Crisostomo che tratteggia la vita sociale di un intellettuale di quei tempi nell’Impero romano. A Roma, Dione Crisostomo divenne frequentatore di Musonio Rufo, il filosofo stoico, e probabilmente per suo tramite si inserì in alcuni circoli liberali che si opponevano al potere tirannico. In conseguenza di ciò, fu esiliato da Domiziano – che non amava le sue idee – e cominciò così una vita randagia, adottando per molti anni il costume e gli atteggiamenti dei cinici. Quando finalmente fu autorizzato a ritornare a Roma, dopo l’assassinio di Domiziano, cominciò una nuova carriera. Riacquistò l’antica fama e divenne un insegnante ricco e famoso. Ma, per un certo periodo, tenne lo stile di vita, l’atteggiamento, gli abiti e la posizione filosofica di un filosofo cinico. Dobbiamo tuttavia tenere presente che Dione Crisostomo non fu un cinico «puro»; e forse il suo retroterra intellettuale fa sì che la sua descrizione del gioco parresiastico cinico sia più vicina alla tradizione socratica che non alla maggior parte delle effettive pratiche ciniche.
Nel Quarto discorso di Dione Crisostomo, penso che possiate trovare tutte e tre le forme della parresia cinica. La fine del discorso è una specie di predica, e qui e là ci sono riferimenti al comportamento scandaloso di Diogene, nonché esempi che illustrano il dialogo provocatorio di Diogene con Alessandro. L’argomento del discorso è il famoso incontro tra Diogene e Alessandro Magno, che ebbe effettivamente luogo a Corinto. Il discorso comincia con le riflessioni di Dione su questo incontro (1-14); segue poi un dialogo immaginario che tratteggia la natura della conversazione tra Diogene e Alessandro (15-81); e finisce con una lunga, serrata discussione – che si immagina riferita da Diogene – a proposito di tre tipi di stili di vita fallaci e insoddisfacenti (82-139).
Proprio all’inizio del Discorso, Dione critica quelli che presentano l’incontro di Diogene con Alessandro come un incontro tra eguali: da una parte, un uomo famoso per la capacità di comando e per le vittorie militari, dall’altra un uomo famoso per lo stile di vita libero e autosufficiente e per la virtù morale, austera e vicina alla natura. Diogene non vuole che la gente lodi Alessandro per il solo fatto che lui, sovrano potente, non ha disdegnato un povero come Diogene. Insiste sul fatto che Alessandro si sentiva effettivamente inferiore a Diogene e che era anche un po’ invidioso della sua reputazione; a differenza di Alessandro, che voleva conquistare il mondo, Diogene infatti non era costretto a fare niente che non volesse:
Alessandro aveva bisogno della falange macedone, della cavalleria tessale, dei Traci, dei Peoni e di molti altri ancora per arrivare là dove voleva e fer ottenere ciò che desiderava; Diogene invece si muoveva da solo, in perfetta sicurezza, di giorno e di notte, dovunque volesse andare. Al primo erano necessarie somme ingenti di oro e argento per realizzare i suoi progetti; di più, se voleva davvero sottomettere i Macedoni e gli altri Greci, doveva di volta in volta carpire i favori dei capi e del popolo con parole e con doni; al contrario, Diogene, non titillava nessuno con l’adulazione, ma diceva a tutti la verità, e anche se non aveva una sola dracma, si poteva permettere di fare tutto ciò che gli pareva, nan mancava mai di realizzare ciò che si proponeva, era il solo a poter vivere la vita che considerava migliore e più felice, e non avrebbe mai accettato, in cambio della sua povertà, né il trono di Alessandro, né le ricchezze dei Medi o dei Persani.
È chiaro che Diogene appare qui come maestro di verità; e da questo punto di vista Alessandro è inferiore a lui e colpevole di questa inferiorità. Ma anche se Alessandro ha alcuni vizi e difetti di carattere, non è un cattivo sovrano, e sceglie di giocare al gioco parresiastico di Diogene:
Dunque il re andò da [Diogene], gli si sedette vicino e lo salutò; ma l’altro lo guardò con un terribile ghigno da leone, e gli intimò di alzarsi e di spostarsi un poco per lasciare che il sole lo scaldasse. Alessandro fu allo stesso tempo positivamente colpito dalla sfacciataggine dell’uomo e dalla compostezza con cui non si mostrava intimidito dalla sua presenza. Infatti, è in qualche misura naturale che i coraggiosi amino i coraggiosi, mentre i vigliacchi guardano a essi con timore e li temono come nemici, e al contrario danno il benvenuto ai vigliacchi e li apprezzano. E così per i primi le cose più gradevoli del mondo sono la verità e la franchezza (parresia), per i secondi l’adulazione e l’inganno. Questi ultimi prestano un orecchio attento a coloro che cercano di risultare loro piacevoli, i primi a quelli che hanno riguardo per la verità .
Il gioco parresiastico cinico che ha inizio è per certi versi simile al dialogo socratico, giacché vi è uno scambio di domande e risposte. Ma ci sono almeno due differenze significative. Innanzitutto, nel gioco parresiastico cinico è Alessandro che tende a porre le domande e Diogene, il filosofo, a rispondere – il che è il contrario di quanto avviene nel dialogo socratico. In secondo luogo, mentre Socrate gioca con l’ignoranza dell’interlocutore, Diogene vuole colpire l’orgoglio di Alessandro. Per esempio, all’inizio del dialogo, Diogene definisce Alessandro un bastardo, e gli dice che uno che pretende di essere re non è molto diverso da un bambino che, dopo avere vinto al gioco, si mette la corona in testa e si proclama re (47-49). Naturalmente, tutto ciò non è piacevole da sentire per Alessandro. Ma questo è il gioco di Diogene: stuzzicare l’orgoglio del suo interlocutore, costringerlo a riconoscere che egli non è quello che pretende di essere – il che è piuttosto diverso dall’intento di Socrate di dimostrare a qualcuno che ignora quello che pretende di sapere. Nei dialoghi socratici, talvolta potete vedere che viene colpito l’orgoglio di qualcuno quando costui è costretto a riconoscere che non sa ciò che pretende di sapere. Per esempio, quando Callide è condotto a prendere consapevolezza della propria ignoranza, rifiuta ogni discussione perché è stato colpito nell’orgoglio. Ma questo è solo un effetto collaterale, per così dire, rispetto all’obiettivo essenziale dell’ironia socratica che consiste nel mostrare a qualcuno che ignora la sua ignoranza. Nel caso di Diogene, invece, è l’orgoglio l’obiettivo principale, e il gioco ignoranza/conoscenza è l’effetto collaterale.
Da questi attacchi nei confronti dell’orgoglio dell’interlocutore, voi vedete che l’interlocutore è condotto al limite del primo contratto parresiastico, cioè ad accettare di giocare al gioco, a scegliere di prendere parte alla discussione. Alessandro vuole coinvolgere Diogene nella discussione, è disposto ad accettare la sua insolenza e i suoi insulti, ma c’è un limite. E tutte le volte che Alessandro si sente insultato da Diogene, si arrabbia ed è sul punto di lasciar perdere o addirittura di mandare il suo interlocutore a quel paese. Vedete che il gioco parresiastico cinico è condotto proprio ai limiti del contratto parresiastico. Esso confina con la trasgressione, giacché il parresiastes può avere fatto molte osservazioni insolenti. Ecco un esempio di questo gioco, al limite dell’accettazione parresiastica della discussione:
[Diogene] continuò rimproverando al re di non aver mai posseduto l’emblema della regalità […]. «E qual è questo emblema?», disse Alessandro. «È l’emblema delle api – rispose – quello che il re indossa. Non hai mai sentito che tra le api c’è un re, tale per natura, che non ricopre il suo incarico in virtù di quella che voi, discendenti di Ercole, chiamate eredità?». «E qual è questo emblema?», insistette Alessandro. «Non hai mai sentito – chiese l’altro – i contadini dire che questa è l’unica ape che non ha pungiglione, poiché non ha bisogno di armi contro nessuno? Infatti nessun’altra ape può sfidare il suo diritto di essere re o combatterlo quando egli porta il suo emblema. Ho idea tuttavia che tu non solo vada in giro armato di tutto punto, ma che pure ci dormi con le armi. Lo sai – continuò – che è segno di paura quando un uomo si arma? E nessun uomo pauroso avrebbe mai la possibilità di diventare re, più di quanto non ne abbia uno schiavo» .
Diogene argomenta: se prendi le armi hai paura. Ma nessuno che abbia paura può essere un re. Dunque, dal momento che Alessandro prende le armi non può essere un vero re. E, naturalmente, Alessandro non è molto gratificato da questa argomentazione; e Dione continua:
«A queste parole Alessandro fu sul punto di scagliargli contro la sua lancia».
Quel gesto ovviamente avrebbe significato la rottura, la trasgressione del gioco parresiastico. Quando il dialogo arriva a questo punto, ci sono due possibilità a disposizione di Diogene per riportare in gioco Alessandro. La prima è questa: Diogene dice
«Va bene. So che sei stato offeso e so anche che sei libero. Tu hai sia la capacità che la legittimazione giuridica per uccidermi. Ma sarai abbastanza coraggioso da ascoltare dalla mia bocca la verità, o sei così codardo da dovermi uccidere?».
E, per esempio, a un certo punto del dialogo, dopo aver insultato Alessandro, Diogene gli dice:
«[…] Per ciò che dico ti adiri e ti irrigidisci […] e pensi che io sia il più grande mascalzone e mi insolentisci agli occhi del mondo; se ti fa piacere, trafiggimi con la tua lancia; tanto io sono l’unico dal quale potrai avere la verità, e tu non potrai apprenderla da nessun altro. Tutti gli altri sono meno onesti e più servili di me».
Diogene, dunque, provoca volontariamente Alessandro e poi gli dice:
«Ebbene, puoi uccidermi; ma se lo fai nessun altro ti dirà la verità».
E c’è uno scambio, viene redatto un nuovo contratto parresiastico con un nuovo limite imposto da Diogene: o mi uccidi, o conosci la verità. Questo tipo di coraggioso «ricatto» dell’interlocutore in nome della verità produce un’impressione positiva su Alessandro:
«Allora Alessandro rimase scosso dal coraggio e dall’ardire di quell’uomo».
E così, Alessandro decide di stare al gioco e per questa via si stabilisce un patto nuovo.
Un altro modo utilizzato da Diogene per riportare Alessandro in gioco è più sottile della sfida che abbiamo esaminato: Diogene usa anche l’astuzia. Questa astuzia è diversa dall’ironia socratica; come tutti voi sapete, nell’ironia socratica, Socrate finge di essere ignorante come il suo interlocutore, cosicché quest’ultimo non si vergogni di dichiarare la propria ignoranza e accetti di rispondergli. Questo almeno era il principio dell’ironia socratica. L’astuzia di Diogene è qualcosa di diverso; nel momento in cui l’interlocutore sta per porre fine al dialogo, Diogene dice qualcosa che il suo interlocutore crede un complimento. Per esempio, dopo che Diogene ha dato del bastardo ad Alessandro – cosa a quest’ultimo non molto gradita – gli dice:
«[…] Non è stata Olimpia a dire che tuo padre non era Filippo, ma piuttosto un drago, o il dio Ammone o qualche altro dio o semidio o animale selvaggio? In questo caso saresti certamente un bastardo».
A questo punto Alessandro rise e si compiacque come non mai, pensando che Diogene, lungi dall’essere rude, fosse un uomo dotato di grande tatto, Punico davvero in grado di fare un complimento. Mentre il dialogo socratico traccia un sentiero intricato e tortuoso da una comprensione ignorante a una ignoranza consapevole, il dialogo cinico somiglia piuttosto a una lotta, a una battaglia, o a una guerra, con punte di grande aggressività e momenti di pacificazione – scambi pacifici che naturalmente rappresentano altrettante ulteriori trappole per l’interlocutore. Nel Quarto discorso, Dione Crisostomo spiega la razionalità sottesa a questa strategia che mescola aggressività e dolcezza; Diogene domanda ad Alessandro:
«Hai mai sentito parlare del mito libico?».
Il re rispose di no. E Diogene gliene fece un racconto preciso e intrigante, giacché voleva metterlo di buon umore, proprio come fanno le balie, che dopo aver dato ai bambini uno schiaffo, raccontano loro una storia per calmarli. E poco oltre Dione aggiunge:
Quando Diogene realizzò che [Alessandro] era giunto al colmo dell’eccitazione e dell’aspettativa, si prese gioco di lui e lo maltrattò di nuovo, nella speranza di poterlo in qualche modo scuotere dal suo orgoglio e dalla sua vanagloria, facendolo così rinsavire un poco. Gli fece infatti notare che la stessa cosa una volta lo allietava e un’altra lo rattristava, e che la sua anima era incerta come il tempo nei solstizi, quando la stessa nuvola porta il sole e la pioggia .
La cortesia di Diogene è però solo un modo per far avanzare il gioco e preparare la strada per ulteriori scambi aggressivi. Così, dopo che Diogene ha gratificato Alessandro con le osservazioni circa la sua genealogia «bastarda», e ha considerato la possibilità che Alessandro possa essere figlio di Zeus, si spinge oltre e gli dice che quando Zeus ha un figlio lascia su di esso tracce della sua origine divina. Naturalmente Alessandro pensa di avere simili tracce e chiede a Diogene come si può essere un buon re. La risposta di Diogene è un ritratto puramente morale della sovranità:
«Nessuno può essere un cattivo re più di quanto non possa essere un cattivo uomo; infatti il re è il migliore tra gli uomini perché è il più coraggioso, il più giusto e il più umano, e non può essere sopraffatto da nessun affanno e nessun appetito. O tu pensi che un uomo sia come un auriga che non sa guidare o un pilota incapace di governare il timone o un dottore che non sa curare i malati? È impossibile, per quanto tutti i Greci e i barbari lo acclamino per tale e lo riempiano di diademi, scettri e tiare, come le tante collane che vengono messe al collo dei bambini abbandonati, nel timore di non saperli riconoscere. Così, proprio come non si può essere pilota se non alla maniera dei piloti, non si può essere re se non in modo regale» .
Troviamo qui l’analogia già evidenziata dell’arte di governo con la navigazione e con la medicina. In quanto «figlio di Zeus», Alessandro pensa di recare in sé delle tracce o dei segni che dimostrino la sua regalità e la sua ascendenza divina. Ma Diogene gli dimostra che il carattere davvero regale non è connesso a una condizione speciale di nascita, di potere e così via. L’unico modo di essere un vero re è di comportarsi come tale. E quando Alessandro chiede come può imparare quest’arte della regalità, Diogene gli risponde che non la si può imparare, perché si è nobili per natura.
Qui il gioco giunge a un punto in cui Alessandro non acquista consapevolezza del proprio deficit di conoscenza, come nel dialogo socratico. Egli scopre, al contrario, di non essere in alcun modo ciò che pensava di essere – cioè un re di ascendenza regale, dotato di segni della propria natura divina, o un sovrano che è tale in virtù del proprio potere superiore, e via dicendo. Egli è condotto al punto in cui Diogene gli dice che l’unico modo per essere davvero un re è quello di adottare lo stesso tipo di ethos del filosofo cinico. E a questo punto dello scambio, ad Alessandro non resta più nulla da dire.
Nel caso del dialogo socratico, accade anche talvolta che la persona con cui Socrate ha dialogato non sappia più che cosa dire, che Socrate riassuma il discorso presentando una tesi definita, e che quindi il dialogo si concluda. In questo testo di Dione Crisostomo, Diogene intraprende un discorso continuo; e tuttavia, la sua argomentazione non rappresenta la verità di una tesi definita, ma si accontenta di dare una descrizione precisa di tre erronee modalità del carattere regale. La prima riguarda la ricchezza, la seconda il piacere fisico e la terza la gloria e il potere politico. E questi tre stili di vita sono personificati da tre daimones, o spiriti.
Il concetto di daimon era diffuso nella cultura greca e divenne anche un concetto filosofico – in Plutarco, per esempio, la lotta contro i daimones cattivi, propria dell’ascesi cristiana, trova i suoi antecedenti nella tradizione cinica. Incidentalmente, il concetto di «démon» è stato elaborato in un eccellente articolo del Dictionnaire de spiritualité. Diogene fornisce una indicazione dei tre daimones contro cui Alessandro deve lottare nella vita, e che costituiscono l’obiettivo di una «lotta spirituale» permanente – di un «combat spirituel». Naturalmente, questa espressione non compare nel testo di Dione; ma qui non è uno specifico contenuto ad assumere rilevanza, ma l’idea di una pratica parresiastica che conferisce a qualcuno la capacità di combattere una guerra spirituale all’interno di sé.
E io penso che possiamo vedere in questo aggressivo incontro tra Alessandro e Diogene una lotta che si svolge tra due tipi di potere: il potere politico e il potere della verità. In questa lotta, il parresiastes accetta e fronteggia un pericolo costante: Diogene si espone al potere di Alessandro dall’inizio alla fine del discorso. E l’effetto principale di questa lotta parresiastica col potere non è di condurre l’interlocutore a una nuova verità, o a un nuovo livello di autocoscienza; è di portare l’interlocutore a interiorizzare la lotta parresiastica – a combattere dentro di sé contro i propri errori e a comportarsi con se stessi nello stesso modo in cui si comporta Diogene.
Parresia e relazioni interpersonali
Vorrei analizzare ora il gioco parresiastico nell’ambito dei rapporti interpersonali, scegliendo alcuni esempi da Plutarco e da Galeno in grado di illustrare alcuni problemi tecnici che possono sorgere. C’è un testo in Plutarco che è esplicitamente dedicato al problema della parresia. Analizzando alcuni aspetti del problema parresiastico, Plutarco cerca di rispondere alla domanda:
«Come è possibile riconoscere un autentico parresiastes, uno che dice davvero la verità?». E analogamente: «Come è possibile distinguere un parresiates da un adulatore?».
Il titolo di questo testo, che è inserito nei Moralia di Plutarco, è Come distinguere l’adulatore dall’amico. Credo sia necessario sottolineare alcuni punti di questo testo. Innanzitutto, per quale motivo abbiamo bisogno nella nostra vita di qualche amico che svolga il ruolo del parresiastes, di quello che ci dice la verità? La ragione che Plutarco ci suggerisce si fonda sul tipo predominante di rapporto che abbiamo spesso con noi stessi, cioè un rapporto di philautia o di «amore di sé». Questo rapporto di amore di sé è per noi il fondamento di una persistente illusione a proposito di ciò che siamo:
Siccome ciascuno, autocompiacendosi, è il primo e principale adulatore di sé, accetta senza difficoltà un testimone esterno che venga a confermare i suoi desideri e le sue illusioni. Infatti colui che apprezza gli adulatori e che viene criticato per questo suo vizio è in realtà una persona che ama molto se stessa, e che per questa sua propensione desidera e crede di possedere tutti i pregi: desiderarli non è irragionevole, ma credere di possederli è rischioso e richiede parecchia prudenza. Orbene, se la verità è cosa divina e principio secondo Platone «di tutti i beni, sia per gli dei che per gli uomini» (Leggi, 730c), l’adulatore rischia d’essere un nemico degli dei, e soprattutto del dio Pizio. S’oppone infatti ad ogni istante al «conosci te stesso» poiché induce ciascuno a farsi un’idea fallace di sé e dei beni e dei mali che lo riguardano, rendendo i beni difettosi e manchevoli ed i mali affatto incorreggibili.
Noi siamo gli adulatori di noi stessi ed è proprio per disattivare , questo spontaneo rapporto che abbiamo con noi stessi, per proteggerci dall’amore di sé, che abbiamo bisogno di un parresiastes. Tuttavia è difficile riconoscere e accettare un parresiastes. Non solo, infatti, è difficile distinguere un vero parresiastes da un adulatore, ma a causa della nostra philautia non abbiamo neppure interesse a riconoscerlo. Dunque, al centro di questo testo c’è il problema di determinare il criterio certo che ci consenta di distinguere il vero parresiastes di cui abbiamo così tanto bisogno per liberarci della nostra philautia, dall’adulatore che
«fa la parte dell’amico con la serietà di un attore tragico» (50e) .
E ciò implica che siamo in possesso di una specie di «semiologia» del vero parresiastes. Per rispondere alla domanda: «Come possiamo riconoscere un vero parresiastes», Plutarco propone due criteri essenziali. In primo luogo, c’è una corrispondenza tra ciò che il vero parresiastes dice e il modo in cui si comporta – e qui potete riconoscere l’armonia socratica del Lachete, laddove Lachete spiega di potersi fidare di Socrate come di uno che racconta la verità circa il coraggio, giacché ha visto che Socrate è stato realmente coraggioso a Delio, e dunque che egli mostra un accordo armonico tra quello che dice e quello che fa. Ma c’è anche un secondo criterio che è rappresentato dalla permanenza, dalla continuità, dalla stabilità e dalla risolutezza del vero parresiastes, del vero amico, in relazione alle sue scelte, alle sue opinioni, ai suoi pensieri:
Prima di tutto bisogna vedere la coerenza e la continuità del suo genere di vita, se si diletta sempre delle stesse cose e loda sempre le stesse cose, e se regola e indirizza la propria esistenza secondo un unico modello, come si addice a un uomo libero amante dell’amicizia tra simili. Tale infatti è l’amico. L’adulatore, il cui carattere è per così dire senza fissa dimora, che non vive in conformità d’una sua libera scelta, ma si plasma e si adatta ad un altro e per un altro, non è semplice né coerente, ma molteplice e variato, e passa da un modello all’altro come l’acqua che si travasa, che scorre e assume la forma dei recipienti .
Naturalmente ci sarebbero una quantità di cose interessantissime da dire a proposito di questo testo. Io vorrei sottolineare qui due temi principali. Innanzitutto, il tema dell’autoinganno e dei suoi legami con la philautia – che non è del tutto nuovo. Ma nel testo di Plutarco potete vedere che la nozione di autoinganno, come conseguenza dell’amore di sé, è cosa chiaramente diversa dalla condizione di chi non sa di non conoscere se stesso – condizione che Socrate aveva cercato di superare. La concezione di Plutarco sottolinea il fatto che non solo siamo incapaci di sapere che non sappiamo niente, ma che siamo anche incapaci di sapere, esattamente, che cosa noi siamo. E io credo che questo tema dell’autoinganno divenga sempre più importante nella cultura ellenistica. All’epoca di Plutarco è veramente molto rilevante.
Un secondo tema che vorrei sottolineare è la risolutezza nei propositi. Neanche questo è un tema nuovo, ma nel tardo stoicismo la nozione di risolutezza acquista grande importanza. E c’è un ovvio rapporto tra questi due temi – quello dell’autoinganno e quello della costanza o persistenza (endelecheia) delle idee. Distruggere l’autoinganno e acquisire e mantenere continuità di giudizio sono due attività etico-morali connesse l’una con l’altra: l’autoinganno ci impedisce di sapere chi siamo o che cosa siamo; i cambiamenti di pensiero, sentimento e opinione ci costringono a spostarci da un pensiero all’altro, da un sentimento all’altro o da un’opinione all’altra. Se si è in grado di discernere esattamente che cosa si è, allora si sta fermi nello stesso punto e non si sarà smossi da nulla. Ma se si è spostati da qualche tipo di stimolo, di sentimento, di passione ecc., allora non si è capaci di restare saldamente ancorati a se stessi, si è dipendenti da qualcos’altro, si è guidati da interessi diversi, e conseguentemente non si è capaci di mantenere un completo dominio di sé.
Questi due elementi – l’ingannare se stessi e l’essere mossi dai cambiamenti del mondo e dei propri pensieri – si svilupparono entrambi crescendo in significato nella tradizione cristiana. Nella spiritualità protocristiana, Satana è spesso rappresentato insieme come l’agente dell’autoinganno (opposto alla rinuncia di sé) e il responsabile dei cambiamenti di opinione – l’instabilità e l’irresolutezza dell’anima in quanto opposte alla firmitas nella contemplazione di Dio. Fissare il proprio pensiero su Dio era un mezzo, innanzitutto, per rinunciare al proprio sé, in modo da eliminare ogni tipo di autoinganno . Ed era anche un mezzo per acquisire una saldezza etica e ontologica. Perciò io credo che possiamo vedere nel testo di Plutarco – nell’analisi dei rapporti tra parresia e adulazione – alcuni elementi che diventeranno significativi anche per la tradizione cristiana.
Vorrei fare riferimento ora, molto brevemente, a un testo di Galeno (130-200 d.C.) – il famoso medico della fine del II secolo – nel quale si può vedere lo stesso problema: come sia possibile riconoscere un vero parresiastes. Galeno solleva tale questione nel saggio Sulla diagnosi e la cura delle passioni dell’anima, in cui spiega che se un uomo vuole liberarsi dalle passioni ha bisogno di un parresiastes; infatti, proprio come in Plutarco un secolo prima, la philautia, l’amore di sé, è la strada dell’autoinganno:
Le cose degli altri le vediamo sempre, le nostre non riusciamo mai a percepirle. Tutti riconoscono la verità di questa affermazione. Platone ne dà anche una spiegazione. Chi ama, dice, è cieco verso ciò che ama. Perciò, se qualcuno tra noi ama se stesso più di ogni altra cosa, necessariamente sarà cieco verso se stesso […]. Ci sono passioni dell’anima che tutti conoscono; l’iracondia, l’ira, la paura, la tristezza, l’invidia e il desiderio violento. È mia opinione che qualunque eccesso nell’amore o nell’odio è anch’esso una passione. Mi sembra che sia corretto sostenere che la cosa migliore è la moderazione; niente di immoderato, infatti, potrebbe essere giusto. Come, infatti, si possono recidere le passioni se prima non si è riconosciuto di esserne soggetti? Ma come ho già detto, non le potremo conoscere se amiamo noi stessi troppo fortemente. E, se un simile discorso non ti permette di giudicare te stesso, ti consente tuttavia di esprimere un giudizio sugli altri, a patto che tu non li ami né li odi. Se sentirai di qualcuno in città che è lodato da tutti perché non si lascia trascinare dall’amore né dall’odio, perché non si fa adulatore di nessuno, cerca di stare con lui e cerca di giudicare direttamente se sia davvero come tutti dicono […]. Quando qualcuno non saluta i ricchi e i potenti, né con loro si accompagna, né mangia insieme a loro, ed è invece abituato a cibi frugali, aspettati che costui dica la verità; cerca di avere qualche notizia ulteriore su che tipo di uomo sia, e confronta tutto questo con una lunga consuetudine di frequentazione con lui. Se lo avrai davvero trovato tale, cerca di ottenere da lui una conversazione in privato e fa’ in modo che ti dica col massimo di prontezza quali delle succitate passioni egli riconosca in te; digli che se farà così lo stimerai un medico più che se avesse restituito salute al tuo corpo affaticato. Cerca di farti promettere che sia sempre pronto a dirti se ti vedrà affetto da una delle passioni che ho menzionato .
É interessante notare che in questo testo, il parresiastes – di cui ciascuno ha bisogno per liberarsi del proprio autoinganno – non necessariamente deve essere un amico, qualcuno che si conosca, con cui si sia in rapporto. E questa, io credo, costituisce una differenza molto importante tra Galeno e Plutarco. In Plutarco, Seneca, e nella tradizione che deriva da Socrate, il parresiastes deve sempre essere un amico. E questo rapporto di amicizia era sempre alla radice del gioco parresiastico. Per quanto io ne sappia, con Galeno per la prima volta il parresiastes non è necessariamente un amico. Anzi, è molto meglio, dice Galeno, che il parresiastes sia qualcuno che non si conosce, in modo che possa essere completamente neutrale. Un buon dicitore di verità in grado di darci onesti consigli circa noi stessi non deve temerci ma non deve neanche amarci. Un buon parresiastes è uno con cui non abbiamo avuto in precedenza nessun particolare rapporto.
Ma naturalmente non lo si può scegliere a caso. Bisogna selezionare alcuni criteri per capire se è davvero capace di mettere in luce i nostri errori. E per questo bisogna avere delle informazioni su di lui. Ha una buona reputazione? E abbastanza adulto? È abbastanza ricco? È molto importante che colui che svolge il ruolo del parresiastes sia ricco almeno quanto il suo interlocutore. Perché se lui è povero e l’interlocutore è ricco, allora ci saranno molte maggiori probabilità che sia un adulatore – dal momento che avrebbe tutto l’interesse per esserlo. I cinici, naturalmente, avrebbero detto che colui che è ricco, che ha un rapporto positivo con la ricchezza, non può essere veramente saggio; e dunque non è utile sceglierlo come parresiastes. L’idea di Galeno di scegliere qualcuno più ricco perché agisca come il proprio dicitore di verità sembrerebbe ridicola a un cinico. Ma è interessante osservare anche che, in questo scritto, il dicitore di verità non ha bisogno di essere un medico o un dottore. Nonostante il fatto che lo stesso Galeno fosse un medico, e fosse spesso obbligato a «curare» gli eccessi delle passioni altrui, e spesso con successo, egli non considera necessario che il parresiastes sia un medico, o che possegga la capacità di curare il suo interlocutore e le sue passioni. Ciò che serve è che egli sappia dirci la verità su noi stessi.
Ma non basta sapere che il dicitore di verità è abbastanza adulto, abbastanza ricco e che possiede una buona reputazione. Egli deve anche essere messo alla prova, E Galeno fornisce un programma per sperimentare il potenziale parresiastes. Per esempio, gli si possono porre domande che lo riguardano e vedere come risponde, per capire se sarà sufficientemente severo nel ruolo. Bisognerà essere sospettosi se il potenziale parresiastes è incline alle lusinghe, se non è abbastanza severo, e così via. Galeno non dà una definizione precisa del ruolo del parresiastes nella Diagnosi e cura delle passioni dell’anima; offre solo qualche esempio del tipo di consigli che egli diede quando assunse questo ruolo a vantaggio di altri. Ma, per riassumere quanto è stato detto, in questo testo il rapporto tra parresia e amicizia non sembra più in auge, e c’è una sorta di processo o di interrogatorio del potenziale parresiastes da parte del suo «patrono» o «cliente». Chiedo scusa per la brevità dell’esposizione di questi testi di Plutarco e Galeno; ma non sono testi difficili da leggere, sono solo difficili da trovare.
Parresia e tecniche di indagine
Vorrei ora dedicarmi alle varie tecniche del gioco parresiastico che si possono trovare nella letteratura filosofica e morale dei primi due secoli della nostra era. Naturalmente, non mi propongo di enumerare o discutere tutte le pratiche di questo tipo che si possono trovare negli autori di quel periodo. Per cominciare, vorrei fare tre osservazioni preliminari. In primo luogo, penso che queste tecniche manifestano un interessantissimo e importantissimo cambiamento rispetto al gioco della verità che – nella concezione greco-classica della parresia – era costituito dal fatto che qualcuno avesse sufficiente coraggio per dire la verità ad altri. Ora c’è un cambiamento da quel tipo di gioco parresiastico a un altro gioco della verità, che consiste nell’avere sufficiente coraggio per scoprire la verità su se stessi.
In secondo luogo, questo nuovo tipo di gioco parresiastico – in cui il problema è di affrontare la verità su se stessi – richiede quella che i greci chiamavano askesis (ασκησις). Anche se la nostra parola «ascetismo» deriva dalla parola greca askesis, il significato della parola cambia quando viene associata con differenti pratiche cristiane. Per i greci la parola non significa «ascesi», ma ha un senso molto più largo, che denota tutti i tipi di addestramento o esercizio pratico. Per esempio era un luogo comune dire che qualsiasi tipo di arte o di tecnica doveva essere appresa con mathesis e con askesis, con la conoscenza teorica e con l’addestramento pratico. E per esempio, quando Musonio Rufo dice che l’arte di vivere, techne tou biou, è come le altre arti, cioè non può essere appresa soltanto attraverso insegnamenti teorici, sta ripetendo una teoria tradizionale. Questa techne tou biou, quest’arte di vivere, richiede pratica e addestramento: askesis. Ma la concezione greca dell‘askesis differisce dalle pratiche ascetiche cristiane almeno per due aspetti: 1) l’ascesi cristiana ha come scopo e obiettivo ultimo la rinuncia del sé, mentre l’askesis morale delle filosofie greco-romane ha per fine la definizione di una specifica relazione con se stessi; una relazione di auto-possesso e di auto-sovranità; 2) l’ascesi cristiana sceglie come tema centrale il di¬stacco dal mondo, mentre le pratiche ascetiche delle filosofie greco-romane si occupano generalmente di dotare l’individuo di una preparazione e di un corredo morale che gli permettano di affrontare appieno il mondo in una maniera etica e razionale.
In terzo luogo, queste pratiche ascetiche implicavano numerosi e differenti tipi di esercizi particolari; ma non erano mai specificamente catalogate, analizzate o descritte. Alcune di esse venivano discusse e criticate, ma la maggior parte era nota a tutti. Dato che moltissima gente le conosceva, erano adoperate abitualmente senza che vi fosse una teoria precisa circa il modo di esercitarle. E in effetti può capitare spesso al lettore odierno di questi autori greci e latini di farsene un’idea sbagliata, dal momento che essi discutono questi esercizi nel contesto di specifici luoghi teorici (come il tempo, la morte, il mondo, la vita, la necessità ecc.). Questi luoghi funzionano di solito solo come uno schema o una matrice per l’esercizio spirituale. Di fatto, molti di questi testi sull’etica scritti nell’età tardo-antica non si propongono di avanzare una teoria di fondazione dell’etica, ma sono testi pratici, contenenti ricette ed esercitazioni specifiche, che bisognava leggere, rileggere, meditare, imparare, per costruirsi una matrice duratura del proprio comportamento.
E veniamo ora ai tipi di esercizi attraverso i quali qualcuno si proponeva di esaminare la verità a proposito di se stesso, e di dire tale verità a qualcun altro.
Il più delle volte, quando ci riferiamo a tali esercizi, parliamo di pratiche che comportano un «esame di coscienza». Ma io credo che l’espressione «esame di coscienza» sia troppo generica, tesa com’è a caratterizzare tutti questi differenti esercizi in modo impreciso e troppo semplicistico. Dobbiamo definire molto esattamente i diversi giochi di verità posti in opera in queste pratiche della tradizione greco-romana. Vorrei analizzare cinque di tali giochi di verità, comunemente descritti come «esami di coscienza», per mostrarvi: 1) quanto ciascuno degli esercizi differisca dall’altro; 2) quali aspetti della riflessione, dei sentimenti, del comportamento ecc. venivano considerati in questi diversi esercizi; 3) che questi esercizi, nonostante le loro differenze, comportavano un rapporto tra la verità e il sé che è assai diverso da quello riscontrabile nella tradizione cristiana.
L’autocoscienza solitaria
Il primo testo che vorrei analizzare è tratto dal De ira di Seneca:
Tutti i nostri sensi dovrebbero essere educati alla sopportazione. Essi sono naturalmente portati alla sofferenza, non appena la mente desista dal compito di attenuarli. Se ne può avere tutti i giorni la provasse ci si sottopone ad un esame. Sestio aveva questa abitudine e quando il giorno se n’era andato, prima di andare a dormire, poneva al suo animo queste domande: «Quali cattive abitudini hai cercato di correggere oggi? A quali errori hai resistito? In che cosa sei migliorato?». L’ira si placa e diventa controllabile se scopre di dover apparire in giudizio tutti i giorni. Ci può essere qualcosa di più esaltante di questa pratica di passare letteralmente al setaccio tutta la nostra giornata? E com’è dolce il sonno che segue a questa autoanalisi, com’è tranquillo e profondo e sereno, quando l’animo ha lodato o ammonito se stesso, e questo esaminatore e critico severo di sé ha dato una valutazione del proprio comportamento. Quando la luce si spegne, e mia moglie, da tempo edotta delle mie abitudini, tace, passo in rassegna tutta la mia giornata e ripercorro tutte le mie azioni e le mie parole. Non mi nascondo nulla, non dimentico nulla. Perché dovrei ritrarmi di fronte a uno qualunque dei miei errori, mentre posso mettermi, per questa via, in comunione con me stesso? «Vedi di non farlo mai più: per questa volta ti perdono. In quella discussione hai usato toni offensivi. Dopo questa volta, cerca di non incontrare più della gente ignorante; quelli che non hanno mai imparato niente non vogliono imparare. Hai rimproverato quell’uomo con troppa franchezza, e per conseguenza non lo hai aiutato a correggersi, ma piuttosto lo hai offeso. Per il futuro, non considerare solo la verità di quello che dici, ma chiediti anche se l’uomo con cui stai parlando può sopportarla. Un uomo è buono quanto più accetta i rimproveri; e più cattivo è, più se ne risente» .
Sappiamo da molte fonti che questo tipo di esercizio era un precetto giornaliero, o almeno un’abitudine, nella tradizione pitagorica. Prima di andare a dormire, i pitagorici dovevano effettuare questo tipo di esame riconsiderando gli errori che avevano commesso durante il giorno. Gli errori consistevano in quei comportamenti che trasgredivano le regole assai strette delle scuole pitagoriche. Lo scopo di questo esame, almeno nella tradizione pitagorica, era di purificare l’anima. Tale purificazione era ritenuta necessaria giacché i pitagorici consideravano il sonno uno stato d’essere durante il quale l’anima poteva mettersi in contatto con la divinità attraverso i sogni. E naturalmente bisognava avere l’anima più pura possibile per fare sogni belli e per entrare in contatto con divinità benigne. Nel testo di Seneca possiamo chiaramente vedere che questa tradizione pitagorica sopravvive negli esercizi che egli descrive (così come avviene in seguito in pratiche analoghe utilizzate dai cristiani). L’idea di adoperare il sonno e i sogni come un modo possibile per porsi in contatto con la divinità si può trovare anche nella Repubblica di Platone (libro IX, 571e-572b). Seneca ci dice che per mezzo di questo esercizio siamo in grado di procurarci un sonno dolce e piacevole: «Quanto è dolce il sonno che segue questo esame – quanto è tranquillo e profondo e sereno». E sappiamo da Seneca stesso che la sua prima educazione, impartitagli dal maestro Sozio, era stata in parte di tipo pitagorico. Tuttavia, Seneca riferisce questa pratica non al costume pitagorico ma a Quinto Sestio – che era uno dei fautori dello stoicismo a Roma, alla fine del I secolo a.C. E sembra che questo esercizio, nonostante l’origine rigorosamente pitagorica, fosse utilizzato e magnificato da diverse sette e scuole filosofiche: epicurei, stoici, cinici ecc. Per esempio, se ne trovano tracce in Epitteto. Così come sarebbe inutile negare che l’autocoscienza di Seneca è simile ai tipi di pratica ascetica usati per secoli nella tradizione cristiana. Ma se guardiamo questo testo più da vicino, penso che possiamo scorgere alcune interessanti differenze .
Innanzitutto c’è la questione dell’atteggiamento di Seneca verso se stesso. Che tipo di operazione fa effettivamente Seneca in questo eser-cizio? Qual è la matrice pratica che egli usa e applica in rapporto a sé? A prima vista sembrerebbe una pratica giudiziaria vicina alla confessione cristiana: vi sono dei pensieri, questi pensieri sono confessati, vi è un accusato (specificamente Seneca), vi è un accusatore o persecutore (ancora una volta Seneca), vi è un giudice (sempre Seneca), e pare vi sia un verdetto. L’intera scena sembra da tribunale; e Seneca adopera espressioni tipicamente giudiziarie («apparire in giudizio», «difendere la propria causa davanti al tribunale di se stessi», ecc.). Un esame più attento mostra tuttavia, che si tratta di qualcosa di diverso da una corte e da una procedura giudiziaria. Per esempio, Seneca dice di essere un «esaminatore» di se stesso (speculator sui). La parola speculator significa che egli è un «esaminatore» o «ispettore» – cioè qualcuno che ispeziona il carico di una nave, o il lavoro degli operai che costruiscono una casa. Seneca dice anche «totum diem meum scrutor» – «esamino, ispeziono tutta la mia giornata». Qui il verbo scrutor appartiene non al vocabolario giudiziario ma a quello dell’amministrazione. Più oltre Seneca afferma: «factaque ac dieta mea remetior» – «riconsidero, passo in rassegna tutto ciò che ho fatto e ho detto». Il verbo remetiri è ancora una volta un termine tecnico del gergo contabile, che ha il senso di verificare se c’è un qualche errore di calcolo. Dunque Seneca non è esattamente un giudice che sta pronunciando una sentenza su sé medesimo. E piuttosto un administrator che una volta finito il lavoro o alla fine dell’anno tira le somme, compila l’elenco e controlla che tutto sia stato fatto correttamente. Si tratta piuttosto di uno scenario amministrativo che non giudiziario.
E se consideriamo gli errori che Seneca enumera, e che porta come esempi in questo esame, vediamo che non sono quel tipo di errori che chiameremmo «peccati». Egli non confessa per esempio di aver bevuto troppo, o di avere commesso una frode, o di avercela con qualcuno – difetti che erano molto familiari a Seneca, uomo del¬la cerchia di Nerone. Si rimprovera piuttosto cose assai diverse. Di avere criticato qualcuno senza che la sua critica abbia aiutato quell’uomo, ma lo abbia al contrario ferito. Oppure critica se stesso per essere disgustato del popolo, il quale era in ogni caso incapace di comprenderlo. Comportandosi così, egli ha commesso degli «errori» (errores); ma questi errori sono solo delle azioni inefficienti che richiedono aggiustamenti tra i fini e i mezzi. Egli critica se stesso per non avere avuto sempre presente l’obiettivo della sua azione, per non avere visto che è inutile accusare qualcuno, se quella critica non cambia le cose, e così via. Il punto di errore riguarda un difetto pratico del suo comportamento, giacché è stato incapace di stabilire un concreto rapporto razionale tra i principi di condotta, che egli conosce, e il comportamento che ne ha fatto effettivamente seguire. Gli errori di Seneca non sono trasgressioni di un codice o di una legge. Esprimono piuttosto altrettante occasioni in cui il suo tentativo di coordinare le regole di comportamento (regole che egli accetta, conosce e riconosce) con la sua effettiva condotta in una specifica situazione si è dimostrato fallimentare o inefficiente.
Seneca, inoltre, non reagisce ai propri errori come se fossero peccati. E non punisce se stesso; non c’è nulla che somigli a una pena. Il riconoscimento dei propri errori ha per oggetto la riattivazione di regole pratiche di comportamento che, ribadite, possano risultare utili in situazioni future. Così egli si dice: «procura di non fare mai più così»; «non avere rapporti con gente ignorante»; «per il futuro, tieni presente non solo la verità di ciò che dici, ma anche il fatto che la persona con cui parli possa accettarla», e così via. Seneca insomma non analizza le proprie responsabilità o i propri sensi di colpa; la questione non è di purificare se stesso dai propri errori. Egli si impegna piuttosto in una specie di indagine amministrativa che lo renda capace di riattivare diverse regole e massime di comportamento per renderle più lucide, durevoli, efficaci ai fini della condotta futura.
Autodiagnosi
Il secondo testo che vorrei commentare viene da un altro libro di Seneca, il De tranquillitate animi (La tranquillità dell’anima). Il libro appartiene a un gruppo di testi scritti attorno a un tema che abbiamo già incontrato, cioè la costanza e la saldezza della mente. Molto brevemente, la parola latina tranquillitas – che corrisponde al termine greco euthumia denota stabilità dell’animo o della mente. È uno stato in cui la mente è indipendente da ogni tipo di evento esterno, e insieme è libera da ogni eccitazione o agitazione interna che possa indurre un movimento involontario dell’anima. Essa denota dunque stabilità, autogoverno e indipendenza. Ma tranquillitas fa anche riferimento a un certo sentimento di gradevole pacatezza che ha il suo fondamento e il suo principio in questo autogoverno, in questo possesso di sé.
All’inizio del De tranquillitate animi, Anneo Sereno chiede a Seneca un consulto. Sereno è un giovane amico di Seneca che appartiene alla stessa famiglia e che ha cominciato la carriera politica sotto Nerone, come sua guardia notturna. Per Sereno, come per Seneca, non c’è incompatibilità tra filosofia e carriera politica, giacché una vita filosofica non è alternativa a una vita politica. Piuttosto, la filosofia deve accompagnare l’impegno politico per garantire una cornice morale all’attività pubblica. Sereno, che era inizialmente un epicureo, è passato in seguito allo stoicismo. Ma anche dopo essere diventato stoico si sente a disagio, perché ha l’impressione di non essere in grado di migliorarsi, di avere raggiunto un punto morto, e di non essere capace di progredire. Vorrei sottolineare che per la vecchia Stoa, per Zenone e per Cizio, per esempio, quando una persona approdava alla filosofia stoica, non aveva più alcun bisogno di progredire, giacché aveva già ottenuto il massimo diventando stoico. Ciò che dunque è interessante qui è l’idea di un progresso che si può ottenere come ulteriore sviluppo nello stoicismo. Sereno conosce la dottrina stoica e le sue regole pratiche, ma gli manca lo stesso la tranquillitas. Ed è in questo stato di inquietudine che chiede aiuto a Seneca. Naturalmente noi non possiamo essere sicuri che questa descrizione dello stato d’animo di Sereno corrisponda davvero alla situazione reale; possiamo solo essere ragionevolmente certi che fu proprio Seneca a scrivere questo testo. Il testo si presenta sotto la forma di una lettera scritta a Sereno, che incorpora la richiesta di un consiglio morale avanzata a Seneca da quest’ultimo. E mostra dunque un modello o un esempio di autoanalisi.
Sereno esamina se stesso e quello che ha fatto fino al momento in cui chiede il consulto:
SERENO A me, che attentamente osservavo dentro me stesso, certi difetti apparivano, o Seneca, scoperti, posti in chiaro, da afferrarli con la mano, altri più oscuri ed appartati, altri non continui, ma ritornanti ad intervalli; questi, li definirei i più molesti in assoluto, come nemici errabondi che assalgono a seconda delle occasioni, a causa dei quali non è possibile né, come in guerra, essere preparati, né, come in pace, essere senza preoccupazioni. Tuttavia, quell’atteggiamento soprattutto sorprendo in me (perché infatti non dovrei dire la verità, come ad un medico?), di non essermi con piena fiducia liberato da quei difetti che temevo ed odiavo, né, all’inverso, di essere in loro balia: sono posto in una situazione che, come non è la peggiore, così è sommamente querula ed affliggente: né sono malato né sono in buona salute.
Come potete vedere, la richiesta di Sereno prende la forma di un consulto «medico» relativo al suo stato spirituale. Egli dice infatti:
«Perché non dovrei riconoscere la verità davanti a te come davanti a un medico?»; oppure: «Non sono né in salute né malato», e così via. Queste espressioni si riferiscono chiaramente alla ben nota identifi-cazione metaforica del disagio morale con la malattia fisica. Ciò che è importante sottolineare qui è che Sereno per essere curato deve prima ammettere davanti a Seneca la verità (veruni fatear). Ma qual è la verità che Sereno deve «confessare»? Vedremo che non sarà svelato alcun errore segreto, nessuna intenzione malvagia, niente di tutto questo. Si tratta di qualcosa di completamente diverso da una confessione cristiana. E questa «confessione» si può dividere in due parti. C’è prima un’esposizione generale di Sereno su se stesso, a cui fa seguito un racconto della sua posizione nei diversi campi d’attività della sua vita. L’esposizione generale sulla sua condizione è la seguente:
Non dirmi che di tutte le virtù delicati sono i principi, che con il tempo vi si aggiunge indurimento e vigore; so bene che anche quelle attività che si affannano per l’apparenza (parlo della posizione sociale e della fama comportata dall’eloquenza e di quant’altro cade sotto l’approvazione altrui) con il passare del tempo si consolidano – non solo quelle attività che procurano forze vere, ma anche quelle che si rivestono di belletti, a ché si riesca graditi, aspettano anni, finché poco a poco il lungo trascorrere del tempo non ne assorba il colore – quanto a me, temo che la consuetudine, apportatrice di costanza alle cose, questo difetto conficchi in me più profondamente: dell’amore tanto verso le cose buone quanto verso le cose cattive, il lungo rapporto avutone ci veste. Questo equilibrio dell’animo, incerto fra entrambe le evenienze, che non sa piegarsi né con forza alle cose rette né a quelle storte, di che tipo sia, io non sono tanto in grado di mostrarlo in una sola volta, quanto piuttosto di mostrarlo diviso in parti. Ti dirò che mi succede, tu troverai il nome per la malattia .
Sereno ci dice che la verità su se stesso che ci vuole raccontare consiste nella descrizione della malattia di cui soffre. E da queste osservazioni generali e da altre indicazioni che ci dà più avanti, possiamo vedere che questa malattia viene paragonata al mal di mare che si può patire su una nave che non avanza ma è soggetta a un movimento di beccheggio e di rollio. Sereno ha paura di rimanere in mare in questa condizione mentre è in vista della terraferma che però gli rimane inaccessibile. L’organizzazione dei temi che Sereno tocca, con i suoi impliciti e, come vedremo anche espliciti, riferimenti metaforici all’andare per mare, comporta quel tradizionale accostamento tra filosofia etico-politica, medicina e conduzione di una nave o navigazione, che abbiamo già visto. Anche qui abbiamo gli stessi tre elementi: un problema etico-filosofico, un riferimento alla medicina e un riferimento alla navigazione. Sereno è in procinto di acquisire la verità come una nave in mare che è in vista della terraferma. Ma poiché gli manca un pieno possesso di sé, una completa maestria, sente che non può avanzare. Forse perché è troppo debole, forse perché la sua rotta non è quella giusta. Egli non sa esattamente quale sia la ragione dei suoi ondeggiamenti; ma riconosce il proprio malessere come una specie di movimento oscillatorio perpetuo che non ha altro scopo che «ondeggiare». La nave non può avanzare perché ondeggia. Dunque il problema di Sereno è: come sostituire questo movimento oscillatorio – dovuto all’instabilità, alla mancata saldezza della sua mente – con un fermo movimento lineare che possa portarlo fino alla costa, alla terraferma. E un problema di dinamica, ma assai differente dalla dinamica freudiana di un conflitto inconscio tra due forze psichiche. Qui abbiamo un moto oscillatorio di ondeggiamento che impedisce alla mente di avanzare verso la verità, verso la stabilità, verso terra. E dobbiamo vedere come questa rete dinamica metaforica organizza la descrizione che Sereno dà di sé nella lunga citazione che segue:
Mi possiede un sommo amore per la parsimonia, lo riconosco; mi piace un letto messo insieme non perché se ne parli per la fama, non una veste tratta fuori da una forziere, non stirata da pesi e da infiniti torchi che la constringano a risplendere, ma una da casa e di poco valore, non conservata né da indossarsi con preoccupazione; mi piace un cibo che non preparino né vi assistano intere servitù, non ordinato molti giorni prima né imbandito dalle mani di molte persone, ma facilmente procacciabile e confezionabile, che nulla ha di ricercato e di prezioso, tale da non mancare in alcun luogo della terra, non pesante né per il patrimonio né per il corpo, non destinato a tornare per dove è entrato; mi piace un servitore male in arnese ed un rozzo schiavetto casalingo, l’argenteria pesante appartenenuta al padre contadino, senza alcun nome di cesellatore; una mensa non rifulgente per varietà di venature né nota alla città attraverso molte successioni ereditarie di padroni raffinati, ma messa lì perché serva e tale da non fermare per il piacere gli occhi di alcun convitato né da accenderli per l’invidia. Ma quando tutto ciò mi è ben piaciuto, abbaglia l’animo la pompa di qualche scuola di paggi, gli schiavi vestiti con diligenza maggiore di quanto comporti una pubblica processione ed abbelliti d’oro, ed una schiera di schiavi tutti lustri, ed ecco già la casa preziosa anche dove riceve il calpestio dei piedi, e persino i soffitti risplendenti di cose ricche sparse per ogni angolo, e la folla che fa da scorta e si accompagna a patrimoni che vanno in rovina. Che dire delle acque trasparenti sino in rondo e scorrenti addirittura intorno ai conviti, dei banchetti degni del loro scenario? suole avvolgere me, che vengo dalla lunga muffa della frugalità, il lusso con il suo grande splendore e da ogni parte rimbombarmi: la vista tituba un po’, e verso il lusso alzo più facilmente l’animo che gli occhi; me ne torno dunque indietro non peggiore, ma più malcontento, e fra quelle mie cose di poco valore non mi muovo più a testa tanto alta, ma un tacito morso si fa sotto, ed un dubbio, se mai quelle altre cose siano preferibili: nessuna di quelle mi cambia, non ce n’è nessuna che non mi scuota. Sono deciso a seguire la via dei precetti e di mettermi in mezzo alla vita politica; ho deciso di ottenere cariche pubbliche ed i fasci, non certo perché portato fuori strada dalla porpora e dalle verghe, ma per essere più disponibile e più utile agli amici ed ai parenti e a tutti i concittadini, poi a tutti gli uomini. Ben deciso, ben raccolto in questa decisione, seguo Zenone, Cleante, Crisippo, nessuno dei quali fece tuttavia politica, eppure tutti spinsero a farla. Quando qualche incidente ha colpito l’animo mio, non abituato ad essere urtato, quando si presenta davanti qualche fatto non meritato (quali molti accadono in ogni vita umana) o che scorre troppo poco facilmente, oppure quando fatti degni di poca stima hanno richiesto molto tempo, allora me ne torno alla vita privata e, come suole capitare alle greggi sebbene stanche, il mio passo si fa più veloce verso casa. Sono deciso a racchiudere la vita entro le fidate pareti della propria casa: «Nessuno ci porti via un sol giorno, dato che non potrà restituire nulla che sia degno di una spesa tanto grande; l’animo stia ben stret¬to a sé solo, si coltivi, nulla faccia che riguardi gli estranei, nulla che sia sottoposto ad un giudice: si ami una tranquillità che non ha a che fare con una preoccupazione pubblica e privata». Ma quando una lettura più impegnata e coraggiosa ha sollevato l’animo ed esempi famosi hanno messo sotto gli sproni, mi piace muovere di botto al foro, mettere a disposizione di uno la voce, di un altro l’opera mia (che, se anche non sarà utile, tenterà di esserlo), frenare nel foro la baldanza di un altro, che si è malamente insuperbito per felici vicende. Nell’attività intellettuale, vivaddio, io credo sia meglio guardare i fatti in sé e parlare avendoli di mira; per il resto, lasciare le parole in potere dei fatti, in modo che un discorso non elaborato segua per dove questi fatti hanno condotto: «Che bisogno c’è di mettere insieme opere, che ci si propone durino per più generazioni? vale la pena agire in modo che i posteri ti passino sotto silenzio! sei nato per la morte, un funerale silenzioso comporta meno fastidi. Pertanto, per occupare il tempo per uso tuo, non perché ce ne sia il banditore, scrivi qualche cosa con stile semplice: minore fatica debbono fare coloro che si impegnano culturalmente per l’oggi». Poi, di nuovo, quando l’animo si è elevato per grandezza di pensieri, diventa ambizioso nel cercare le parole, desidera come spirare, così parlare più elevatamente, ed il discorso esce fuori adattandosi alla dignità degli argomenti; dimentico allora della regola imposta e di un giudizio maggiormente premuto a terra, mi sento portare più in alto «con bocca non più mia». Per non tenere dietro più a lungo alle singole manifestazioni, mi segue in ogni cosa questa instabilità nella retta volontà. Anzi, temo di scorrere giù poco a poco, o piuttosto (ed è cosa ancora più preoccupante) di rimanere sempre in bilico, simile a colui che sta per cadere, e temo che la cosa sia più grave ai quanto io riesca a vedere dentro: familiarmente infatti guardiamo le cose della nostra casa e sempre al giudizio è di ostacolo la simpatia. Credo che a molti sarebbe stato possibile raggiungere la saggezza, se non avessero creduto di averla già raggiunta, se non avessero fatto finta di non vedere in sé stessi certi difetti, davanti a certi altri non fossero passati ad occhi chiusi. Non credere infatti che noi andiamo in rovina più per l’adulazione altrui che per la nostra. Chi ha mai avuto il coraggio di dire a sé stesso la verità? chi, pur posto fra greggi di gente che loda e blandisce, non è lui a complimentarsi moltissimo con sé stesso? Ti prego, dunque, se hai un rimedio con cui arresti questo mio fluttuare, di credermi degno che io sia debitore verso di te della mia tranquillità. Che non siano moti dell’animo pericolosi e che non apportino nulla di sconvolgente, lo so bene. Per rappresentarti con un paragone concreto ciò di cui mi lamento, non sono sballottato dalla tempesta, ma dalla nausea; strappa dunque via tutto questo male, qualunque sia, e soccorri me, che soffro in vista della terra .
A prima vista, la lunga descrizione di Sereno appare come un accumulo di particolari relativamente poco importanti sui suoi gusti e le sue avversioni, di descrizioni di cose irrilevanti, come le pietanze ritenute pesanti, i cibi preferiti, e così via. E sembra esserci anche un grande disordine nell’esposizione di questa quantità di dettagli. Ma dietro questo disordine apparente si può scorgere facilmente la vera organizzazione del testo. Ci sono tre parti fondamentali del discorso. La prima parte, l’inizio della citazione, è dedicata al rapporto di Sereno con la ricchezza, i beni, la vita domestica e privata. La seconda parte riguarda il rapporto di Sereno con la vita pubblica e la sua dimensione politica. Nella terza parte Sereno parla della sua attività letteraria, del tipo di linguaggio che preferisce, e così via. Ma possiamo riconoscere in questa parte anche il rapporto tra morte e immortalità, o la questione di quanto la vita perduri dopo la morte nella memoria della gente. Dunque, i tre temi trattati in questi capoversi sono: 1) la vita domestica e privata; 2) la vita pubblica; 3) l’immortalità e l’aldilà.
Nella prima parte Sereno spiega che cosa vuol fare e che cosa gli piace fare. Per conseguenza egli rivela quello che considera irrilevante e a cui è indifferente. Tutte queste descrizioni mostrano chiaramente l’immagine e il profilo di Sereno. Egli non ha grandi bisogni materiali nella vita quotidiana, perché non è attaccato al lusso. Nel secondo capoverso dice di non essere schiavo dell’ambizione, di non aspirare a una grande carriera politica, ma di volersi porre al servizio degli altri. Nel terzo capoverso dichiara di non subire il fascino dell’altisonante retorica, ma di preferire al contrario un linguaggio pratico. Potete vedere che in questo modo Sereno traccia un bilancio delle sue scelte, della sua libertà, e che il risultato non è del tutto negativo. Anzi, per la verità, è un risultato abbastanza positivo. Sereno è attaccato a ciò che è naturale, a ciò che è necessario, a ciò che è utile (a se stesso o agli amici), e di norma è indifferente a tutto il resto. In rapporto a questi tre campi (la vita privata, la vita pubblica e l’aldilà) tutto considerato Sereno è proprio un bravo ragazzo. E il suo racconto ci mostra anche l’argomento preciso del suo esame, che si potrebbe così riassumere: quali sono le cose importanti per me, e quali sono quelle che mi risultano indifferenti? E Sereno considera importanti cose che davvero lo sono.
Ma ciascuno dei tre capoversi è a sua volta suddiviso in due parti. Dopo che Sereno ha spiegato l’importanza o l’indifferenza che per lui hanno le cose, c’è un momento transitorio in cui comincia a porsi delle obiezioni, in cui la sua mente comincia a oscillare. Questi momenti transitori sono sottolineati dall’uso della parola animus. A proposito dei tre argomenti sopra descritti, Sereno spiega che nonostante il fatto che egli compia le scelte giuste, che trascuri le cose poco importanti, sente che la sua mente, il suo animus, sono soggetti a movimenti involontari. E di conseguenza, per quanto egli non sia propriamente portato ad agire in maniera opposta, è abbagliato o attratto dalle cose che in precedenza aveva considerato poco importanti. Questi sentimenti involontari sono indicativi – egli crede – del fatto che il suo animus non è completamente tranquillo o stabile, e ciò motiva la sua richiesta di un consulto. Sereno conosce i principi teorici e le regole pratiche dello stoicismo, normalmente è capace di porli in atto, e tuttavia sente che queste regole non sono una matrice permanente del suo comportamento, dei suoi sentimenti, dei suoi pensieri. L’instabilità di Sereno non deriva dai suoi peccati, o dal fatto di esistere come un essere nel tempo – come per esempio in Agostino. Dipende dal fatto che non è ancora riuscito ad armonizzare completamente le sue azioni e i suoi pensieri con la struttura etica che ha scelto per se stesso. È come se Sereno fosse un bravo pilota, come se sapesse navigare, come se non vi fossero tempeste all’orizzonte, e tuttavia fosse bloccato sul mare e non potesse raggiungere la terraferma perché non possiede la tranquillitas, la firmitas che viene da un completo dominio di sé. La risposta di Seneca a questa autoanalisi e a questa richiesta etica è una esplorazione della natura di questa stabilità della mente.
Prova di sé
Un terzo testo che mostra anche alcune differenze nei giochi di verità connessi con questi esercizi di autoesame è tratto dai Discorsi di Epitteto; qui credo si possa trovare un terzo genere di esercizi del tutto differente dai primi due. Ci sono numerosi tipi di tecniche e di pratiche di autoesame in Epitteto, alcuni dei quali simili sia all’esame serotino di Sestio che all’autoscrutinio generale di Sereno. Ma c’è una forma di esame che è, io credo, del tutto caratteristica di Epitteto e che prende la forma di una costante messa in discussione di tutte le nostre rappresentazioni. Questa tecnica si riferisce anche al bisogno di stabilità giacché, dato il costante flusso di rappresentazioni che scorre nella mente, il problema di Epitteto consiste nel sapere come distinguere le rappresentazioni che egli può controllare da quelle che non può controllare, che inducono emozioni, sentimenti, comportamenti involontari e che dunque devono essere espunti dalla sua mente. La soluzione di Epitteto è che dobbiamo adottare un atteggiamento di continua sorveglianza rispetto a tutte le nostre rappresentazioni. Epitteto spiega questo atteggiamento attraverso due metafore: quella della guardia notturna o della sentinella, che non fa entrare nessuno nella casa o nel palazzo senza prima averne controllato l’identità; e quella del «cambiavalute» – quello che i greci chiamavano arguramoibos – il quale, quando una moneta è molto difficile da leggere, ne verifica l’autenticità, la esamina, la pesa, controlla il metallo e l’incisione, e così via.
Il terzo ambito concerne gli assenti, gli oggetti che persuadono e trascinano. Come, infatti, Socrate diceva che non si deve vivere senza sottoporre la vita ad esame, così non bisogna accettare una rappresentazione inesaminata, ma dire: «Attendi, consentimi di vedere chi sei e da dove vieni»; e come le guardie di notte dicono: «Mostrami i documenti di riconoscimento», «Hai dalla natura il contrassegno che deve avere una rappresentazione per essere accolta?» .
Queste due metafore si trovano anche nei primi testi cristiani. Giovanni Cassiano (360-435 d.C.), per esempio, chiedeva ai suoi monaci di sorvegliare e mettere alla prova le loro rappresentazioni come una sentinella o come un cambiavalute. Nel caso dell’autoanalisi cristiana, il monitoraggio delle rappresentazioni ha l’intenzione specifica di determinare se, sotto l’apparenza di un comportamento innocente, non si stia nascondendo il diavolo in persona. Perciò, per non essere intrappolati da qualcosa che possa sembrare innocente, per evitare che il diavolo falsifichi le monete, il cristiano deve accertare da dove vengano i suoi pensieri e le impressioni dei sensi, e quale rapporto esista effettivamente tra il valore apparente e la realtà di una rappresentazione. Al contrario, per Epitteto, il problema non è di individuare la fonte dell’impressione (Dio o Satana), di vedere se essa nasconda qualcosa o meno; il problema è piuttosto di accertare se l’impressione rappresenti qualcosa che dipende o meno dal soggetto, se sia cioè alla portata della sua volontà. Il suo compito non è di svelare i trucchi del diavolo, ma di garantire il dominio di sé. Per imparare a essere diffidenti verso le nostre rappresentazioni, Epitteto suggerisce due tipi di esercizi. Il primo è tratto direttamente dai sofisti, e in questo gioco classico delle scuole sofistiche uno studente poneva una domanda e un altro doveva rispondere senza cadere nella trappola sofistica. Un esempio elementare di questo gioco sofistico è questo. Domanda: «Può un carretto passare attraverso una bocca?». Risposta: «Certo, tu stesso hai detto adesso la parola “carretto”, e dunque il carretto è passato dalla tua bocca». Epitteto critica simili esercizi come inutili e ne propone un altro, al fine di un addestramento morale. Anche in questo gioco ci sono due attori. Il primo afferma un fatto, un evento, e l’altro deve rispondere, il più velocemente possibile, se questo fatto o evento sia buono o cattivo, cioè se stia dentro o fuori il nostro controllo. Possiamo vedere questo esercizio, per esempio, nel testo che segue:
Come ci alleniamo per far fronte alle domande sofistiche, così dovremmo allenarci ogni giorno anche nei confronti delle rappresentazioni; anch’esse, infatti, ci pongono delle domande.
«È morto il figlio di Tizio».
Rispondi: non dipende dalla scelta morale, non è un male.
«Il padre ha diseredato Caio. Che cosa ti sembra?».
Non dipende dalla scelta morale, non è un male.
«Cesare l’ha condannato».
Non dipende dalla scelta morale, non è un male.
«Egli ne ha provato dolore».
Dipende dalla scelta morale, è un male.
«Ha sopportato nobilmente».
Dipende dalla scelta morale, è un bene.
Se ci abitueremo ad agire così, progrediremo; perché non daremo mai il nostro assenso ad altro che a ciò di cui abbiamo una rappresentazione catalettica.
C’è un altro esercizio descritto da Epitteto, che ha lo stesso oggetto ma la cui forma è più vicina a quelle impiegate più tardi nella tradizione cristiana. Esso consiste nel camminare per le strade della città e nel chiedersi se una qualunque rappresentazione che capita di avere per la mente dipenda o meno dalla propria volontà. Se essa non sta nell’ambito dell’intento morale e della volontà, allora deve essere respinta:
Non appena esci di casa all’alba, chiunque veda e senta, esaminalo e rispondi come ad una domanda. Che cosa hai visto? Un bell’uomo o una bella donna? Porta la regola. È una cosa indipendente dalla scelta morale, o dipendente? È una cosa indipendente dalla scelta morale: eliminala. Che cos’hai visto? Qualcuno in lacrime per la morte di un figlio? Porta la regola. La morte è una cosa indipendente dalla scelta morale: toglila di mezzo. Hai incontrato un console? Porta la regola. Il consolato è una cosa di che genere? Indipendente, o dipendente dalla scelta morale? Indipendente. Via anche questo, non è valido; rigettalo, non ti riguarda. Se facessimo così e ci esercitassimo in tal modo, ogni giorno, dall’alba alla notte, si vedrebbe qualche risultato, per gli Dei!
Come si può vedere, Epitteto vuole che ci costruiamo un mondo di rappresentazioni di cui nulla faccia parte che non sia soggetto al governo della nostra volontà. In tal modo, l’autogoverno è di nuovo il principio organizzativo di questa forma di autoesame.
Avrei voluto analizzare altri due testi di Marco Aurelio, ma data l’ora non ho il tempo di farlo. Preferisco avviarmi alle conclusioni. Nel leggere questi testi sull’autoesame, e nel sottolineare le loro differenze, ho voluto farvi vedere innanzitutto che c’è un notevole cambiamento nelle pratiche parresiastiche per ciò che riguarda il rapporto tra «maestro» e «discepolo». Prima, quando la parresia si sviluppava nel contesto dell’esercizio di una guida spirituale, il maestro era quello che rivelava la verità a proposito del discepolo. Ora, in questi esercizi, il maestro adopera ancora la franchezza nel parlare col discepolo al fine di aiutarlo a stare attento agli errori che non riesce a vedere (Seneca usa la parresia verso Sereno, Epitteto usa la parresia verso i suoi discepoli); ma ora l’uso della parresia è spostato sempre più sul discepolo, come dovere che egli ha nei confronti di se stesso. A questo punto, la verità sul discepolo non è rivelata esclusivamente dal discorso parresiastico del maestro, o soltanto dal dialogo tra il maestro e il discepolo/interlocutore. La verità circa il discepolo emerge da un rapporto personale che egli intrattiene con se stesso; e questa verità può essere ora rivelata tanto a se stesso (come accade nel primo esempio tratto da Seneca), quanto agli altri (come accade nel secondo esempio di Seneca). E il discepolo deve mettere alla prova se stesso e cercare di vedere se è in grado di raggiungere il dominio di sé (come nell’esempio tratto da Epitteto).
In secondo luogo, non è sufficiente analizzare questo rapporto personale di autocomprensione come puramente derivato dal principio generale gnothi seauton, «conosci te stesso». Naturalmente, in un certo senso generale, esso deriva da quel principio; ma non ci possiamo fermare qui, perché i vari rapporti che ciascuno ha con se stesso sono inseriti entro tecniche molto precise che prendono la forma di esercizi spirituali – alcuni dei quali sfociano in azioni, altri in stati di equilibrio dell’anima, altri in un flusso di rappresentazioni, e così via.
Terzo punto. In tutti questi diversi esercizi, ciò di cui si tratta non è il disvelamento di un segreto estratto dalle profondità dell’anima, ma il rapporto del sé con la verità, o con alcuni principi razionali. Ricordate che la questione da cui muoveva l’autoesame serotino di Seneca era: «Ho posto in atto quei principi di comportamento che conosco assai bene, ma a cui, come spesso succede, non sempre mi conformo e aderisco?». E l’altra questione era: «Sono in grado di essere fedele ai principi che mi sono familiari, con cui concordo, e che metto in atto il più delle volte?». Giacché questa era la domanda di Sereno. Oppure ancora la questione sollevata da Epitteto negli esercizi che ho appena finito di commentare: «Sono in grado di reagire ad ogni tipo di rappresentazione che mostri di non essere conforme alle regole razionali da me adottate?». Ciò che dobbiamo sottolineare qui è che se la verità del sé, in questi esercizi, non è null’altro che la relazione del sé con la verità, allora questa verità non è puramente teoretica. La verità del sé comporta da una parte un insieme di principi razionali basati su affermazioni generali circa il mondo, la vita umana, la necessità, la felicità, la libertà, e così via, e dall’altra, regole pratiche di condotta. E la domanda posta in questi diversi esercizi si orienta verso il seguente problema: «Abbiamo sufficiente dimestichezza con questi principi razionali? Sono essi sufficientemente definiti nella nostra mente da diventare regole pratiche per la condotta quotidiana?». Il problema della memoria è alla base di queste tecniche, ma nella forma di un tentativo di ricordarci quel¬lo che abbiamo fatto, pensato o sentito in modo da poter riattivare i nostri principi razionali, rendendoli il più possibile efficaci e permanenti nella nostra vita.
Questi esercizi appartengono a quella che potremmo definire una «estetica del sé». Poiché il problema non è di prendere partito o posizione rispetto a se stessi come un giudice che debba pronunciare un verdetto. Ci si può comportare verso se stessi come un tecnico, o un artigiano, o un artista che – di tanto in tanto – si ferma, esamina quello che sta facendo, si ripete le regole dell’arte e le rapporta al lavoro fin qui compiuto. Questa metafora dell’artista che interrompe il lavoro, torna indietro, guadagna una distanza prospettica, ed esa¬mina ciò che sta facendo alla luce dei principi dell’arte la si può tro¬vare nel testo di Plutarco Sul controllo dell’ira.
Osservazioni conclusive
E ora qualche parola su questo seminario.
Il punto di partenza. La mia intenzione non era di affrontare il problema della verità, ma il problema di colui che dice la verità, del dire la verità come attività. Voglio dire che per me non era questione di analizzare i criteri interni o esterni che rendevano in grado i greci o i romani, o chi altri di riconoscere se un’affermazione o una proposizione è vera o no. Il mio obiettivo era piuttosto di cercare di considerare il dire la verità come un’attività specifica, come un ruolo. Ma anche nell’ambito di tale questione generale del ruolo di colui che dice la verità in una società, c’erano diverse vie possibili per condurre l’analisi. Per esempio, avrei potuto confrontare il ruolo e lo status dei dicitori di verità nella società greca, nelle società cristiane, in quelle non cristiane – il ruolo del profeta come dicitore di verità, il ruolo dell’oracolo, quello del poeta, dell’esperto, del predicatore, e così via. Ma in effetti il mio intento non era di tracciare una descrizione sociologica dei differenti ruoli possibili dei dicitori di verità nelle diverse società.
Ciò che volevo indagare era come il ruolo del dicitore di verità fosse stato diversamente problematizzato nella filosofia greca. E ciò che volevo mostrare era che se la filosofia greca ha sollevato il problema dellla verità dal punto di vista dei criteri che presiedono ad affermazioni vere e a un giudizio corretto, la stessa filosofia greca ha sollevato anche la questione della verità dal punto di vista del dire la verità come attività. Ha sollevato questioni del tipo: chi è in grado di dire la verità? Quali sono i requisiti morali, etici, spirituali che abilitano qualcuno a presentarsi e ad essere considerato come un dicitore di verità? E su quali argomenti è importante dire la verità? Sul mondo? Sulla natura? Sulla città? Sui costumi? Sull’uomo? Quali sono le conseguenze del dire la verità? Quali sono gli effetti positivi per la città, per i governanti, per gli individui? E infine: qual è il rapporto tra l’attività del dire la verità e l’esercizio del potere? Può il dire la verità coincidere con l’esercizio del potere, o queste attività devono essere considerate completamente indipendenti e tenute distinte? E si possono separare, o l’una implica l’altra? Queste quattro domande sul dire la verità come attività – chi è in grado di dire la verità, su cosa, con quali conseguenze, con quali rapporti col potere – sembrano essere emerse come problema filosofico verso la fine del V secolo, attorno a Socrate, specialmente attra¬verso le sue discussioni coi sofisti, a proposito della politica, della retorica, dell’etica.
Direi che la problematizzazione della verità che caratterizza la fine della filosofia presocratica e l’inizio della filosofia come ancora oggi la concepiamo, questa problematizzazione della verità ha due aspetti essenziali. Uno riguarda il fatto di assicurarsi che il processo mentale stabilisca correttamente se un’affermazione è vera (cioè riguarda la nostra abilità nell’avere accesso alla verità). L’altro riguarda la questione: qual è l’importanza per l’individuo e per la società del fatto di dire la verità, di conoscere la verità, di avere individui che dicono la verità, e di sapere come fare per riconoscerli. In quella parte che riguarda il come essere sicuri che una determinata affermazione sia vera, troviamo le radici della grande tradizione della filosofia occidentale che vorrei chiamare «l’analitica della verità». Nell’altra parte, connessa con la questione dell’importanza del dire la verità, del sapere chi è capace di dire la verità e del sapere perché dovremmo dire la verità, troviamo le radici di ciò che potremmo chiamare la tradizione critica dell’Occidente. E qui potete riconoscere uno degli obiettivi di questo seminario, cioè in particolare quello di costruire una genealogia dell’atteggiamento critico nella filosofia occidentale. Questo era l’obiettivo generale del seminario dal punto di vista del contenuto.
Dal punto di vista metodologico, vorrei sottolineare questo tema. Come forse avrete notato, ho usato spesso in questo seminario la parola «problematizzazione», senza darvi una spiegazione del suo significato. Vi ho accennato che ciò che ho inteso analizzare in gran parte del mio lavoro non sono né i comportamenti dei popoli passati (ciò che appartiene al campo della storia sociale), né le idee come valori rappresentativi. Ciò che ho cercato di fare fin dall’inizio è stato di analizzare il processo di «problematizzazione», il che vuol dire: come e perché certe cose (comportamenti, fenomeni, processi) diventano un problema. Perché, per esempio, certe forme di comportamento erano considerate e classificate come «follia», mentre altre forme simili erano completamente ignorate in un determinato momento storico; lo stesso per la criminalità e la delinquenza, lo stesso per la problematizzazione della sessualità.
Qualcuno ha interpretato questo tipo di analisi come una forma di «idealismo storico», ma io credo che si tratti di una cosa del tutto diversa. Quando dico che studio la «problematizzazione» della follia, del crimine, del sesso, questa non è una maniera per negare la realtà di simili fenomeni. Al contrario, ho cercato di mostrare che è precisamente un certo loro grado effettivo di realtà che è stato l’obiettivo della regolazione sociale in un momento dato. La questione che sollevo è questa: come e quando cose molto differenti tra loro furono messe insieme, definite, analizzate e trattate, per esempio, come «malattia mentale»? Quali sono gli elementi rilevanti al fine di una determinata «problematizzazione»? E anche se io volessi dire che ciò che viene definito come «schizofrenia» non corrisponde a niente di concreto, tutto ciò non avrebbe nulla a che vedere con l’idealismo. Io credo infatti che vi sia un rapporto tra la cosa che è problematizzata e il processo di problematizzazione. La problematizzazione è una «risposta» a una situazione concreta che è reale.
C’è anche una interpretazione errata secondo la quale la mia analisi di una determinata problematizzazione è priva di ogni contesto storico, come se si trattasse di un processo spontaneo che viene da chissà dove. In effetti, al contrario, ho cercato di mostrare come ad esempio la nuova problematizzazione della follia o dell’infermità fisica alla fine del XVIII secolo fosse strettamente legata a una modificazione di diverse pratiche, o allo sviluppo di una nuova reazione sociale alle malattie, o alla sfida posta da certi processi, e così via. Ma dobbiamo capire chiaramente, io credo, che una determinata problematizzazione non è l’effetto o la conseguenza di un contesto o di una situazione storica, ma è una risposta data da individui definiti (anche se si può trovare la stessa risposta in una serie di testi, e a un certo punto la risposta può diventare così generale da divenire addirittura anonima). Per esempio rispetto al modo in cui venne problematizzata la parresia in un determinato momento possiamo vedere che vi sono specifiche risposte socratico-platoniche alla questione: come possiamo riconoscere in qualcuno un parresiastes. Qual è l’importanza per la città di avere un parresiastes. Come si deve comportare un buon parresiastes
Sono risposte date da Socrate o da Platone. Non sono risposte collettive, date da qualche inconscio collettivo. E il fatto che una risposta non sia né una rappresentazione né un effetto della situazione non significa che non risponda a nulla, che sia un puro sogno, un’«anti-creazione». Una problematizzazione è sempre un certo tipo di creazione; ma solo nel senso che, data una certa situazione, non se ne può inferire che ne seguirà necessariamente quel tipo di problematizzazione. Data una certa problematizzazione, si può solo cercare di comprendere perché essa appare come una risposta a un qualche aspetto concreto e specifico del mondo a cui si riferisce. C’è un rapporto tra pensiero e realtà nel processo di problematizzazione. Ed è questa la ragione per cui io credo sia possibile fare un’analisi di una specifica problematizzazione come la storia di una risposta – la risposta originale, specifica e individuale di un singolo pensiero – a una certa situazione. È questo tipo di relazione specifica tra verità e realtà che ho cercato di analizzare nelle varie problematizzazioni della parresia.
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