I seminari tenuti all’Università cattolica di Rio de Janeiro tra il 21 e il 25 maggio 1973 sono tra i testi più importanti e illuminanti di Foucault.
Partendo dall’analisi di alcuni testi nietzscheani, Foucault vi illustra la genealogia del soggetto e dei saperi, mostrando come l’uno e gli altri si costituiscano attraverso giochi di verità e pratiche agonistiche di sapere e potere. Nella seconda parte, dedicata a una celebre lettura dell’Edipo sofocleo – colui che sa e che può troppo -, Foucault mostra la nascita della separazione tra sapere e potere, cioè della critica e della filosofia occidentale quali «diritto di opporre una verità senza potere a un potere senza verità».
La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. E’ nell’attività pratica che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica.
K. Marx, Seconda tesi su Feuerbach [l’incipit è un mio commento al testo foucaultiano, non una sua citazione di Marx]
Presenterò oggi una riflessione metodologica per introdurre il problema che, sotto il titolo “La verità e le forme giuridiche”, può esservi sembrato un po’ enigmatico. Tenterò di presentarvi il punto di convergenza di tre o quattro serie di ricerche esistenti, già esplorate, già inventariate, per confrontarle e riunirle in una sorta di ricerca non dico originale ma almeno innovativa.
In primo luogo, una ricerca propriamente storica: come hanno potuto alcuni ambiti del sapere formarsi a partire da pratiche sociali? La questione è la seguente: esiste una tendenza che potremmo chiamare, un po’ ironicamente, di marxismo accademico, e che consiste nel cercare in quale modo le condizioni economiche di esistenza possano trovare il loro riflesso e la loro espressione nella coscienza degli uomini. Mi sembra che questa forma di analisi, tradizionale in Francia e in Europa, presenti un grave difetto: quello di supporre, in fondo, che il soggetto umano, il soggetto di conoscenza, e le forme della stessa conoscenza, siano in un certo modo date preventivamente e definitivamente, e che le condizioni economiche, sociali e politiche dell’esistenza non facciano altro che depositarsi e imprimersi in questo soggetto definitivamente dato.
Il mio scopo sarà di mostrarvi come le pratiche sociali possano arrivare a generare gli ambiti di sapere che non solo [539] fanno apparire nuovi oggetti, nuovi concetti, nuove tecniche, ma fanno anche nascere forme completamente nuove di soggetti e di soggetti di conoscenza. Il soggetto di conoscenza ha lui stesso una storia, la relazione del soggetto con l’oggetto o, più chiaramente, la verità ha essa stessa una storia (cfr. Le parole e le cose, nota mia).
Così, vorrei mostrare, in particolare, come si sia potuto formare, nel XIX secolo un certo sapere dell’uomo, dell’individualità, dell’individuo normale o anormale, all’interno o al di fuori della regola, un sapere che, in verità, è nato dalle pratiche sociali di controllo e sorveglianza. E come, in un certo modo, questo sapere non si sia imposto a un soggetto di conoscenza, non si sia impresso in lui, ma abbia fatto nascere un tipo assolutamente nuovo di soggetto di conoscenza. La storia dell’ambito del sapere in relazione con le pratiche sociali, se escludiamo il primato di un soggetto della conoscenza dato in modo definitivo, è un primo asse di ricerca che vi propongo.
Il secondo è un asse metodologico, che si potrebbe chiamare analisi dei discorsi. Anche qui esiste, mi sembra, all’interno di una tradizione recente ma già accettata nelle università europee, la tendenza a trattare il discorso come un insieme di fatti linguistici legati tra loro attraverso regole sintattiche di costruzione. Qualche anno fa era di moda era originale e importante dire e mostrare ciò che veniva fatto attraverso il linguaggio – poesia, letteratura, filosofia, discorso in generale – obbedendo a un certo numero di leggi o di regolarità interne: le leggi e le regolarità del linguaggio.
Il carattere linguistico dei fatti del linguaggio è stato una scoperta che ha avuto una certa importanza in un preciso momento storico. Ma allora sarebbe venuto il momento di considerare questi fatti del discorso non semplicemente sotto il loro aspetto linguistico, bensì, in un certo modo – e qui mi ispiro alle ricerche realizzate dagli angloamericani – come giochi (games), giochi strategici che consistono nell’agire e nel reagire, nel domandare e nel rispondere, nel denominare e nello schivare, così come nella lotta. Il discorso è questo insieme regolare di fatti linguistici a un certo livello e di fatti polemici e strategici a un altro livello. Questa analisi del discorso come gioco strategico e polemico è […] un secondo asse di ricerca.
Infine, il terzo asse di ricerca che vi propongo, e che definirà, intersecandosi con i primi due, il punto di convergenza dove mi colloco, consisterebbe in una rielaborazione della teoria del soggetto. Questa teoria è stata profondamente modificata e rinnovata, lungo gli ultimi anni, da un certo numero di altre posizioni teoriche [540] o, più seriamente ancora, da un certo numero di pratiche, tra le quali la psicanalisi si situa di certo in primo piano. La psicanalisi è stata certamente la pratica e la teoria che ha riconsiderato in modo fondamentale la priorità quasi sacra attribuita al soggetto, priorità che si era stabilita nel pensiero occidentale a partire da Cartesio.
Due o tre secoli fa, la filosofia occidentale postulava, in modo implicito o esplicito, il soggetto come fondamento, come nodo centrale di ogni conoscenza, come ciò in cui e a partire da cui si rivelava la libertà, si dischiudeva la verità. Mi sembra che la psicanalisi abbia messo in questione, in modo insistente, questa posizione assoluta del soggetto. Ma se la psicanalisi l’ha fatto, in compenso, nell’ambito di ciò che si potrebbe chiamare la teoria della conoscenza, o l’epistemologia, o in quello della storia delle scienze, o ancora in quello della storia delle idee, mi sembra che la teoria del soggetto sia rimasta ancora molto filosofica, molto cartesiana e kantiana […].
Attualmente, quando si fa storia […] ci si riferisce a questo soggetto della conoscenza, a questo soggetto della rappresentazione come punto di origine a partire dal quale la conoscenza è possibile e la verità appare. Sarebbe interessante tentare di vedere come si produce, attraverso la storia, la costituzione di un soggetto che non è definitivamente dato, che non è quello a partire dal quale la verità arriva alla storia, ma di un soggetto che si costituisce proprio all’interno della storia, e che è in ogni istante fondato e rifondato dalla storia. È verso questa critica radicale del soggetto umano attraverso la storia che dobbiamo dirigerci. […] A mio avviso questo è ciò che dobbiamo fare: mostrare la costituzione storica di un soggetto di conoscenza attraverso un discorso preso come insieme di strategie che fanno parte di pratiche sociali. Questo è il fondo teorico dei problemi che vorrei sollevare.
Mi è sembrato che, attraverso le pratiche sociali, la cui analisi storica permette di localizzare l’emergere di nuove forme di soggettività, le pratiche giuridiche o, più precisamente, le pratiche giudiziarie, siano le più importanti. L’ipotesi che vorrei proporre è che ci siano due storie [541] della verità. La prima è una sorta di storia interna della verità, la storia di una verità che si corregge a partire dai suoi propri principi di regolazione: è la storia della verità quale essa si fa nella storia delle scienze o a partire da essa.
D’altro lato mi sembra che esistano, nella società, o almeno nelle nostre società, diversi luoghi dove la verità si forma, dove un certo numero di regole vengono definite – regole del gioco in base alle quali si vedono nascere certe forme di soggettività, certi ambiti di oggetti, certi tipi di sapere – e, di conseguenza, è possibile, partendo di qui, fare una storia esterna, esteriore, della verità.
Le pratiche giudiziarie, la maniera attraverso cui, tra gli uomini, si arbitrano i torti e le responsabilità, il modo con il quale, nella storia dell’Occidente, è stata concepita e definita la maniera attraverso cui gli uomini potevano venire giudicati in funzione degli errori commessi, il modo attraverso cui a determinati individui è stata imposto di riparare ad alcune delle loro azioni, e determinati individui sono stati puniti per altre azioni, tutte queste regole, o, se volete, tutte queste pratiche regolari, certo, ma anche modificate senza fine attraverso la storia, mi sembrano una delle forme attraverso cui la nostra società ha definito questo tipo di soggettività, delle forme del sapere, e conseguentemente, delle relazioni tra l’uomo e la verità che meritano di essere studiate.
Ecco la visione generale del tema che vorrei sviluppare: le forme giuridiche e, conseguentemente, la loro evoluzione nel campo del diritto penale in quanto luogo di origine di un numero determinato di forme di verità. Tenterò di mostrarvi come certe forme di verità possano essere definite a partire dalla pratica penale. Perché ciò che si chiama «inchiesta» (inquisitio) così come è stata praticata dai filosofi, e anche dagli scienziati, che fossero geografi, botanici, zoologi, economisti, è una forma molto caratteristica della verità nella nostra società. Ma dove si trova la sua origine? Nelle pratiche politiche e amministrative, delle quale vi parlerò, ma la si trova anche nella pratica giudiziaria. È verso la metà del Medioevo che l’inchiesta appare come forma di ricerca della verità all’interno dell’ordine giudiziario. È per sapere esattamente chi ha fatto cosa, in quali condizioni e in quale momento, che l’Occidente ha elaborato le complesse tecniche dell’inchiesta, le quali hanno potuto, in seguito, essere utilizzate in ambito scientifico e nell’ambito della riflessione filosofica.
Allo stesso modo, nel XIX secolo, sono state inventate anche, a partire dai problemi giuridici, giudiziari, penali, delle forme di analisi più curiose, che chiamerei esame, e non più inchiesta. Tali forme di analisi hanno permesso la nascita della sociologia, della psicologia, della psicopatologia, della criminologia e della psicanalisi. Tenterò di mostrarvi come, quando si indaga sull’origine di queste forme di analisi, si vede che esse sono nate in legame diretto con la formazione di un certo numero di controlli politici e sociali, al momento della formazione delle società capitaliste, alla fine del XIX secolo.
Abbiamo così, a grandi linee, la formulazione di ciò di cui tratteremo […]. [Innanzitutto] parlerò della nascita dell’inchiesta giudiziaria nel pensiero greco, in quella cosa che non è né interamente un mito né interamente una tragedia: la storia di Edipo. Parlerò della storia di Edipo non come punto di origine, di formulazione del desiderio o delle forme di desiderio dell’uomo, ma, al contrario, come episodio molto curioso della storia del sapere e punto di emergenza dell’inchiesta. [In seguito] tratterò della relazione conflittuale che si è stabilita nel Medioevo, dell’opposizione tra il regime della prova e il sistema dell’inchiesta. Infine, […] parlerò della nascita di ciò che chiamo l’esame o le scienze dell’esame, in relazione con la formazione e la stabilizzazione della società capitalista.
Per il momento vorrei riprendere, in modo diverso, le riflessioni metodologiche delle quali parlavo poco fa. Sarebbe stato possibile, è forse più onesto, non citare che un nome, quello di Nietzsche, perché ciò che dico qui non ha senso che in rapporto con l’opera di Nietzsche, dove si trova effettivamente un tipo di discorso che fa l’analisi storica della formazione del soggetto stesso, l’analisi storica della nascita di un certo tipo di sapere – senza mai ammettere la preesistenza di un soggetto di conoscenza. Ciò che mi propongo, ora, è di seguire, nell’opera di Nietzsche, le lineee guida che possono servirci come modello per le analisi in questione. Prenderei come punto di partenza un testo di Nietzsche datato 1873, pubblicato postumo. Il testo dice:
In fondo a qualche angolo dell’universo inondato da fuochi di innumerevoli sistemi solari, ci fu un giorno un pianeta sul quale degli animali intelligenti inventarono la conoscenza. Fu il minuto più orgoglioso e più menzognero della storia universale. (Nietzsche, Verità e menzogna in senso extramorale).
[…] [Considererei] dapprima il termine “invenzione”. Nietzsche afferma che, in un punto determinato del tempo e in un luogo particolare dell’Universo, alcuni animali intelligenti inventarono la conoscenza. La parola che usa, “invenzione” (Erfindung), è ripresa spesso, nei suoi testi, e sempre con un senso e una intenzione polemica. Quando parla di invenzione, Nietzsche ha sempre in mente un termine che si oppone a “invenzione”: il termine “origine” (Herkunft). Quando dice “invenzione” è per non dire “origine”.
[…] Nella Gaia scienza, per esempio, dove parla di Schopenhauer rinfacciandogli la sua analisi della religione, Nietzsche dice che Schopenhauer ha commesso l’errore di cercare l’origine (Ursprung) della religione in un sentimento metafisico che sarebbe presente in tutti gli uomini e che, in nuce, conterrebbe qualsiasi forma della religione: il suo modello allo stesso tempo vero ed essenziale. Nietzsche afferma: ecco un’analisi della storia della religione completamente falsa, infatti ammettere che la religione si origini all’interno di un sentimento metafisico significa dire […] che la religione dovrebbe trovarsi già, almeno implicitamente, in questo sentimento metafisico. Ora, sostiene Nietzsche, la storia non è questo, non è in questo modo che la si fa, e non è questo che [544] è accaduto. Perché la religione non ha un’origine (Ursprung), è frutto di un’invenzione (Erfindung). A un momento dato è successo qualcosa che ha fatto apparire la religione. Essa è stata fabbricata, non esisteva prima. Tra la grande continuità della origine descritta da Schopenhauer e la rottura che caratterizza l’invenzione di Nietzsche, c’è una contrapposizione inconciliabile.
Parlando della poesia, sempre nella Gaia scienza, Nietzsche afferma che ci sono coloro che cercano l’origine della poesia, mentre, in verità, non essa non c’è; c’è solo la sua invenzione (Gaia scienza, libro V, § 353). Un giorno, qualcuno ha avuto l’idea, assai curiosa, di utilizzare un certo numero di proprietà ritmiche o musicali del linguaggio per parlare, per imporre le sue parole, per stabilire, attraverso le sue parole, una certa relazione di potere sugli altri. Anche la poesia è stato inventata o fabbricata. C’è ancora il celebre brano alla fine del primo discorso della Genealogia della morale, dove Nietzsche si riferisce a quella specie di grande fabbrica, grande officina dove si produce l’ideale (Genealogia, primo trattato, § 14).
L’ideale non ha origine. Anch’esso è stato inventato, fabbricato, prodotto da una serie di meccanismi, di piccoli meccanismi. L’invenzione è per Nietzsche da un lato una rottura, dall’altro qualche cosa che possiede un piccolo inizio, basso, meschino, inconfessabile. Questo è il punto cruciale. È stato attraverso oscure relazioni di potere che la poesia è stata inventata. Allo stesso modo, è stato attraverso pure ed oscure relazioni di potere che la religione è stata inventata. Tutti questi inizi presentano un carattere vile, meschino, allorché vengono contrapposti alla solennità dell’origine così come concepita dai filosofi. Lo storico non deve temere le meschinità, perché di meschinità in meschinità, di piccola cosa in piccola cosa, infine, si sono formate le grandi cose. Alla solennità dell’origine occorre contrapporre, attraverso un buon metodo storico, la piccolezza meticolosa e inconfessabile di queste fabbricazioni, di queste invenzioni.
La conoscenza è stata dunque inventata. Dire che essa è stata inventata, significa dire che essa non ha origine. Significa dire, in modo più preciso, per quanto paradossale, che la conoscenza non è affatto inscritta nella natura umana. La conoscenza non costituisce [545] il più antico istinto umano o, inversamente, non c’è, nel comportamento umano, negli appetiti umani, nell’istinto umano qualcosa come un germe della conoscenza. Infatti, afferma Nietzsche, la conoscenza ha un rapporto con gli istinti, ma non può essere presente in essi, e nemmeno essere un istinto come gli altri. La conoscenza è semplicemente il risultato del gioco, dello scontro, della giunzione, della lotta e del compromesso tra gli istinti. È perché gli istinti si incontrano, si battono e arrivano, alla fine dello scontro, a un compromesso, che qualcosa si produce. Questo qualcosa è la conoscenza.
Di conseguenza, per Nietzsche, la conoscenza non è della stessa natura degli istinti, non è come un raffinarsi degli istinti stessi. La conoscenza ha per fondamento, per base e punto di partenza gli istinti, ma gli istinti nella loro confrontazione, della quale essa non è che il risultato, in superficie. La conoscenza è come un lampo, come una luce che si diffonde, ma che è prodotta da meccanismi o realtà che sono di natura totalmente diversa. La conoscenza è l’effetto degli istinti; è come un colpo fortunato, o come il risultato di un lungo compromesso, come una “scintilla tra due spade”, ma che non è fatta di ferro.
Effetto di superficie, non tratteggiato in anticipo nella natura umana, la conoscenza porta il suo gioco davanti agli istinti, al di sopra di essi, in mezzo a loro; li comprime, traduce un certo stato di tensione o di calma tra gli istinti. Ma da essi non è possibile dedurre la conoscenza, in modo analitico, come se si trattasse di una derivazione naturale. Non è possibile, e necessariamente, dedurla dagli istinti stessi. La conoscenza, in fondo, non fa parte della natura umana. Sono la lotta, il combattimento, il risultato del combattimento, e di conseguenza il rischio e l’azzardo che danno luogo alla conoscenza. La conoscenza non è istintiva, è contro-istintiva; parimenti, non è naturale, bensì contro-natura.
Questo è il primo senso che potrebbe dato all’idea che la conoscenza sia un’invenzione e che non abbia origine. Ma l’altro senso che potrebbe essere dato a questa affermazione sarebbe che la conoscenza, oltre a non essere legata alla natura umana, a non derivarne, non ha nemmeno una parentela, attraverso un diritto originario, con il mondo da conoscere. Non c’è, secondo Nietzsche, nessuna somiglianza, nessuna affinità predeterminata tra la conoscenza [546] e le cose che bisognerebbe conoscere. In termini più rigorosamente kantiani, occorrerebbe dire che le condizioni di possibilità dell’esperienza e le condizioni di possibilità dell’oggetto d’esperienza sono assolutamente eterogenee.
Ecco la grande rottura: […] Nietzsche pensa […] che tra la conoscenza e il mondo da conoscere ci siano tante differenze quante ce ne sono tra la conoscenza e la natura umana. […] La conoscenza, afferma Nietzsche a più riprese, non ha relazioni di affinità con il mondo da conoscere. Citerò solo un testo della Gaia scienza (libro III, § 109):
«Il carattere dell’insieme del mondo è da tutta l’eternità quello del caos, in ragione non dell’assenza di necessità, ma dell’assenza di ordine, articolazione, forma, bellezza, saggezza. Il mondo non cerca affatto di imitare l’uomo. Ignora qualsiasi legge. Guardiamoci dal dire che ci sono delle leggi di natura. È contro un mondo senza ordine, senza legami, senza forma, senza bellezza, senza saggezza, senza armonia, senza legge che la conoscenza si trova a dover lottare. È ad esso che si rapporta. Non c’è nulla nella conoscenza che la abiliti, per un diritto qualunque, a conoscere questo mondo. Non è naturale, per la natura, essere conosciuta. Così, tra l’istinto e la conoscenza, non si trova una continuità, ma una relazione di lotta, di dominazione, di servitù, di compensazione; allo stesso modo, tra la conoscenza e le cose che la conoscenza deve conoscere, non può esserci, nessuna relazione di continuità naturale. Non può esserci che una relazione di violenza, di dominazione, di potere e di forza, di violazione. La conoscenza non può che essere una violazione delle cose da conoscere, e non una percezione, un riconoscimento, una identificazione delle stesse […]».
Mi sembra che ci sia, in questa analisi di Nietzsche, una rottura duplice e molto importante […]. La prima è la rottura tra la conoscenza e le cose. Che cosa, effettivamente, nella filosofia occidentale, assicurava che le cose da conoscere e la conoscenza stessa fossero in relazione di continuità? Che cosa assicurava alla conoscenza il potere di conoscere davvero [547] le cose del mondo e di non essere indefinitamente errore, illusione, arbitrio? Che cosa, se non Dio, poteva garantire tale potere nella nella filosofia occidentale? […] Per dimostrare che la conoscenza era […] fondata, in verità, nelle cose del mondo, Cartesio ha dovuto affermare l’esistenza di Dio. Se non esiste più una relazione tra la conoscenza e le cose da conoscere, se la relazione tra la conoscenza e le cose conosciute è arbitraria, se essa è una relazione di potere e violenza, l’esistenza di Dio al centro del sistema della conoscenza non è più indispensabile.
Nello stesso brano della Gaia scienza in cui evoca l’assenza di ordine, di legame, di forma, di bellezza nel mondo, Nietzsche chiede, precisamente:
«Quando tutte le ombre di Dio cesseranno di oscurarci? Quando avremo totalmente de-divinizzato la natura?».
La rottura della teoria della conoscenza con la teologia comincia stricto sensu con un’analisi come quella di Nietzsche. In secondo luogo, dire che, se è vero che tra la conoscenza e gli istinti […] non c’è che rottura, relazioni di dominazione e di servitù, relazioni di potere, allora non sparisce solo Dio, ma lo stesso soggetto nella sua unità e sovranità. Risalendo alla tradizione filosofica a partire da Cartesio [..] si vede che l’unità del soggetto umano era assicurata dalla continuità che va dal desiderio alla conoscenza, dall’istinto al sapere, dal corpo alla verità. Se è vero che ci sono da un lato i meccanismi dell’istinto, i giochi del desiderio, gli affrontamenti della meccanica del corpo e della volontà, e, dall’altro lato, a un livello della natura completamente differente, la conoscenza, allora non abbiamo più bisogno dell’unità del soggetto umano. Possiamo ammettere un soggetto, o possiamo ammettere che il soggetto non esiste. […]
Ora, quando Nietzsche dice che la conoscenza è il risultato degli istinti, ma che non è un istinto, né deriva direttamente dagli istinti, che cosa vuol dire esattamente, e come concepisce questo [548] curioso meccanismo attraverso il quale gli istinti, senza avere alcuna relazione di natura con la conoscenza, possono, attraverso il loro semplice gioco, produrre, fabbricare, inventare una conoscenza che non ha nulla a che vedere con essi? Ecco la seconda serie di problemi che vorrei affrontare.
Esiste un testo della Gaia scienza (§ 333) che possiamo considerare come una delle analisi più rigorose che Nietzsche ha fornito di questa fabbricazione, invenzione della conoscenza. In quel lungo testo intitolato “Che cosa significa conoscere?” Nietzsche riprende un testo di Spinoza, nel quale venivano contrapposti intelligere (comprendere), da un lato, e ridere, lugere, detestari dall’altro. Spinoza diceva che, se vogliamo capire le cose, se vogliamo comprenderle nella loro natura, nella loro essenza, e dunque nella loro verità, occorre che evitiamo di riderne, di deplorarle o detestarle.
Solo se queste passioni si placano possiamo comprendere. Nietzsche non solo afferma che questo non è vero, ma anche che è proprio il contrario a realizzarsi effettivamente. Intelligere, comprendere, non è nulla più che un certo gioco o, meglio, il risultato di un certo gioco, una certa composizione o compensazione tra ridere, lugere, detestari. Comprendiamo solo perché dietro tutto questo ci sono il gioco e la lotta di questi tre istinti, di questi tre meccanismi, o di queste tre passioni che sono il deridere (Verlachen), il deplorare (Beklagen), il detestare (Verwünschen).
Innanzitutto dobbiamo notare che queste tre passioni, o queste tre pulsioni, […] hanno in comune il fatto di essere un modo non di avvicinarsi all’oggetto, o di identificarsi con esso, bensì di mantenerlo a distanza, di differenziarsene o di porsi in rottura con esso, di proteggersi da esso attraverso il riso, di rivalutarlo attraverso il pianto, di allontanarlo ed eventualmente distruggerlo attraverso l’odio. Di conseguenza, tutte queste pulsioni, che sono alla radice della conoscenza e la producono, hanno in comune la messa a distanza dell’oggetto, una volontà di allontanarsene e di allontanarlo allo stesso tempo, e, infine, di distruggerlo. Dietro la conoscenza c’è una volontà, senza dubbio oscura, non di portare l’oggetto verso di sé, di identificarsi con lui, ma, al contrario, una volontà oscura di allontanarsene e distruggerlo. Malignità radicale della conoscenza.[549]
Si arriva così a una seconda idea importante: che queste pulsioni (ridere, piangere, detestare) siano tutte dell’ordine delle malvagie relazioni. Dietro la conoscenza, alla radice della conoscenza, Nietzsche non mette una sorta di affezione, di pulsione o di passione che ci farebbe amare l’oggetto da conoscere, ma piuttosto delle pulsioni che ci piazzano in posizione di odio, disprezzo o rimpianto delle cose che minacciano e sono presuntuose. Se queste tre pulsioni (ridere, deplorare, odiare) arrivano a produrre la conoscenza, non è, secondo Nietzsche, perché si sono placate, come in Spinoza, o riconciliate, o perché sono giunte a un’unità. È, al contrario, perché hanno lottato tra loro, perché si sono affrontate. è perché queste pulsioni si sono combattute, perché hanno tentato […] di nuocersi l’un l’altra, perché sono in stato di guerra, in una stabilizzazione momentanea di questo stato di guerra, che arrivano a una specie di stato, di scissione (coupure), dove finalmente la conoscenza apparirà come la “scintilla che scaturisce dallo scontro tradue spade”. Non c’è dunque, nella conoscenza, una adaequatio all’oggetto, una relazione di assimilazione, ma piuttosto una relazione di distanza e di dominazione; non c’è, nella conoscenza, qualcosa come felicità e amore, ma odio e ostilità;non c’è unificazione ma sistema precario di potere. […]
La filosofia occidentale […] ha sempre caratterizzato la conoscenza attraverso il logocentrismo, la somiglianza, l’adaequatio, la beatitudine, l’unità. Tutti questi grandi temi sono ora rimessi in questione. […] Nietzsche mette al centro, alla radice della conoscenza, qualcosa come l’odio, la lotta, la relazione di potere.[…] Se vogliamo sapere che cos’è la conoscenza non dobbiamo avvicinarci alla forma di vita, di esistenza, di ascetismo propria del filosofo.
Se vogliamo davvero conoscere la conoscenza, sapere che cosa essa sia, [550] coglierla nella sua radice, al momento della sua fabbricazione, dobbiamo avvicinarci non ai filosofi ma ai politici, dobbiamo comprendere quali siano le relazioni di lotta e di potere. È solo in queste relazioni di lotta e potere, attraverso il modo il cui le cose tra loro, gli uomini tra loro si odiano, lottano, egli uni cercano di dominare gli altri, di esercitare su di loro relazioni di potere, che è possibile comprendere in che cosa consista la conoscenza. Possiamo allora capire come un’analisi di questo tipo ci introduca, in modo efficace, a una storia politica della conoscenza, a fatti di conoscenza e al soggetto della conoscenza.[…].
Ho preso questi testi di Nietzsche in funzione dei miei interessi, non per dimostrare che questa fosse la concezione nietzscheana della conoscenza […] ma per mostrare che esiste in Nietzsche un certo numero di elementi che mettono a nostra disposizione un modello per un’analisi storica di ciò che chiamerei la «politica della verità». È un modello che si trova effettivamente in Nietzsche, e penso anche che costituisca nella sua opera uno dei modelli più importanti per la comprensione di qualche elemento apparentemente contraddittorio della sua concezione della conoscenza. […] [551]
[Contro Kant] Nietzsche vuol dire che non c’è una natura della conoscenza, un’essenza, delle condizioni universali della conoscenza, ma che essa è, ogni volta, il risultato storico e puntuale delle condizioni che non sono di ordine conoscitivo.La conoscenza è in effetti un evento che può essere piazzato sotto il segno dell’attività. La conoscenza non è una facoltà o una struttura universale. Anche quando utilizza un certo numero di elementi che possono sembrare universali, la conoscenza sarà solamente dell’ordine del risultato, dell’evento, dell’effetto.
Possiamo così comprendere una serie di testi nei quali Nietzsche afferma che la conoscenza ha un carattere prospettico. […] Nietzsche non vuol dire che sarebbe un mélange di kantismo e di empirismo, che la conoscenza sia limitata, nell’uomo, da un certo numero di condizioni, di limiti derivati dalla natura umana, dal corpo umano o dalla struttura stessa della conoscenza. […] Sostiene invece che non c’è conoscenza se non sotto forma di un certo numero di atti che sono diversi tra loro e multipli nella loro essenza; atti attraverso i quali l’essere umano si impadronisce violentemente di un certo numero di cose, reagisce a un certo numero di situazioni, impone loro dei rapporti di forza. In altri termini, la conoscenza è sempre una certa relazione strategica nella quale l’uomo si trova situato.
È questa relazione strategica che definisce l’effetto della conoscenza ed è per questo che sarebbe totalmente contraddittorio immaginare una conoscenza che non sia per sua stessa natura parziale, obliqua, prospettica. Il carattere prospettico della conoscenza non deriva dalla natura umana, ma sempre dal carattere polemico e strategico della conoscenza. Si può parlare del carattere prospettico della conoscenza perché c’è una battaglia, e la conoscenza è l’effetto di questa battaglia. È per questo che troviamo in Nietzsche l’idea, che [552] ritorna di continuo, che la conoscenza sia allo stesso tempo ciò che c’è di più generalizzante e di più particolare. La conoscenza schematizza, ignora le differenze, assimila le cose tra loro, e questo senza alcun fondamento nella verità.
Per questo fatto, la conoscenza è sempre un misconoscere. D’altro lato, è sempre qualcosa che prende di mira, in modo maligno, insidioso e aggressivo, individui, cose, situazioni. Non c’è conoscenza se non nella misura in cui, tra l’uomo e ciò che conosce, si stabilisce, si trama qualcosa come una lotta singolare, un testa a testa, un duello. C’è sempre nella conoscenza qualcosa che è dell’ordine del duello e che la rende sempre singolare. Questo è il carattere contraddittorio della conoscenza, quale è definito nei testi di Nietzsche, che apparentemente si contraddicono: generalizzante e sempre singolare. Ecco come […] è possibile costruire non una teoria generale della conoscenza ma un modello che permetta di approcciare l’oggetto di queste conferenze: il problema della formazione di un certo numero di domini di sapere apartire dai rapporti di forza e delle relazioni politiche nella società.[…]
In una certa concezione […] del marxismo, […] c’è sempre, a fondamento dell’analisi, l’idea che i rapporti di forza, le condizioni economiche, le relazioni sociali siano date a priori agli individui, ma che allo stesso tempo si impongano a un soggetto della conoscenza che resta identico, salvo che in rapporto alle ideologie prese come degli errori. Si arriva così a questa nozione molto importante e allo stesso tempo imbarazzante dell’ideologia. Nelle analisi marxiste tradizionali, l’ideologia è una specie di elemento negativo attraverso il quale si traduce il fatto che la relazione del soggetto con la verità, o semplicemente la relazione della conoscenza, è turbata, oscurata, velata a causa delle condizioni di esistenza, delle relazioni sociali o forme politiche che si impongono dall’esterno al soggetto della conoscenza.
L’ideologia è il marchio, la stimma di queste condizioni politiche o economiche di esistenza su un soggetto di conoscenza che, di diritto, dovrebbe essere aperto alla verità. Ciò che voglio mostrare […] è come, di fatto, le condizioni politiche, economiche di esistenza non siano un velo o un ostacolo per il soggetto della conoscenza, bensì ciò [553] attraverso cui si formano i soggetti della conoscenza, e dunque le relazioni di verità. Non possono esserci certi tipo di soggetto della conoscenza, certi ordini di verità, certi ambiti di sapere se non a partire da condizioni politiche che sono il suolo sul quale si formano il soggetto, i domini di sapere e le relazioni con la verità. Solo sbarazzandoci di questi grandi temi del soggetto della conoscenza (allo stesso tempo originario e assoluto), utilizzando eventualmente il modello nietzscheano, potremo fare una storia della verità.
Presenterò qualche tratto di questa storia a partire dalle pratiche giudiziarie dalle quali sono nati i modelli di verità che circolano ancora nella nostra società, che si impongono ancora e che valgono non solo nel campo della politica, nell’ambito del comportamento quotidiano, ma che giungono persino nell’ambito scientifico. Persino all’interno della scienza si trovano dei modelli di verità la cui formazione mostra strutture politiche che non si impongono dall’esterno al soggetto della conoscenza ma che sono, esse stesse, costitutive del soggetto della conoscenza.
II (Edipo)
Vorrei parlarvi oggi della storia di Edipo, soggetto che, da un anno a questa parte, è passato di moda. A partire da Freud, la storia di Edipo era stata considerata la favola più antica del nostro desiderio e del nostro inconscio. Ora, dopo la pubblicazione, lo scorso anno, del libro di Deleuze e Guattari, L’Anti-Edipo (Capitalisme et Schizophrénie, L’Anti-OEdipe, Paris, 1972), il riferimento a Edipo gioca un ruolo completamente diverso.
Deleuze e Guattari hanno tentato di mostrare che il triangolo edipico padre-madre-figlio non rivela una verità atemporale, né una verità profondamente storica del nostro desiderio; hanno tentato di mostrare che questo famoso triangolo edipico costituisce, per gli analisti che lo manipolano all’interno della cura, un certo modo di contenere il desiderio, di assicurare che il desiderio non arrivi a investire l’oggetto, ad espandersi nel mondo circostante, nel mondo storico: il desiderio resta all’interno della famiglia e si svolge come un piccolo dramma quasi borghese tra padre, madre e figlio.
Edipo non sarebbe dunque una verità di natura, ma uno strumento di limitazione e costrizione che gli psicanalisti, a partire da Freud, utilizzano per contenere il desiderio e farlo entrare in una [554] struttura familiare definita dalla nostra società in un momento determinato. In altri termini, Edipo, secondo Deleuze e Guattari non è il contenuto segreto del nostro inconscio, ma la forma di costrizione che la psicanalisi tenta di imporre, nella cura, al nostro desiderio e al nostro inconscio. Edipo è uno strumento di potere, un certo modo con cui il potere medico e psicanalitico si esercita sul desiderio e sull’inconscio.
Confesso di essere piuttosto attratto da un simile problema, e che anch’io sono tentato di ricercare, dietro ciò che si pretende essere la storia di Edipo, qualcosa che ha a che fare non con la storia indefinita, sempre ricominciata, del nostro desiderio e del nostro incosciente, ma con la storia di un potere, un potere politico. […]
Se mi si chiedesse che cosa faccio, e che cosa altri fanno meglio di me, direi che non facciamo una ricerca di struttura. Facendo un gioco di parole direi che facciamo una ricerca di dinastia (dynastie). Direi, giocando con le parole greche dynamis dynasteia, che cerchiamo di far apparire ciò che, nella storia della nostra cultura, è rimasto, sino ad ora, la cosa più nascosta, più occultata: le relazioni di potere. Curiosamente, le strutture economiche delle nostre società sono più conosciute, inventariate, sviluppate, che non le strutture del potere politico. Vorrei mostrare […] in quale modo le relazioni politiche sono state istituite e si sono potenziate nella nostra cultura, dando luogo a una serie di fenomeni che non possono essere esplicati se non mettendoli in rapporto non tanto con le strutture economiche, le relazioni economiche di produzione, quanto piuttosto con le relazioni politiche che investono tutta la trama della nostra esistenza.
Ho la pretesa di mostrare come la tragedia di Edipo, quella che possiamo leggere in Sofocle – lascerò da parte il problema del fondo mitico al quale è legata –, è rappresentativa e, in un certo qual modo instauratrice di un tipo determinato di relazione tra potere e sapere, tra potere politico e conoscenza, dalla quale la nostra civilizzazione non si è ancora liberata. Mi sembra che ci sia realmente un [555] complesso di Edipo nella nostra civilizzazione. Ma non concerne il nostro inconscio e il nostro desiderio, né le relazioni tra desiderio e inconscio. Se c’è un complesso di Edipo, non ha luogo a livello individuale, ma collettivo; non a proposito del desiderio e dell’inconscio, ma a proposito del potere e del sapere. È questa specie di complesso che vorrei analizzare.
La tragedia di Edipo è fondamentalmente la prima testimonianza che abbiamo delle pratiche giudiziarie greche. Come tutti sanno, si tratta di una storia nella quale alcune persone – un sovrano, un popolo –, le quali ignorano una certa verità, riescono, attraverso una serie di tecniche delle quali parleremo, a scoprire una verità che mette in questione la sovranità stessa del sovrano. La tragedia di Edipo è dunque la storia di una ricerca della verità; è una procedura della ricerca della verità che obbedisce esattamente alla pratiche giudiziarie greche dell’epoca. Per questa ragione, il primo problema che si pone è quello di sapere che cos’era, nella Grecia arcaica, la ricerca giudiziaria della verità.
La prima testimonianza che abbiamo della ricerca della verità nella procedura giudiziaria greca risale all’Iliade. Si tratta della storia del conflitto che oppone Antiloco e Menelao durante i giochi organizzati in occasione della morte di Patroclo (cfr. Iliade, canto XXIII, vv. 262-652). Tra questi giochi c’è una corsa di carri che, come d’abitudine, si svolgeva in un circuito (circuit) con andata e ritorno, passando da una pietra segna confine cui occorreva girare intorno il più rapidamente possibile. Gli organizzatori avevano piazzato in quel posto una persona che avrebbe dovuto essere il responsabile della regolarità della corsa, e di cui Omero dice, senza nominarlo direttamente, che è un testimone (histor), colui che è là per vedere.
La corsa si svolge e coloro che sono in testa al momento della svolta sono Antiloco e Menelao. Ha luogo un’irregolarità e, allorché Antiloco arriva primo, Menelao introduce una contestazione e dice al giudice, o alla giuria, che deve attribuire il premio, che Antiloco ha commesso un’irregolarità. Contestazione, litigio. Come stabilire la verità? Curiosamente, in quel testo di Omero non ci si appella a colui che ha visto, al famoso testimone che era presso la pietra segna confine e che dovrebbe attestare quanto accaduto.
Non lo si convoca per testimoniare, non gli viene rivolta alcuna domanda. C’è solo la contestazione tra gli avversari Menelao e Antiloco, che si sviluppa come segue: dopo l’accusa di [556] Menelao: “Hai commesso un’irregolarità” e la difesa di Antiloco: “Non ho commesso alcuna irregolarità”, Menelao lancia una sfida: “Posa la mano destra sulla fronte del tuo cavallo, tieni la frusta con la mano sinistra e giura davanti a Zeus di non aver commesso irregolarità”. A questo punto, Antiloco, di fronte a questa sfida, che è una prova, rinuncia alla prova, rinuncia a giurare e riconosce così di aver commesso la scorrettezza (ibid., vv. 581-585).
Ecco un modo curioso di produrre la verità, di stabilire la verità giuridica. Non si passa dal testimone, ma da una specie di gioco della prova, di sfida lanciata da un avversario all’altro. Il primo lancia la sfida, l’altro deve accettare il rischio o rinunciarvi. Se, per caso, avesse accettato il rischio, se avesse giurato davvero, la responsabilità di quanto sarebbe accaduto, la rivelazione finale della verità, avrebbe riguardato direttamente gli Dei. E sarebbe stato Zeus, punendo chi avesse eventualmente spergiurato, a manifestare la verità con il suo fulmine. Questa è l’arcaica pratica della «prova della verità», dove questa è stabilita giudiziariamente non attraverso una constatazione, un testimone, un’inchiesta o un’indagine, ma attraverso un gioco della prova. La prova è caratteristica della società greca arcaica. La ritroveremo durante il Medioevo.
È evidente che, quando Edipo e tutta la città di Tebe cercano la verità, non è questo il modello che utilizzano. Sono passati i secoli. Ma è in ogni caso interessante osservare che ritroviamo ancora, nella tragedia di Sofocle uno o due resti della pratica di stabilire la verità attraverso la prova. Innanzitutto, nella scena tra Edipo e Creonte. Quando Edipo critica il cognato per aver manipolato la risposta dell’oracolo di Delfi, dicendo: “Hai inventato tutto per prendere il mio potere, per sostituirmi” (cfr. Sofocle, Edipo re, vv. 642-648).
E Creonte risponde, senza cercare di stabilire la verità attraverso dei testimoni: “Allora giuriamo. Giurerò di non aver complottato contro di te”. Questo è detto in presenza di Giocasta, che accetta il gioco, che è come la responsabile della regolarità del gioco. Creonte risponde a Edipo secondo la vecchia formula del litigio tra guerrieri. Potremmo dire, in secondo luogo, che in tutta la narrazione incontriamo quel sistema della sfida e della prova. Edipo, quando apprende che la peste di Tebe era dovuta alla maledizione degli dei in conseguenza della macchia e dell’assassinio, si impegna ad esiliare la [557] persona che dovesse aver commesso questo crimine, senza sapere, naturalmente, che era stato proprio lui a commetterlo. Si trova così coinvolto a causa del suo proprio giuramento, così come, al tempo delle rivalità tra guerrieri arcaici, gli avversari si includevano nei giuramenti di promesse e maledizioni. Questi resti della vecchia tradizione riappaiono talvolta nel corso della narrazione.
Ma, per la verità, l’intera tragedia di Edipo si fonda su di un meccanismo completamente differente. È questo meccanismo per stabilire la verità che vorrei esporre. Mi sembra che questo meccanismo della verità obbedisca inizialmente a una legge, una specie di forma pura, che potremmo chiamare la legge delle metà. È sempre attraverso metà che si aggiustano e si incastrano che procede la scoperta della verità nell’Edipo. Edipo ordina di consultare il dio di Delfi: il re (anax) Apollo. La risposta di Apollo, se l’esaminiamo in dettaglio, è data in due parti. Apollo comincia col dire: “Il paese è colpito da una macchia, un’impurità”.
A questa prima risposta manca, in un certo modo, una metà. C’è una macchia (souillure), ma chi l’ha commessa? Quale macchia è stata commessa? Di conseguenza occorre porsi una seconda questione, e infatti Edipo forza Creonte a rispondere una seconda volta, chiedendo a cosa è dovuta la macchia. Ecco che appare la seconda metà: ciò che ha causato l’impurità è un assassinio. Si chiede ad Apollo: “Chi è stato assassinato?” La risposta è: Laio, il re precedente. Si chiede: “Chi l’ha ucciso?” A quel punto Apollo si rifiuta di rispondere e, come dice Edipo, non si può forzare la verità degli dei. Resta, dunque, una metà mancante.
Alla impurità corrispondeva la metà dell’assassinio. All’assassinio corrisponde la prima metà: chi è stato assassinato. Ma manca la seconda, il nome dell’assassino. Per sapere il nome dell’assassino occorre fare appello a qualcosa, a qualcuno, poiché non è possibile forzare la volontà degli dei. Questo altro, il doppio di Apollo, il suo doppio umano, la sua ombra mortale, è l’indovino Tiresia, il quale,come Apollo, è theios mantis, indovino divino. È prossimo ad Apollo, è anche chiamato re, anax; ma è mortale, mentre Apollo è immortale; e soprattutto è cieco, è sprofondato nella notte, mentre Apollo è il dio del sole. È la metà umbratile della verità divina, il doppio che il dio-luce proietta in nero sulla superficie terrestre.
È questa metà che verrà interrogata. E Tiresia risponde a Edipo dicendo: “Sei stato tu a uccidere Laio”.[558] Di conseguenza possiamo dire che, a partire dalla seconda scena di Edipo, tutto è stato detto e rappresentato. Si ha la verità, poiché Edipo è effettivamente designato dall’insieme costituito dalle risposte di Apollo, da un lato e larisposta di Tiresia, dall’altro. Il gioco delle metà è completo: impurità, assassinio; chi è stato ucciso, chi ha ucciso. Abbiamo tutto, ma sotto la forma peculiare della profezia e della prescrizione.
L’indovino Tiresia non dice esattamente a Edipo: “Sei stato tu ad uccidere”. Dice: “Tu hai promesso di esiliare chi ha ucciso, io ti ordino di compiere il tuo voto e di esiliare te stesso”. Allo stesso modo, Apollo non aveva detto esattamente: “C’è una impurità ed è per questo che la città è piombata nella peste”. Apollo ha detto: “Se volete che la peste finisca occorre che vi laviate dalla impurità”. Tutto questo è stato detto sotto la forma del futuro, della prescrizione, della predizione; nulla si riferisce all’attualità del presente, nulla è indicato.
Si ha tutta la verità, ma sotto la forma prescrittiva e profetica che è caratteristica sia dell’oracolo che dell’indovino. questa verità, che, in un certo modo, è completa, totale, dove tutto è stato detto, manca qualcosa che è la dimensione del presente, dell’attualità, della designazione di qualcuno. Manca la testimonianza di ciò che è realmente accaduto. Curiosamente, tutta questa vecchia storia è formulata dall’indovino e dal dio sotto la forma del futuro. Noi abbiamo bisogno, ora, del presente e della testimonianza del passato: la testimonianza presente di quanto è realmente accaduto. Questa seconda metà, passato e presente, di questa prescrizione e di questa previsione, è data dal resto della narrazione. Anch’essa è dunque nata da uno strano gioco di metà.
Innanzitutto, occorre stabilire chi ha ucciso Laio. Questo si ottiene, nel corso della narrazione, attraverso l’accoppiarsi di due testimonianze. La prima è data spontaneamente e inavvertitamente da Giocasta, allorché ella dice:
Vedi bene che non sei stato tu, Edipo, ad aver ucciso Laio, contrariamente a quanto dice l’indovino. La miglior prova è che Laio è stato ucciso da diversi uomini all’incrocio di tre cammini.
A questa testimonianza risponde l’inquietudine, già quasi la certezza di Edipo:
Uccidere un uomo all’incrocio di tre cammini, è proprio ciò che ho fatto; ricordo che, arrivando a Tebe, ho ucciso qualcuno all’incrocio di tre cammini.
Così, per il gioco delle due metà che si completano, il ricordo di Giocasta e il ricordo di Edipo, abbiamo la verità, quasi completa, la verità dell’assassinio di Laio. Quasi completa, perché manca ancora un piccolo frammento: la questione se sia stato ucciso da uno solo o da più individui. Tale questione non ha ancora trovato una risposta.[559] Ma questa è solo la metà della storia di Edipo, perché Edipo non è solo colui che ha ucciso re Laio, è anche colui che ha ucciso il proprio padre e che, dopo averlo ucciso, ha preso in moglie la propria madre.
Questa seconda metà della storia manca ancora, dopo l’accoppiamento delle testimonianze di Giocasta e di Edipo. Ciò che manca è esattamente ciò che dona loro una sorta di speranza, perché il dio ha predetto che Laio non sarebbe stato ucciso da una persona qualunque, ma dal suo proprio figlio. Di conseguenza, finché non sarà stato provato che Edipo è il figlio di Laio, la predizione non si sarà realizzata.
Questa seconda metà è necessaria al fine di stabilire la totalità della vaticinio, nell’ultima parte della narrazione, attraverso l’accoppiamento di due testimonianze differenti. La prima sarà quella dello schiavo che viene da Corinto per annunciare a Edipo che Polibio è morto. Edipo, che non piange la morte di suo padre, si rallegra dicendo:
“Ah! Almeno non l’ho ucciso, al contrario di quanto diceva il vaticinio”. E lo schiavo replica: “Polibio non era tuo padre”.
Abbiamo così un nuovo elemento: Edipo non è il figlio di Polibio. È a questo punto (seconda testimonianza) che interviene l’ultimo schiavo, quello che era fuggito dopo il dramma, quello che si era nascosto nel fondo del Citerone, quello che aveva celato la verità nella sua capanna, il guardiano di pecore, che viene chiamato per essere interrogato su quanto è accaduto e che dice: “
In effetti quella volta diedi a questo messagero un fanciullo che veniva dal palazzo di Giocasta e che mi avevano detto essere suo figlio”.
Vediamo che manca ancora l’ultima certezza, perché Giocasta non si è presentata per attestare che era stata lei a consegnare il fanciullo allo schiavo. Ma, con l’eccezione di questa piccola difficoltà, ora il ciclo è completo. Sappiamo che 1) Edipo era figlio di Laio e di Giocasta, 2) che era stato consegnato a Polibio, 3) che era stato lui, credendo di essere figlio di Polibio, e tornando a Tebe, che non sapeva essere la sua patria, per sfuggire alla profezia, a uccidere,all’incrocio di tre cammini, re Laio, il suo vero padre. Attraverso una serie di incastri di metà che si aggiustano l’un l’altro, il cerchio è chiuso.
Come se tutta questa lunga e complessa storia del fanciullo, insieme in fuga dalla profezia ed esiliato a causa della profezia, fosse stata spezzata in due, e in seguito ogni frammento fosse stato nuovamente diviso per due, e tutti questi frammenti ripartiti in mani differenti. È stata necessaria questa riunificazione del dio e del suo profeta, di Giocasta e di Edipo, dello schiavo di Corinto e dello schiavo del monte Citerone, affinché tutte queste metà e queste metà della metà si aggiustassero le une sulle altre, si adattassero, si incastrassero e ricostruissero la totalità della storia.
Questa forma, realmente impressionante, nell’Edipo di [560] Sofocle, non è solo una forma retorica. È allo stesso tempo religiosa e politica. Consiste nella famosa tecnica del symbolon, il simbolo greco. Uno strumento di potere, di esercizio di potere che permetteva a qualcuno, che deteneva un segreto o un potere, di dividere un oggetto in due parti, di tenerne una e di affidarne l’altra a qualcuno che gli deve portare il messaggio o attestare la sua autenticità. È facendo combaciare queste due metà che sarà possibile riconoscere l’autenticità del messaggio, cioè la continuità del potere che si esercita. Il potere si manifesta, completa il suo ciclo, mantiene la sua unità grazie a questo gioco di piccoli frammenti –separati gli uni dagli altri- di uno stesso insieme, di un unico oggetto, la cui configurazione generale è la forma manifesta del potere.
La storia di Edipo è la frammentazione di questa narrazione, il cui possesso integrale, riunito, rende autentica la detenzione del potere e gli ordini da lui emanati. I messaggi, i messaggeri che invia e che devono tornare autentificheranno il loro legame con il potere per il fatto che ciascuno di essi detiene un frammento della narrazione e può farlo accostarlo agli altri frammenti. Questa è la tecnica giuridica, politica e religiosa di ciò che i Greci chiamano symbolon, il simbolo. La storia di Edipo, così come viene rappresentata nella tragedia di Sofocle, obbedisce a questo symbolon: forma non retorica ma religiosa, politica, quasi magica dell’esercizio del potere.
Se osserviamo, ora, non la forma di questo meccanismo o i giochi delle metà che si frammentano e finiscono col combaciare, ma l’effetto prodotto da questi aggiustamenti reciproci, vedremo una serie di cose. Innanzitutto, una sorta di spostamento, nella misura in cui le metà combaciano. Il primo gioco di metà che combaciano è quello del re Apollo e l’indovino Tiresia: il livello della profezia o degli dei. In seguito, la seconda serie di metà che si aggiustano è formata da Edipo e Giocasta. Le loro due testimonianze si trovano al centro della narrazione.
È il livello dei re, dei sovrani. Infine, la terza coppia di testimonianze che interviene, l’ultima metà che viene a completare la storia, non è costituita né dagli dei, né dai re, bensì dai servitori e dagli schiavi. Il più umile schiavo di Polibio e principalmente il più nascosto dei pastori della foresta del Citerone enunceranno la verità ultima e apporteranno l’ultima testimonianza. Abbiamo così un curioso risultato. Ciò che era stato detto in termini di profezia all’inizio della narrazione verrà ridetto sotto forma di testimonianza dai due pastori. E col passare dagli dei agli schiavi, cambiano anche i meccanismi di enunciazione della verità [561] o della forma sotto la quale la verità si enuncia.
Quando il dio e l’indovino parlano, la verità si formula come prescrizione e profezia, sotto forma di sguardo eterno e onnipotente del dio Sole, sotto la forma dello sguardo dell’indovino, il quale, benché cieco, vede il passato, il presente e il futuro. È questa specie di sguardo magico-religioso a far balenare, all’inizio della narrazione, una verità alla quale Edipo e il Coro non vogliono credere. Anche al livello più basso troviamo lo sguardo. Infatti, se i due schiavi possono testimoniare è perché hanno visto. L’uno ha visto Giocasta consegnargli un neonato al fine di portarlo nella foresta e abbandonarvelo. L’altro ha visto il neonato nella foresta, ha visto il suo compagno schiavo dargli quel neonato, e si ricorda di averlo portato al palazzo di Polibio. Anche qui si tratta di uno sguardo. Non più il grande sguardo eterno, illuminante, abbagliante, folgorante del dioe del suo indovino, ma quello delle persone che hanno visto e si ricordano di aver visto con i loro propri occhi umani. È lo sguardo del testimone.
È a questo sguardo che Omero non si riferiva quando parlava del conflitto del del litigio tra Antiloco e Menelao. Possiamo allora dire che tutta la narrazione di Edipo è un modo di spostare l’enunciazione della verità da un discorso di tipo profetico e prescrittivo verso un altro discorso di ordine retrospettivo, non più dell’ordine della profezia ma della testimonianza. È ancora un certo modo di spostare la luce della verità, luce profetica e divina, verso lo sguardo, in qualche modo empirico e quotidiano, dei pastori.
C’è una corrispondenza tra i pastori e gli dei. Dicono la stessa cosa,vedono la stessa cosa, ma non con lo stesso linguaggio, né con gli stessi occhi. In tutta la tragedia, noi vediamo questa stessa verità che si presenta e si formula in due modi diversi, con altre parole e un altro discorso, con un altro sguardo. Ma questi sguardi si corrispondono l’un l’altro. I pastori rispondono esattamente agli dei e si può persino dire che i pastori li simbolizzino. Ciò che dicono i pastori è in fondo, ma in un altro modo, ciò che avevano già detto gli dei. Abbiamo qui uno dei tratti più fondamentali della tragedia di Edipo: la comunicazione tra i pastori e gli dei, tra il ricordo degli uomini e le profezie divine. Questa corrispondenza definisce la tragedia e stabilisce un mondo simbolico dove il ricordo e il discorso degli uomini sono come un margine empirico della grande profezia degli dei.
Ecco uno dei punti sui quali dobbiamo insistere per comprendere questo meccanismo della progressione della verità nell’Edipo.[562] Da un lato si trovano gli dei, dall’altro i pastori. Ma, tra i due, c’è il livello dei re, o meglio: il livello di Edipo. Qual è il suo livello di sapere, che cosa significa il suo sguardo?A questo proposito dobbiamo rettificare alcune cose. Si dice abitualmente, quando si analizza la narrazione, che Edipo è colui che non sapeva nulla, che era cieco, che aveva gli occhi velati e la memoria bloccata, perché non aveva mai menzionato e pareva aver dimenticato i suoi propri gesti uccidendo il re all’incrocio dei tre cammini. Edipo, l’uomo dell’oblio, l’uomo del non-sapere, l’uomo dell’inconscio, per Freud.
Conosciamo tutti i giochi di parole che sono stati fatti con il nome di Edipo. Ma non dimentichiamo che questi giochi sono molteplici, e che gli stessi greci avevano già notato che in Oedìpous abbiamo la parola oida che significa allo stesso tempo “aver visto” e “sapere”. Vorrei mostrarvi che Edipo, in questo meccanismo del symbolon, di metà che comunicano, di giochi di risposte tra i pastori e gli dei, non è colui che non sapeva, ma, al contrario, colui che sapeva troppo. Colui che univa il suo sapere e il suo potere in un modo particolare, condannabile, e che la storia di Edipo doveva espellere definitivamente dalla storia. Lo stesso titolo della tragedia di Sofocle è interessante: Edipo è Edipo re, Oidipous tyrannos.
È difficile tradurre la parola tyrannos. La traduzione non rende conto del significato esatto della parola. Edipo è l’uomo del potere, l’uomo che esercita un certo potere. È caratteristico che il titolo della tragedia di Sofocle non sia Edipo l’incestuoso, o Edipo, il parricida, ma Edipo re. Che significato ha la regalità di Edipo? Possiamo constatare l’importanza della tematica del potere lungo tutto il corso della narrazione. In tutta la narrazione, ciò che è in questione è essenzialmente il potere di Edipo, ed è per questo che egli si sente minacciato. Edipo, durante tutta la tragedia, non sosterrà mai di essere innocente, di aver fatto forse qualcosa, ma di averlo fatto contro la propria volontà, o che quando aveva ucciso quell’uomo non sapeva che si trattasse di Laio. Il personaggio di Sofocle non cerca mai, nell’Edipo re, di difendersi sostenendo la propria innocenza o incoscienza. Solo nell’Edipo a Colono vedremo gemere un Edipo cieco e miserabile:
Non potevo farci nulla, gli dei mi hanno teso una trappola che non potevo sospettare.
Nell’Edipo re non si difende minimamente sul piano della sua [563] innocenza. Il suo problema è solo il potere. Potrà conservare il potere? È questo potere a essere in gioco dall’inizio alla fine della narrazione.
Nella prima scena, è nella sua condizione di sovrano che gli abitanti di Tebe fanno ricorso a Edipo contro la peste.
“Tu hai il potere, tu devi guarirci dalla peste”. E risponde dicendo: “Ho un grande interesse a guarirvi dalla peste, perché questa peste che vi colpisce colpisce anche me, nella mia sovranità e nella mia regalità”.
È in quanto interessato al mantenimento della sua propria regalità che Edipo vuole cercare la soluzione del problema. E, quando inizia a sentirsi minacciato dalle risposte che sorgono attorno a lui, quando l’oracolo lo designa e l’indovino dice, in modo ancora più chiaro, che è lui il colpevole, Edipo, senza rispondere in termini d’innocenza, dice a Tiresia: “
Tu vuoi il mio potere; tu stai complottando contro di me per privarmi del mio potere” (vv. 399-400).
Non si spaventa all’idea di aver ucciso il padre o il re. Ciò che lo spaventa è la possibilità di perdere il proprio potere. Al momento della grande disputa con Creonte, gli dice: “
Hai portato un oracolo di Delfi, ma questo oracolo l’hai falsificato, perché, figlio di Laio, tu rivendichi un potere che mi è stato dato” (532-542).
Qui, ancora una volta, Edipo si sente minacciato da Creonte al livello del potere e non al livello della sua innocenza o colpevolezza. Ciò che è in questione, in tutti questi scontri, sin dall’inizio della narrazione, è il potere. E quando, alla fine, si scoprirà la verità, quando lo schiavo di Corinto dice a Edipo:
Non t’inquietare, non sei il figlio di Polibio” (1016-1018),
Edipo non penserà al fatto che, non essendo figlio di Polibio, potrebbe essere figlio di un altro e forse di Laio. Dice: “
Dici questo per offendermi, per far credere al popolo che sono figlio di uno schiavo; ma anche se sono il figlio di uno schiavo questo non mi impedirà di esercitare il potere; sono un re come gli altri” (1202).
Qui, ancora una volta, ne va del potere. È in quanto capo della giustizia, in quanto sovrano che Edipo convocherà a questo punto l’ultimo testimone: lo schiavo di Citerone. È in quanto sovrano che, minacciandolo di tortura, gli strapperà la verità. Strappata la verità, saputo chi era Edipo e che cosa ha fatto – parricida incestuoso – che cosa dice il popolo di Tebe? “Noi ti chiamavamo nostro [564] re”. Questo significa che il popolo di Tebe, nello stesso momento in cui riconosce in Edipo chi era stato il suo re, attraverso l’uso dell’imperfetto – chiamavamo – lo dichiara destituito dalla regalità.
È in questione, dunque, la caduta di Edipo dal potere. La prova è che quando Edipo perde il potere a vantaggio di Creonte, le ultime scene della tragedia girano ancora intorno al potere. Prima che Edipo venga portato all’interno del palazzo, le ultime parole che gli vengono rivolte, proferite dal nuovo re Creonte, sono: “Non cercare più di essere il signore”. Il termine impiegato è kratein; il che significa che Edipo non deve più comandare. E Creonte aggiunge akratesas, una parola che significa “dopo essere arrivato in cima”, ma che è anche un gioco di parole, se la alfa ha un senso privativo: “non possedendo più il potere”; akratesas signigica allo stesso tempo: “tu, che sei salito fino in cima e che ora non ha più il potere”. Dopo di questo il popolo interviene e saluta Edipo per l’ultima volta, dicendo: “Tu che eri kratistos”, cioè “tu che eri al vertice del potere”. Ma il primo saluto del popolo di Tebe a Edipo era “o kratynon Oidipous”, cioè “Edipo onnipotente!”. Tra questi due saluti del popolo ha avuto luogo l’intera tragedia. La tragedia del potere e del possesso del potere politico.
Ma che cos’è questo potere di Edipo? Come si caratterizza? Le sue caratteristiche sono presenti nel pensiero, nella storia e nella filosofia greca dell’epoca. Edipo è chiamato basileus anax, il primo degli uomini, quello che ha la krateia, che detiene il potere, ed è anche chiamato tyrannos. “Tiranno” non deve essere inteso in senso stretto, tant’è vero che Polibio, Laio e tutti gli altri sono stati chiamati anch’essi tyrannos.Un certo numero di caratteristiche di questo potere si mostra nella tragedia di Edipo.
Edipo ha il potere. Ma l’ha ottenuto attraverso una serie di storie, di avventure, che hanno fatto di lui, all’inizio, l’uomo più miserabile – neonato esiliato, perduto, viaggiatore errante – e, in seguito, l’uomo più potente. Ha conosciuto un destino ineguale. Ha conosciuto la miseria e la gloria. È stato sul punto più alto, quando si credeva che fosse il figlio di Polibio, ed è stato al punto più basso, quando è diventato un personaggio errante di città in città. Più tardi, di nuovo, è giunto al vertice.
Gli anni che sono cresciuti con me mi hanno talvolta umiliato, talvolta esaltato.
Questo destino alterno è un tratto caratteristico di due [565] tipi di personaggi. Il personaggio leggendario dell’eroe epico che ha perduto la sua cittadinanza e la sua patria e che, dopo un certo numero di prove, ritrova la gloria; e il personaggio storico del tiranno greco della fine del VI e dell’inizio del V secolo. Il tiranno, essendo colui il quale dopo aver vissuto diverse avventure e dopo essere arrivato in vetta al potere, rischiava sempre di perderlo. L’irregolarità del destino è caratteristica del personaggio del tiranno così come è descritto nei testi greci dell’epoca. Edipo è colui il quale, dopo aver conosciuto la miseria, ha conosciuto la gloria; è diventato re dopo essere stato eroe.
Ma, se diviene re, è perché ha guarito la città di Tebe uccidendo la cantatrice divina, la Sfinge che divorava chiunque non decifrasse il suoi enigmi. Aveva guarito la città, le aveva permesso di risollevarsi. Per designare questa guarigione della città, Edipo impiega la parola orthosan, “risollevare”, anorthosan polin, raddrizzare la città. È proprio questa espressione che abbiamo trovato nel testo di Solone. Solone che non è esattamente un tiranno, bensì il legislatore, si vantava di aver raddrizzato la città di Atene alla fine del VI secolo. È anche la caratteristica di tutti i tiranni che sono sorti in Grecia durante il VII e il VI secolo. Non solo hanno conosciuto alti e bassi, ma hanno anche come ruolo quello di aver “raddrizzato” la città attraverso una distribuzione economica giusta, come Kypselos a Corinto, o attraverso delle leggi giuste, come Solone ad Atene. Ecco, dunque, due caratteristiche fondamentali del tiranno greco come lo mostrano testi dell’epoca di Sofocle o anteriori.
In Edipo si trovano anche una serie di caratteristiche non più positive bensì negative della tirannide. Edipo viene rimproverato per diversi motivi, nelle sue discussioni con Tiresia e Creonte, o con il popolo. Creonte, per esempio, gli dice:
“Ti sbagli; ti identifichi con questa città nella quale non sei nato, immagini di essere questa città e che essa ti appartenga; anch’io faccio parte di questa città, non è solo tua” (629-30).
Ora, se consideriamo le storie che Erodoto raccontava sui vecchi tiranni greci, in particolare su Kypselos di Corinto, vediamo che si tratta di qualcuno che riteneva di possedere la città (Kypselos regnò su Corinto dal 657 al 627 a.C., cfr. Erodoto, Storie, libro V, par. 92). Kypselos diceva che Zeus [566] gli aveva donato la città e che lui l’aveva restituita ai cittadini. Si trova esattamente la stessa cosa nella tragedia di Sofocle. Allo stesso modo, Edipo è colui che non accorda nessuna importanza alle leggi e che le rimpiazza con la sua volontà e con i suoi ordini. Lo dice chiaramente. Quando Creonte gli rinfaccia di volerlo esiliare, dicendo che questa decisionenon era giusta, Edipo risponde:
Poco importa che sia giusta o no, si deve obbedire comunque (627-8).
La sua volontà sarà la legge della città. È per questo che nel momento in cui comincia la caduta il Coro rimprovererà Edipo di aver disprezzato Dike, la giustizia. Occorre dunque riconoscere in Edipo un personaggio ben definito, segnalato, catalogato, caratterizzato dal pensiero greco del V secolo: il tiranno. Questo personaggio non è caratterizzato solo dal potere, ma anche da un certo tipo di sapere. Il tiranno greco non era solo colui che prendeva il potere. Era colui il quale prendeva il potere perché deteneva o faceva valere il fatto di detenere un certo sapere superiore, in quanto a efficacia, a quello degli altri.
È precisamente il caso di Edipo. Edipo è colui il quale è riuscito a risolvere, attraverso il suo pensiero, attraverso il suo sapere, il famoso enigma della Sfinge. E come Solone ha potuto effettivamente dare ad Atene delle leggi giuste, così come Solone ha potuto risollevare la città èerché era sophos, saggio, anche Edipo ha potuto risolvere l’enigma della Sfinge perché era saggio. Che cos’è questo sapere di Edipo? Come si caratterizza? Il sapere di Edipo è caratterizzato lungo tutta la tragedia. Edipo dice in ogni momento che ha vinto gli altri, che ha risolto l’enigma della Sfinge, che ha guarito la città per mezzo di ciò che chiama gnome, la sua conoscenza o la sua techne. Altre volte, per designare il suo modo di sapere, chiama sé stesso colui che ha trovato, eureka.
È la parola che Edipo utilizza più spesso per designare ciò cha ha fatto un tempo e cerca dif are ora. Se Edipo ha risolto l’enigma della Sfinge, è perché ha “trovato”. Se vuole salvare di nuovo Tebe deve trovare di nuovo, euriskein. Che cosa significa euriskein? Questa attività di “trovare” è caratterizzata inizialmente, nella narrazione, come una cosa che si fa da soli. Edipo insiste continuamente a questo proposito.
Quando ho risolto l’enigma della sfinge, non mi sono rivolto a nessuno,
dice al popolo e all’indovino. Dice al popolo:
Voi non avreste potuto aiutarmi in nessun modo a risolvere [567] l’enigma della sfinge; voi non potevate fare nulla contro la divina cantatrice.
E dice a Tiresia:
Ma che razza di indovino sei, visto che non sei stato capace di liberare Tebe dalla Sfinge? Mentre tutti erano in preda al terrore, io ho liberato Tebe da solo; non ho imparato nulla da nessuno, non mi sono servito di alcun messaggero, sono venuto di persona.
Trovare è qualcosa che si fa da soli. Trovare è anche ciò che si fa quando si aprono gli occhi. Ed Edipo è l’uomo che non smette mai di dire:
Ho indagato, e poiché nessuno è stato in grado di darmi delle indicazioni, ho aperto gli occhi e le orecchie, ho visto.
Il verbo oida, che significa allo stesso tempo “sapere” e “vedere”, è utilizzato di frequente da Edipo. Oidipous è colui il quale è capace di questa attività di vedere e sapere. È l’uomo del vedere, l’uomo dello sguardo, e lo sarà fino alla fine. Se Edipo cade in una trappola, è proprio perché, nella sua volontà di trovare, ha spinto la testimonianza, il ricordo, la ricerca dei personaggi che hanno visto, fino al momento in cui si è andati in cerca dello schiavo che aveva assistito a tutto e che sapeva la verità. Il sapere di Edipo è questa specie di sapere che viene dall’esperienza. È allo stesso tempo questo sapere solitario, della conoscenza, dell’uomo che, da solo, senza appoggiarsi su ciò che si dice, senza ascoltare nessuno, vuole vedere con i propri occhi.
Sapere autocratico del tiranno che, da sé, può ed è capace di governare la città. La metafora di colui che governa, di colui che comanda è utilizzata frequentemente da Edipo per designare ciò che fa. Edipo è il capitano, colui il quale ha la prua della nave apre gli occhi per vedere. Ed è precisamente perché apre gli occhi su ciò che è sul punto di accadere che trova l’accidente, l’inatteso, il destino, la tyche. Perché era quest’uomo dallo sguardo autocratico, aperto sulle cose, Edipo è caduto nella trappola. Vorrei mostrare che in fondo Edipo rappresenta, nella tragedia di Sofocle, un certo tipo di ciò che io chiamerei sapere-epotere, potere-e-sapere. È perché esercita un certo potere tirannico e solitario, separato altrettanto bene sia dall’oracolo degli dei – che non vuole ascoltare/intendere – che di ciò che dice e vuole il popolo, che, nella sua sete di governare scoprendo da solo, trova, in ultima istanza, la testimonianza di coloro che hanno visto.
Si vede così come il gioco delle metà abbia potuto funzionare e come Edipo sia, alla fine della narrazione, un personaggio superfluo. Questo nella misura in cui il sapere tirannico, questo sapere di chi vuole vedere con i propri occhi senza ascoltare né gli dei né gli uomini, [568] permette che combaci perfettamente quanto avevano detto gli dei e quanto sapeva il popolo. Edipo, senza volerlo, riesce a stabilire l’unione tra la profezia degli dei e la memoria degli uomini.
Il sapere edipico, l’eccesso di potere, l’eccesso di sapere sono stati tali che è diventato inutile: il cerchio si è fermato su di lui, o meglio, i due frammenti della tessera ormai combaciano ed Edipo è diventato inutile. Nei due frammenti combacianti, l’immagine di Edipo è diventata mostruosa. Edipo poteva troppo, grazie al suo potere tirannico, sapeva troppo, nel suo sapere solitario. In questo eccesso, era in più lo sposo di sua madre e il fratello dei suoi figli. Edipo è l’uomo dell’eccesso, l’uomo che ha tutto di troppo: nel suo potere, nel suo sapere, nella sua famiglia, nella sua sessualità. Edipo, uomo duplice, che era di troppo in rapporto alla trasparenza simbolica di ciò che sapevano i pastori e ciò che avevano detto gli dei.
La tragedia di Edipo ê molto vicina, dunque, a quello che sarà, qualche anno dopo, la filosofia platonica. […] Ciò che sarà squalificato, tanto nella tragedia di Sofocle quanto nella repubblica di Platone, è il […] personaggio, la forma di un sapere politico ad un tempo privilegiato ed esclusivo. Ciò a cui mirano la tragedia di Sofocle o la filosofia di Platone,allorché sono situate in una dimensione storica, ciò a cui mirano dietro Edipo sophos, Edipo il saggio, il tiranno che sa, l’uomo della techne, della gnome, è il famoso sofista, professionista del potere politico e del sapere, che esisteva effettivamente nella società ateniese dell’epoca di Sofocle. Ma, dietro di lui, ciò cui mirano fondamentalmente Platone e Sofocle è un’altra categoria di personaggi, dei quali il sofista era come il piccolo rappresentante, la continuazione e la fine storica: il personaggio del tiranno. Costui, nel VII e VI secolo, era l’uomo del potere del sapere, colui che dominava altrettanto bene attraverso il potere che esercitava e attraverso il potere che possedeva. Infine, […] ciò che è preso di mira è il grande personaggio storico realmente esistito, sebbene in un contesto leggendario: il famoso re assiro.
Nelle società europee del mediterraneo orientale, alla fine del secondo millennio e all’inizio del primo, il potere politico era sempre detentore di un certo tipo di sapere. Per il fatto di detenere il potere, il re e coloro che lo attorniavano, detenevano un sapere che non poteva e non doveva essere comunicato agli altri gruppi sociali. Sapere e potere erano esattamente corrispondenti, correlativi, sovrapposti. Non poteva esserci sapere senza potere, e non poteva esserci potere politico senza il possesso di un certo sapere speciale. […] Ciò che è accaduto [in Grecia nel V secolo] […] è che questa grande unità di un potere politico che sarebbe allo stesso tempo un sapere è stata smantellata. È lo smantellamento dell’unità di un potere magico religioso che esisteva nei grandi imperi assiri, che i tiranni greci, impregnati della civiltà orientale, hanno tentato di riabilitare a loro profitto e che i sosfisti del VI e V secolo hanno ancora utilizzato come potevano, sotto la forma di lezioni a pagamento. Assistiamo a questa lunga decomposizione durante i cinque o sei secoli della Grecia arcaica. E, quando la grecia classica appare […] ciò che deve scomparire […] è l’unione di sapere e potere.
Da quel momento in poi, l’uomo del potere sarà l’uomo dell’ignoranza. Ciò che è accaduto a Edipo è che, sapendo troppo, non sapeva nulla. A partire da quel momento Edipo funzionerà come l’uomo del potere, cieco, che non sapeva, e che non sapeva perché poteva troppo. Così, mentre il potere verrà tacciato di ignoranza, di incoscienza, di oblio, oscurità, ci sarà, da un lato, l’indovino e il filosofo in comunicazione con la verità, le verità eterne degli dei o dello spirito, e dall’altro lato il popolo, che, senza detenere alcun potere, possiede il ricordo o può testimoniare della verità. Così, aldilà di un potere che è divenuto monumentalmente cieco come Edipo, ci sono i pastori, che si ricordano, e gli indovini che dicono la verità. [570]
L’occidente sarà dominato dal grande mito secondo il quale la verità non appartiene mai al potere politico, che è cieco, mentre il vero sapere è quello che si possiede quando si ê in contatto con gli dei o quando ci si ricorda delle cose, quando si guarda il grande sole eterno o quando si aprono gli occhi a ciò che è accaduto. Con Platone comincia un grande mito occidentale: c’è un’antinomia tra sapere e potere. Se c’è sapere, occorre rinunciare al potere. Là dove sapere e scienza si trovano nella loro verità pura, non può esserci alcun potere politico. Questo grande mito deve essere liquidato. È proprio questo mito che Nietzsche ha iniziato a demolire, mostrando, nei numerosi testi citati, che, dietro a ogni sapere, a ogni conoscenza, ciò che è in gioco è una lotta di potere. Il potere politico non è privo di sapere, è intrecciato con il sapere.
III[…] Ho fatto riferimento a due forme o tipi di regolamentazione giudiziaria, di litigio, di contestazione o di disputa presenti nella civilizzazione greca. La prima forma, molto arcaica, si trova in Omero. Due guerrieri si affrontavano per sapere chi aveva torto e chi aveva ragione, chi aveva violato il diritto dell’altro. Il compito di risolvere questa questione spettava a una disputa regolata, una sfida tra i due guerrieri. L’uno lanciava all’altro la sfida seguente: “Sei capace di giurare davanti agli dei che non hai fatto ciò di cui ti accuso?” In una procedura come questa, non c’è giudice, sentenza, verità, inchiesta, testimonianza che possa servire a sapere chi ha detto la verità. Il compito di decidere, non chi ha detto la verità, ma chi ha ragione, lo si affida alla lotta, alla sfida, al rischio che ciascuno correrà.
La seconda forma è quella che si sviluppa nell’Edipo re. Per risolvere un problema che è anche, in un certo senso, un problema di contestazione, un litigio criminale – chi ha ucciso re Laio? – appare un personaggio nuovo rispetto alla vecchia procedura di Omero: il pastore. Al fondo della sua capanna, benché fosse un uomo senza importanza, uno schiavo, il pastore ha visto e, poiché dispone di questo piccolo frammento di ricordo, poiché porta nel suo discorso la testimonianza di ciò che ha visto, può contestare e abbattere l’orgoglio del re o la presunzione del tiranno. Il testimone, l’umile testimone, attraverso il solo strumento che rappresenta per lui il gioco di veritâ che ha visto e che enuncia, può, da solo, vincere il più potente. Edipo re è una specie di compendio della storia del diritto greco. Diverse opere di Sofocle, come Antigone ed Elettra sono una specie di ritualizzazione teatrale della storia del diritto.
Questa drammatizzazione della storia del diritto greco ci presenta il compendio di una delle grandi conquiste della democrazia ateniese: la storia del processo attraverso la quale il popolo si è impadronito del diritto di giudicare, del diritto di dire la verità, di opporre alla verità al suo proprio signore, di giudicare coloro che lo governano. Questa grande conquista della democrazia greca, questo diritto di testimoniare, di opporre la verità al potere, si èc ostituito in un lungo processo nato e instauratosi in modo definitivo ad Atene, nel corso del V secolo. Questo diritto di opporre una verità senza potere a un potere senza verità ha dato luogo a una serie di grandi forme culturali caratteristiche della società greca. In primo luogo l’elaborazione di ciò che si potrebbe chiamare le forme razionali della prova e della dimostrazione: come produrre la verità, sotto quali condizioni, quali forme osservare, quali regole applicare.
Queste forme sono: la filosofia, i sistemi razionali, i sistemi scientifici. In secondo luogo, e intrattenendo una relazione con le forme precedenti, è stata sviluppata un’arte di persuadere, di convincere la gente della verità di ciò che si dice, di ottenere la vittoria per la verità o, ancora attraverso la verità. Abbiamo qui il problema della retorica greca. In terzo luogo, è stato sviluppato un nuovo tipo di conoscenza: la conoscenza attraverso la testimonianza, per mezzo del ricordo, attraverso l’inchiesta. Sapere dell’inchiesta che gli storici, come Erodoto, poco prima di Sofocle, i fisici, i botanici, i geografi, i viaggiatori greci svilupperanno e che Aristotele, totalizzandolo, renderà enciclopedico.
C’è dunque stata, in Grecia, una specie di grande rivoluzione che, attraverso una serie di lotte e di contestazioni politiche, ha avuto come risultato l’elaborazione di una forma determinata di scoperta giudiziaria, giuridica della verità. Questa costituisce la matrice, il modello a partire dal quale una serie di altri saperi – filosofici, retorici ed empirici – hanno potuto svilupparsi e caratterizzare il pensiero greco.
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