L’analisi di Foucault sul ruolo della libertà nella governamentalità liberale e sul suo rovescio fatto di rischio, insicurezza, controllo, tratto da una raccolta di suoi scritti ed interventi dal 1975 al 1984.
Non bisogna credere che la libertà sia un universale che subirebbe, attraverso il tempo, una progressiva realizzazione o delle variazioni quantitative o delle amputazioni più o meno gravi, delle occultazioni più o meno rilevanti. Essa non è un universale che si specificherebbe nel tempo storico e nello spazio geografico. La libertà non è una superficie bianca con delle caselle nere più o meno numerose, sparse qua e là, di tanto in tanto. La libertà non è mai altro – ma è già abbastanza – che un rapporto attuale tra governanti e governati, in cui la misura della scarsa libertà esistente è data dalla maggiore libertà richiesta.
Sicché, quando dico liberale non intendo una forma di governamentalità che concederebbe un maggior numero di caselle bianche alla libertà. Se impiego il termine liberale è innanzitutto perché la pratica di governo che viene messa in campo (nel XVIII secolo) non si limita a rispettare questa o quella libertà, a garantire questa o quella libertà. Essa è, in un senso più profondo, consumatrice di libertà, poiché può funzionare solo nella misura in cui c’è effettivamente un certo numero di libertà: libertà di mercato, libertà del venditore e del compratore, libero esercizio del diritto di proprietà, libertà di discussione, eventualmente libertà d’espressione.
La nuova ragione governamentale ha dunque bisogno di libertà. La nuova arte governamentale consuma libertà, vale a dire che è costretta a produrla, è costretta ad organizzarla. La nuova arte di governo si presenterà perciò come gestione della libertà, non nel senso dell’imperativo “sii libero”, con l’immediata contraddizione che questo imperativo può comportare. Non è il “sii libero” che viene formulato dal liberalismo. Il liberalismo formula semplicemente questo:
“io produrrò di che farti essere libero. Farò in modo che tu sia libero di essere libero”.
E, nello stesso tempo, se questo liberalismo non è tanto l’imperativo della libertà quanto la gestione e l’organizzazione delle condizioni alle quali si può essere liberi, capite bene che, nel seno stesso di questa pratica liberale, si instaura un rapporto problematico, in costante variazione, in perenne movimento, tra la produzione di libertà e coloro stessi che, producendola, rischiano di limitarla e distruggerla.
Il liberalismo come io lo intendo, questo liberalismo che può essere caratterizzato come la nuova arte del governo che si forma nel XVIII secolo, implica un intrinseco rapporto di produzione/distruzione nei confronti della libertà (…). Con una mano bisogna produrre la libertà, ma questo medesimo gesto implica che, con l’altra, siano stabilite delle limitazioni, dei controlli, delle costrizioni, degli obblighi basati su delle minacce. […] Quale sarà, allora, il principio di calcolo di questa libertà? Bisognerà proteggere gli interessi individuali da tutto ciò che potrebbe apparire, rispetto ad essi, come un’invasione di campo da parte dell’interesse collettivo. Occorre anche che la libertà dei processi economici non costituisca un pericolo per le imprese, un pericolo per i lavoratori. E’ necessario che la libertà dei lavoratori non diventi un pericolo per l’impresa e per la produzione. Occorre che gli infortuni individuali, che tutto ciò che può succedere nella vita di una persona – si tratti di malattia o di qualcosa che si presenta comunque come la vecchiaia – non costituisca un pericolo né per gli individui né per la società. Insomma, a tutti questi imperativi che impongono di vigilare affinché la meccanica degli interessi non provochi pericoli né per gli individui
né per la collettività, a tutto questo devono rispondere delle strategie di sicurezza che sono, in un certo senso, il contrario e la condizione stessa del liberalismo (…).
Libertà e sicurezza, è questo che, in qualche modo, animerà dall’interno i problemi di ciò che chiamerei l’economia di potere propria del liberalismo. In linea di massima, si può dire questo: cioè che, nel vecchio sistema politico della sovranità, fra il sovrano e il suddito esisteva tutta una serie di rapporti giuridici e di rapporti economici che impegnavano e obbligavano il sovrano stesso a proteggere il suddito. Ma tale protezione era, in un certo senso, esterna. Il suddito poteva chiedere al sovrano di essere protetto dal nemico esterno o dal nemico interno.
Nel caso del liberalismo le cose stanno in tutt’altro modo. A dover essere garantita non è più semplicemente una specie di protezione esterna dell’individuo stesso. Il liberalismo innesca un meccanismo entro il quale in ogni momento si troverà a porsi come arbitro della libertà e della sicurezza degli individui a partire da questa
nozione di pericolo. In fondo, se per un verso il liberalismo è un’arte del governo che si occupa fondamentalmente degli interessi, esso – ed è questo il rovescio della medaglia – non può intervenire sugli interessi senza essere al tempo stesso amministratore dei pericoli e dei meccanismi di sicurezza/libertà, del gioco sicurezza/libertà che deve garantire che gli individui o la collettività saranno esposti il meno possibile ai pericoli.
Si può dire, in fondo, che il motto del liberalismo sia “vivere pericolosamente”. Vale a dire che gli individui sono messi continuamente in stato di pericolo o, meglio, che sono posti nella condizione di esperire la loro situazione, la loro vita, il loro presente, il loro avvenire, come fattori di pericolo. Ed è questa specie di stimolo del pericolo che sarà, secondo me, una delle maggiori implicazioni del liberalismo. Nel XIX secolo compare tutta un’educazione, tutta una cultura del pericolo, che è molto diversa dai grandi sogni o dalle grandi minacce dell’Apocalisse come la peste, la morte, la guerra, che alimentavano l’immaginazione politica e cosmologica nel Medio Evo e ancora nel XVII secolo. Sparizione dei cavalieri dell’Apocalisse e, viceversa, apparizione, emergenza, invasione dei pericoli quotidiani, dei pericoli quotidiani continuamente alimentati, riattualizzati, messi in circolazione da ciò che, dunque, potremmo chiamare la cultura politica del pericolo del XIX secolo.
Si pensi, ad esempio, alla campagna sulle casse di risparmio dell’inizio del XIX secolo, alla comparsa della letteratura poliziesca e dell’interesse giornalistico per il crimine a partire dalla metà del XIX secolo, si pensi a tutte le campagne riguardanti la malattia e l’igiene, si consideri tutto ciò che accade attorno alla sessualità e alla paura della degenerazione: degenerazione dell’individuo, della famiglia, della razza,
della specie umana; insomma dappertutto si può vedere questa stimolazione del timore del pericolo, che è in qualche modo la condizione, il correlativo – psicologico, culturale, interno – del liberalismo. Niente liberalismo senza cultura del pericolo.
Seconda conseguenza è la formidabile estensione delle procedure di controlli, di costrizione, di coercizione, che costituiranno una sorta di contropartita e di contrappeso delle libertà. Io ho abbastanza insistito sul fatto che le celebri grandi tecniche disciplinari che si fanno carico, giorno per giorno e fino al minimo dettaglio, del comportamento degli individui, nel loro sviluppo, nella loro esplosione, nella loro diffusione nella società, sono contemporanee esattamente dell’epoca delle libertà.
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Libertà economica, liberalismo nel senso che ho appena detto, e tecniche disciplinari sono strettamente connesse. E quel famoso panopticon che – da giovane, e infine negli anni 1792-1795 – Bentham presentava come il metodo mediante il quale, all’interno di determinate istituzioni come le scuole, le officine, le prigioni, si sarebbe potuto sorvegliare il comportamento degli individui accrescendo il rendimento, la stessa produttività della loro attività, al termine della sua vita lo presenterà come la formula del governo nella sua globalità, dicendo:
“il panopticonè la formula stessa del governo liberale, perché, in fondo, che cosa deve fare un governo?”.
Esso, sia beninteso, deve lasciare spazio a tutto ciò che può costituire la meccanica naturale sia dei comportamenti che della produzione. Deve lasciare spazio a questi meccanismi e su di essi, quanto meno in prima istanza, non deve
operare nessun’altra forma di intervento se non quella della sorveglianza. Ed è unicamente quando vedrà che qualcosa non funziona secondo la meccanica generale dei comportamenti, degli scambi, della vita economica, che il governo,
limitato inizialmente alla sua funzione di sorveglianza, dovrà intervenire. Il panoptismo non rappresenta una meccanica regionale e circoscritta a certe istituzioni. Il panoptismo, per Bentham, è una formula politica generale,
caratteristica di un certo tipo di governo.
Terza conseguenza (…) è la comparsa ache di meccanismi che hanno la funzione di produrre, di infondere, di accrescere delle libertà, di introdurre un di più di libertà mediante un di più di controllo e di intervento. In altri termini, in questo caso il controllo non è più, come nel caso del panoptismo, semplicemente il contrappeso necessario della libertà. Esso ne costituisce il principio motore. E se ne potrebbero trovare degli esempi, almeno in ciò che è accaduto in Inghilterra e negli Stati Uniti durante il XX secolo, diciamo negli anni Trenta, quando, a fronte della crisi incalzante, si percepirono immediatamente non solo le conseguenze economiche, ma anche le conseguenze politiche di questa crisi economica, e vi si colse un pericolo per un certo numero di libertà ritenute fondamentali.
Per esempio, la politica del Welfare, promossa da Roosevelt a partire dal 1932, fu una maniera di garantire e di produrre, in una pericolosa situazione di disoccupazione, maggiore libertà, libertà di lavoro, libertà di consumo, libertà politica. A quale prezzo? Esattamente al prezzo di tutta una serie di interventi, di interventi artificiosi, di interventi volontaristici, di interventi economici diretti sul mercato, che hanno rappresentato le misure fondamentali del Welfare, che dal 1946, e d’altronde fin dall’inizio, verranno caratterizzate essenzialmente come minacce di dispotismo, come minacce di un nuovo dispotismo.
In questo caso le libertà democratiche vengono garantite solo attraverso un interventismo economico che è denunciato come una minaccia per le libertà, cosicché si arriva a formulare l’idea che quest’arte liberale del governo, in definitiva,
provoca essa stessa, o è vittima dal suo interno, di ciò che potremmo chiamare crisi di governamentalità. Si tratta di crisi che possono essere dovute, per esempio, all’aumento del costo economico dell’esercizio delle libertà (…). C’è dunque un problema: crisi o coscienza di crisi a partire dalla definizione del costo economico dell’esercizio delle libertà. Si può avere un’altra forma di crisi, dovuta all’inflazione dei meccanismi di compensazione della libertà. In altre parole, per via dell’esercizio di certe libertà, come la libertà di mercato, e della legislazione antimonopolistica, si può avere un appesantimento legislativo che verrà percepito dagli attori del mercato come un eccesso di interventismo, un eccesso di costrizioni e di coercizioni.
Ad un livello molto più locale, allora, si avrà tutto ciò che potrà apparire come rivolta, insofferenza disciplinare. Infine, e soprattutto, si avranno dei processi di nintasamento per cui i meccanismi di produzione della libertà, gli stessi che sono stati messi in campo per assicurare e fabbricare questa libertà, produrranno di fatto degli effetti distruttivi che prevarranno anche sui loro effetti produttivi. E’ questo l’equivoco di tutti quei dispositivi che potremmo chiamare liberogeni, destinati a produrre la libertà e che, eventualmente, rischiano di produrre esattamente il contrario.
E’ questa la crisi attuale del liberalismo: l’insieme dei meccanismi con i quali, all’incirca dagli anni 1925-1930, si è tentato di proporre delle formule economiche e politiche per salvaguardare gli Stati dal comunismo, dal socialismo, dal
nazionalsocialismo, dal fascismo; quei meccanismi, quelle garanzie di libertà, messe in campo per produrre un di più di libertà o comunque per reagire alle minacce cui era esposta questa libertà, sono stati tutti dell’ordine dell’intervento economico. Ovvero dell’imposizione o dell’intervento coercitivo nella sfera della pratica economica. […] Ora, questi meccanismi d’intervento economico non introducono in modo surrettizio esattamente dei tipi di intervento, dei modi di azione che sono essi stessi rischiosi per la libertà, almeno quanto queste forme politiche visibili e manifeste che si vorrebbe scongiurare? In altre parole, sono gli interventi di tipo keynesiano ad essere posti, senz’alcun dubbio, al centro di questi differenti dibattiti.
(…) Tutti questi interventi hanno provocato qualcosa di simile ad una crisi del liberalismo; ed è questa crisi del liberalismo che si manifesta in un certo numero di rivisitazioni, riconsiderazioni, nuovi progetti formulati, nell’ambito dell’arte del governo, in Germania prima e immediatamente dopo la guerra, e attualmente in America. Per riassumere, o per concludere, direi questo. Se è vero che il mondo contemporaneo, insomma il mondo moderno, dalla fine del XVIII secolo, è stato attraversato costantemente da un certo numero di fenomeni che possiamo chiamare crisi del capitalismo, non si potrebbe dire anche che ci sono state delle crisi del liberalismo, crisi del liberalismo che, beninteso, non sono indipendenti dalle crisi del capitalismo?
Il problema degli anni Trenta lo prova senz’altro. Ma la crisi del liberalismo non è la proiezione pura e semplice, la proiezione diretta di queste crisi del capitalismo all’interno della sfera politica. Le crisi del liberalismo sono collegate alle crisi dell’economia del capitalismo. Potete trovarle anche diversamente collocate sul piano cronologico rispetto a queste crisi; in ogni caso, la stessa maniera in cui queste crisi si manifestano, suscitano delle reazioni, provocano delle
riorganizzazioni. E tutto ciò non è direttamente deducibile dalle crisi del capitalismo. Si tratta di crisi del dispositivo generale di governamentalità – inaugurato nel XVIII – e credo che di esse si potrebbe fare la storia.
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