La lettura nietzscheana più appassionata e la spiegazione più illuminante del metodo genealogico, in questo testo davvero ispirato, scritto da Michel Foucault per Hommage à Jean Hyppolite [“Nietzsche, la généalogie, l’histoire”, in Hommage à Jean Hyppolite, Paris, 1971, pp. 145-172] e tradotto da Einaudi [Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977, pp. 29-54].
Il grande gioco della storia, sta in chi s’impadronirà delle regole, chi prenderà il posto di quelli che le utilizzano, chi si travestirà per pervertirle, le utilizzerà a controsenso e le rivolgerà contro quelli che le avevano imposte; chi, introducendosi nel complesso apparato lo farà funzionare in modo tale che i dominatori si troveranno dominati dalle loro stesse regole.
M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia
I. La genealogia è grigia; meticolosa, pazientemente documentaria. Lavora su pergamene ingarbugliate, raschiate, più volte riscritte.
Paul Ree ha torto, come gli inglesi, a descrivere delle genesi lineari, — a ordinare per esempio alla sola preoccupazione dell’utile tutta la storia della morale: come se le parole avessero conservato il loro senso, i desideri la loro direzione, le idee la loro logica; come se questo mondo di cose dette e volute non avesse conosciuto invasioni, lotte, rapine, simulazioni, astuzie. Di qui, per la genealogia, un’indispensabile cautela: reperire la singolarità degli avvenimenti al di fuori di ogni finalità monotona; spiarli dove meno li si aspetta e in ciò che passa per non aver storia – i sentimenti, l’amore, la coscienza, gli istinti; cogliere il loro ritorno, non per tracciare la curva lenta d’un’evoluzione, ma per ritrovare le diverse scene dove hanno giocato ruoli diversi; definire anche l’istante della loro assenza, il momento in cui non hanno avuto luogo (Platone a Siracusa non è diventato Maometto…).
La genealogia esige dunque la minuzia del sapere, un gran numero di materiali accumulati e pazienza. Le sue «costruzioni ciclopiche» [Nietzsche, La gaia scienza, §7] non deve costruirle a colpi di «errori letificanti», ma di «verità piccole e non appariscenti, che furono trovate con metodo severo » [Umano, troppo umano, 3]. In breve, un certo accanimento nell’erudizione. La genealogia non si oppone alla storia come la vista altera e profonda del filosofo allo sguardo di talpa del dotto; s’oppone al contrario al dispiegamento metastorico dei significati ideali e delle indefinite teleologie. S’oppone alla ricerca dell’« origine».
2. Si trovano in Nietzsche due usi della parola Ursprung. Il primo non è caratterizzato: lo s’incontra in alternanza a termini come Entstehung, Herkunft, Abkunft, Geburt. La Genealogia della morale per esempio parla, a proposito del dovere o del sentimento della colpa, tanto della loro Entstehung che del loro Ursprung, nella Gaia scienza, si parla, a proposito della logica e della conoscenza, sia d’un Ursprung, sia d’una Entstehung, sia d’una Herkunft . L’altro uso della parola è caratterizzato. Accade infatti che Nietzsche la ponga in opposizione ad un altro termine: il primo paragrafo di Umano, troppo umano mette l’una di fronte alle altre l’origine miracolosa (Wunder- ursprung) che cerca la metafisica, e le analisi d’una filosofia storica che pone domande über Herkunft und Anfang. Accade anche che Ursprung sia utilizzato in modo ironico e ingannevole. In che consiste, per esempio, questo fondamento originario (Ursprung) della morale che si cerca da Platone in poi?
«In esecrabili piccole conclusioni. Pudenda origo» [Genealogia della morale, II, 6 e 8]. O ancora: dove bisogna cercare quest’origine della religione (Ursprung) che Schopenhauer poneva in un certo sentimento metafisico dell’al di là? Semplicemente in un’invenzione (Erfindung), in un gioco di prestigio, in un artificio (Kunststück), in un segreto di fabbricazione, in un’operazione di magia nera, nel lavoro degli Schwarzkünstler [La gaia scienza, 151, 353; Aurora, 62; Genealogia, I, 14; Crepuscolo degli idoli, I grandi errori, 7] .
Per l’uso di tutte queste parole e per i giochi propri al termine Ursprung, uno dei testi più significativi è la prefazione della Genealogia. All’inizio del testo, l’oggetto della ricerca è definito come l’origine dei pregiudizi morali; il termine allora usato è Herkunft. Poi Nietzsche ritorna indietro, fa la storia di quest’indagine nella sua vita; ricorda il tempo in cui «scriveva in bei caratteri» la filosofia e si chiedeva se bisognasse attribuire a Dio l’origine del male. Domanda che ora lo fa sorridere e di cui dice appunto ch’era una ricerca di Ursprung; la stessa parola per caratterizzare un po’ più avanti il lavoro di Paul Ree [L’opera di Paul Ree si chiamava Ursprung der moralischen Emfindungen]. Poi evoca le analisi propriamente nietzscheane che sono incominciate con Umano, troppo umano ; per caratterizzarle, parla di Herkunfthypothesen. Ora, qui l’uso della parola Herkunft probabilmente non è arbitrario: serve a designare parecchi testi di Umano, troppo umano consacrati all’origine della moralità, dell’ascesi, della giustizia e della punizione. Eppure, in tutti questi passi, la parola che era stata utilizzata allora era Ursprung [in Umano, troppo umano, l’aforisma 92 s’intitolava Ursprung der Geretchigkeit]. Come se all’epoca della Genealogia, e a questo punto del testo, Nietzsche volesse far valere un’opposizione fra Herkunft e Ursprung, che una decina d’anni prima non aveva fatto intervenire. Ma subito dopo aver utilizzato in modo differenziato questi due termini, Nietzsche ritorna, negli ultimi paragrafi della prefazione, ad un uso neutro ed equivalente .
Perché il Nietzsche genealogista rifiuta, almeno in certe occasioni, la ricerca dell’origine (Ursprung)? Innanzitutto perché in essa ci si sforza di raccogliere l’essenza esatta della cosa, la sua possibilità più pura, la sua identità accuratamente ripiegata su se stessa, la sua forma immobile ed anteriore a tutto ciò che è esterno, accidentale e successivo. Ricercare una tale origine, è tentare di ritrovare «quel che era già», lo «stesso» d’un’immagine esattamente adeguata a sé; è considerare avventizie tutte le peripezie che hanno potuto aver luogo, tutte le astuzie e tutte le simulazioni; è cominciare a togliere tutte de maschere, per svelare infine un’identità originaria. Ora, se il genealogista prende cura d’ascoltare la storia piuttosto che prestar fede alla metafisica, cosa apprende? Che dietro le cose c’è «tutt’altra cosa»: non il loro segreto essenziale e senza data, ma il segreto che sono senza essenza, o che la loro essenza fu costruita pezzo per pezzo a partire da figure che le erano estranee. La ragione? Ma è nata in modo del tutto «ragionevole», – dal caso [Aurora, 123]. L’attaccamento alla verità e il rigore dei metodi scientifici? Dalla passione dei dotti, dal loro odio reciproco, dalle loro discussioni fanatiche e sempre riprese, dal bisogno di prevalere, – armi lentamente forgiate nel corso di lotte personali [Umano, troppo umano, 34]. E la libertà, sarebbe forse, alla radice dell’uomo, quel che lo lega all’essere e alla verità? Nei fatti, non è che una «invenzione delle classi dirigenti». Là dove le cose iniziano la loro storia, quel che si trova non è l’identità ancora preservata della loro origine, – ma la discordia delle altre cose, il disparato.
La storia insegna anche a sorridere delle solennità dell’origine. L’alta origine è il
«germoglio metafisico che rispunta nella considerazione della storia e che fa ogni volta credere che al principio di tutte le cose si trovi il più perfetto e il più essenziale» [Il viandante e la sua opera, 9]:
piace credere che all’inizio le cose erano nella loro perfezione; che uscirono scintillanti dalle mani del creatore, o nella luce senz’ombra del primo mattino. L’origine è sempre prima della caduta, prima del corpo, del mondo e del tempo; è dal lato degli dèi, e a raccontarla si canta sempre una teogonia. Ma l’inizio storico è basso. Non nel senso di modesto, o di discreto come il passo della colomba, ma derisorio, ironico, atto a distruggere tutte le infatuazioni:
«Si cercava di pervenire al sentimento della sovranità dell’uomo, indicando la sua origine divina: questa è ora divenuta una via proibita, poiché alla sua porta c’è la scimmia» [Aurora, 49].
L’uomo ha cominciato colla smorfia di quel che sarebbe diventato; anche Zaratustra avrà la sua scimmia che salterà dietro di lui e tirerà il lembo della sua veste. Infine, ultimo postulato dell’origine, legato ai primi due: essa sarebbe il luogo della verità. Punto assolutamente remoto, ed anteriore ad ogni conoscenza positiva, renderebbe possibile un sapere che pure la ricopre, e non cessa di disconoscerla fra le sue chiacchiere; sarebbe in quell’articolazione inevitabilmente perduta dove la verità delle cose si lega ad una verità del discorso che subito l’offusca e la perde. Nuova crudeltà della storia che costringe ad invertire il rapporto e ad abbandonare la ricerca «adolescente»: dietro la verità, sempre recente, avara e misurata, c’è la proliferazione millenaria degli errori. Non crediamo più
«che la verità resti ancora verità, quando le si tolgono di dosso i veli; abbiamo vissuto abbastanza per credere in questo» [Nietzsche contra Wagner].
La verità, sorta d’errore che ha il vantaggio di non poter essere confutato, probabilmente perché la lunga cottura della storia l’ha resa inalterabile [La gaia scienza, 265, 110]. E d’altronde la questione stessa della verità, il diritto che si dà di confutare l’errore o di opporsi all’apparenza, il modo in cui di volta in volta fu accessibile ai dotti, poi riservata ai soli uomini di pietà, in seguito ritirata in un mondo al sicuro, dove svolse il ruolo insieme della consolazione e dell’imperativo, infine respinta come idea inutile, superflua, dovunque contraddetta,- tutto ciò non è una storia, la storia d’un errore che ha nome verità? La verità e il suo regno originario hanno avuto la loro storia nella storia. Ne usciamo appena
«all’ora dell’ombra più corta» [Il crepuscolo degli idoli]
quando la luce non sembra più venire dal fondo del cielo e dai primi momenti del giorno.
Fare la genealogia dei valori, della morale, dell’ascetismo, della conoscenza, non sarà dunque mai partire alla ricerca della loro «origine», trascurando come inaccessibili tutti gli episodi della storia; sarà al contrario attardarsi sulle meticolosità e sui casi degl’inizi; prestare un’attenzione scrupolosa alla loro risibile cattiveria; aspettarsi di vederli sorgere, maschere finalmente cadute, col volto dell’altro; andare a cercarli senza pudore là dove sono —
« frugando i bassifondi »;
lasciar loro il tempo di risalire dal labirinto dove nessuna verità li ha mai tenuti sotto la sua guardia. Il genealogista ha bisogno della storia per scongiurare la chimera dell’origine, un po’ come il buon filosofo ha bisogno del medico per scongiurare l’ombra dell’anima. Bisogna saper riconoscere gli avvenimenti della storia, le sue scosse, le sue sorprese, le vacillanti vittorie, le sconfitte mal digerite, che rendono conto degl’inizi, degli atavismi e delle eredità; come bisogna saper diagnosticare le malattie del corpo, gli stati di debolezza e d’energia, le incrinature e le resistenze per giudicare un discorso filosofico. La storia, colle sue intensità, cedimenti, furori segreti, le sue grandi agitazioni febbrili come le sue sincopi, è il corpo stesso del divenire. Bisogna essere metafisico per cercarle un’anima nell’idealità lontana dell’origine.
3. Termini come Entstehung o Herkunft designano meglio di Ursprung l’oggetto specifico della genealogia. Li si traduce di solito con «origine», ma bisogna cercare di restituire il loro uso esatto.
Herkunft: è la stirpe, la provenienza, è la vecchia appartenenza ad un gruppo – quello del sangue, quello della tradizione, quello che si crea fra persone della stessa altezza o della stessa bassezza. Spesso l’analisi della Herkunft mette in gioco la razza o il tipo sociale. Tuttavia non si tratta tanto di ritrovare in un individuo, un sentimento o un’idea, i caratteri generici che permettono di assimilarlo ad altri, – e di dire: questo è greco, o questo è inglese| ma di rintracciare tutti i segni sottili, singolari, sottoindividuali che possono incrociarsi in lui e formare una rete difficile da sbrogliare. Lungi dall’essere una categoria della somiglianza, una tale origine permette di districare, per metterli da parte, tutti i segni diversi: i tedeschi s’immaginano d’esser giunti al culmine della loro complessità quando hanno detto che avevano l’anima doppia; si sono ingannati e di gran lunga, o piuttosto cercano come possono di padroneggiare l’accozzaglia di razze di cui sono costituiti [Al di là del bene e del male, 244] Là dove l’anima ha la pretesa d’unificarsi, là dove l’Io s’inventa un’identità o una i coerenza, il genealogista parte alla ricerca dell’inizio, – degl’innumerevoli inizi che lasciano quel sospetto di colore, quella traccia quasi cancellata che non potrebbe gannare un occhio un po’ storico; l’analisi della provenienza permette di dissociare l’Io e di far pullulare nei luoghi della sua sintesi vuota mille avvenimenti ora perduti.
La provenienza permette anche di ritrovare sotto l’aspetto unico d’un carattere o d’un concetto la proliferazione degli avvenimenti attraverso i quali (grazie ai quali, contro i quali) si sono formati. La genealogia non pretende di risalire il tempo per ristabilire una grande continuità al di là della dispersione dell’oblio; il suo compito non è di mostrare che il passato è ancor li, ben vivo nel presente, animandolo ancora in segreto, dopo aver imposto a tutte le traversie del percorso una forma disegnata sin dall’inizio. Nulla che somiglierebbe all’evoluzione d’una specie, al destino d’un popolo. Seguire la trafila complessa della provenienza, è al contrario mantenere ciò che è accaduto nella dispersione che gli è propria: è ritrovare gli accidenti, le minime deviazioni – o al contrario i rovesciamenti completi – gli errori, gli apprezzamenti sbagliati, i cattivi calcoli che hanno generato ci che esiste e vale per noi; è scoprire che alla radice quel che conosciamo e di quel che siamo – non c’è la verità e l’essere, ma l’esteriorità dell’accidente [Genealogia, III, 17. Abkunft del sentimento depressivo]. E’ per questo probabilmente che ogni origine della morale, dl momento che non è venerabile, – e la Herkunft non lo è mai – vale come critica [Crepuscolo, ragioni della filosofia].
Pericolosa eredità quella che ci è trasmessa da una tale provenienza. Nietzsche, a più riprese, associa i termini Herkunft e Erbschaft. Ma non bisogna ingannarsi; quest’eredità non è un’acquisizione, un avere che si accumula e si solidifica; piuttosto, un insieme di faglie, di crepe, di strati eterogenei che la rendono instabile, e, dall’interno o dal di sotto, minacciano il fragile erede:
«il modo di procedere ingiusto e per improvvisi sbalzi nell’animo di molti individui, il loro disordine e difetto di misura sono le ultime conseguenze d’innumerevoli inesattezze logiche, superficialità e conclusioni avventate, di cui i loro predecessori si sono resi colpevoli» [Aurora, 247].
La ricerca della provenienza non fonda, al contrario: inquieta quel che si percepiva immobile, frammenta quel che si pensava unito; mostra l’eterogeneità di quel che s’immaginava conforme a se stesso. Quale convinzione vi resisterebbe? Ancor più, quale sapere? Facciamo un po’ l’analisi genealogica dei dotti – di colui che colleziona i fatti e ne tiene accuratamente il registro o di colui che dimostra e confuta; la loro Herkunft svelerà presto le scartoffie del cancelliere, o le arringhe dell’avvocato – loro padre – nella loro attenzione apparentemente disinteressata, nel loro « puro » attaccamento all’obiettività.
Infine la provenienza ha a che fare col corpo. S’iscrive nel sistema nervoso, nell’umore, nell’apparato digestivo. Cattiva respirazione, cattiva alimentazione, corpo debole e spossato di coloro i cui antenati hanno commesso errori; che i padri prendano gli effetti per le cause, credano alla realtà dell’al di là o pongano il valore dell’eterno, ed è il corpo dei figli che ne patirà. Viltà, ipocrisia – semplici rampolli dell’errore; non nel senso socratico, non perché sia necessario ingannarsi per essere cattivo, non perché ci si è distolti dalla verità originaria, ma perché è il corpo che porta, nella vita e nella morte, nella forza e nella debolezza, la sanzione di ogni verità e di ogni errore, come porta anche, e inversamente, l’origine-provenienza. Perché gli uomini hanno inventato la vita contemplativa? Perché hanno prestato a questo genere di esistenza un valore supremo? Perché hanno accordato verità assoluta alle fantasie che vi si formano?
«in tempi barbari… se l’energia dell’individuo si rilassa, se si sente stanco o malato o malinconico o sazio, e in conseguenza di tutto questo temporaneamente privo di aspirazioni e di bramosie, ecco che egli è un uomo relativamente migliore, cioè meno nocivo, e le sue pessimistiche concezioni continueranno allora a disgravarsi soltanto in parole e. pensieri… In questa situazione, egli diventa pensatore e profeta, oppure continua a creare poetiche finzioni sulla sua superstizione» [Aurora, 42].
Il corpo – e tutto ciò che ha a che fare col corpo, l’alimentazione, il clima, il suolo – è il luogo della Herkunft: sul corpo, si trova la stigma degli avvenimenti passati, cosi come da esso nascono i desideri, i cedimenti, e gli errori; li anche si annodano e a un tratto si esprimono, ma in esso ancora si slegano, entrano in lotta, si nascondono gli uni gli’altri e continuano la loro lotta insormontabile,
Il corpo: superficie d’iscrizione degli avvenimenti (laddove il linguaggio li distingue e le idee li dissolvono), luogo di dissociazione dell’Io (al quale cerca di prestare la chimera di un’unità sostanziale), volume in perpetuo sgretolamento. La genealogia, come analisi della provenienza, è dunque all’articolazione del corpo e della storia: deve mostrare il corpo tutto impresso di storia, e la storia che devasta il corpo.
4. Entstehung designa piuttosto l’emergenza, il momento della nascita. È il principio e la legge singolare di un’apparizione. Come si è troppo spesso inclini a cercare la provenienza in una continuità senza interruzione, così si avrebbe torto a render conto dell’emergenza attraverso il termine finale. Come sé, dagli abissi del tempo, l’occhio ‘fosse apparso per la contemplazione, come se la punizione fosse sempre stata destinata a fare esempio.
Questi fini, apparentemente ultimi, non sono nulla di più che l’episodio attuale d’una serie di asservimenti: l’occhio fu dapprima asservito alla caccia e alla guerra; la punizione fu volta per volta sottomessa al bisogno di vendicarsi, di escludere l’aggressore, di liberarsi nei con¬fronti della vittima, di spaventare gli altri. Ponendo il presente all’origine, la metafisica fa credere al lavoro oscuro d’una destinazione che cercherebbe di farsi strada sin dal primo momento. La genealogia, al contrario, ristabilisce i diversi sistemi d’asservimento: non la potenza anticipatrice d’un senso, ma il gioco casuale delle dominazioni.
L’emergenza si produce sempre in un certo stato delle forze. L’analisi dell‘Entstehung deve mostrarne il gioco, il modo in cui combattono le une contro le altre, o la lotta che portano avanti di fronte alle circostanze avverse, o ancora il tentativo che fanno – dividendosi contro se stesse — di sfuggire alla degenerazione e riprendere vigore a partire dal loro stesso indebolimento. Per esempio l’emergenza d’una specie (animale o umana) e la sua solidità sono assicurate
«nella lunga lotta contro condizioni sfavorevoli sostanzialmente uguali».
In effetti,
«la specie ha bisogno di sé come specie, come qualcosa che proprio in virtù della sua durezza, uniformità, semplicità di forme può in generale realizzarsi e rendersi duratura, in una assidua lotta con i vicini o con i soggiogati passati alla rivolta».
Al contrario, l’emergenza delle variazioni individuali si produce in un altro stato delle forze, quando la specie ha trionfato, il pericolo esterno non la minaccia più e si dispiega la lotta
« degli egoismi selvaggiamente rivolti l’uno contro l’altro e, per cosi dire, esplodenti, i quali lottano tra loro per avere luce e sole» [Al di là del bene e del male].
Accade anche che la forza lotti contro se stessa: e non solo nell’ebbrezza d’un eccesso che le permette di dividersi, ma anche nel momento in cui si indebolisce. Contro la stanchezza, reagisce, traendo la sua forza da questa stanchezza stessa che non cessa allora di crescere, e volgendosi verso di essa per abbatterla ancora di più, le imporrà limiti, supplizi e macerazioni, l’agghinderà d’un alto valore morale e cosi a sua volta riprenderà vigore. Questo è il movimento attraverso il quale nasce l’ideale ascetico «nelPistinto d’una vita degenerante, che… lotta per la sua esistenza» ; questo anche il movimento attraverso il quale la Riforma è nata, là dove precisamente la Chiesa era meno corrotta ; nella Germania del xvi secolo, il cattolicesimo, aveva ancora sufficienti forze per rivoltarsi contro se stesso, punire il proprio corpo e la propria storia, e spiritualizzarsi in una pura religione della coscienza.
L’emergenza, è dunque l’entrata in scena delle forze; è la loro irruzione, il balzo con il quale dalle quinte saltano sul teatro, ciascuna col vigore, la giovinezza che le è propria. Ciò che Nietzsche chiama Entstehungsherd del concetto di buono, non è esattamente né l’energia dei forti, né la reazione dei deboli; ma appunto questa scena dove si distribuiscono gli uni di fronte agli altri, gli uni al di sopra degli altri; è lo spazio che li ripartisce e si scava fra di loro, il vuoto attraverso il quale scambiano minacce e parole. Mentre la provenienza designa la qualità d’un istinto, il suo grado o il suo cedimento, e il segno che lascia in un corpo, l’emergenza designa un luogo di scontro; pure bisogna guardarsi dall’immaginario come un campo chiuso, dove si svolgerebbe una lotta, un piano dove gli avversari sarebbero uguali; è piuttosto – e l’esempio dei buoni e dei cattivi lo prova – un «non luogo», una pura distanza, il fatto che gli avversari non appartengono ad uno stesso spazio. Nessuno è dunque responsabile d’un’emergenza, nessuno può farsene gloria; essa si produce sempre nell’interstizio.
In un certo senso, l’opera recitata su questo teatro senza luogo è sempre la stessa: è quella che ripetano indefinitamente i dominatori ed i dominati. Che degli uomini dominino altri uomini, ed ecco che nasce la differenziazione dei valori; che delle classi dominino altre classi, e nasce l’idea della libertà ; che degli uomini s’impadroniscano di cose di cui hanno bisogno per vivere, che impongano loro una durata che non hanno, o che le assimilino a forza, – ed è la nascita della logica . Il rapporto di dominazione non è un rapporto più di quanto non sia un luogo il luogo dove si esercita. Ed è per questo precisamente che in ogni momento della storia, si fissa in un rituale; impone delle obbligazioni e dei diritti; costituisce delle procedure accurate. Essa stabilisce dei segni, incide dei ricordi nelle cose e fin nel corpo; si fa contabile di debiti. Universo di regole che non è destinato ad addolcire, ma al contrario a soddisfare la violenza.
Si avrebbe torto a credere, secondo lo schema tradizionale, che la guerra generale, esaurendosi nelle proprie contraddizioni finisce per rinunciare alla violenza ed accetta di sopprimere se stessa nelle leggi della pace civile. La regola, è il piacere calcolato dell’accanimento, è il sangue promesso. Permette di rilanciare senza posa il gioco della dominazione; mette in scena una violenza meticolosamente ripetuta. Il desiderio di pace, la dolcezza del compromesso, l’accettazione tacita della legge, lungi dall’essere la grande conversione morale, o l’utile calcolo che hanno dato nascita alla regola, non ne sono che il risultato e a dir vero la perversione:
«Nel diritto delle obbligazioni, il mondo dei concetti morali: colpa, coscienza, dovere, sacralità del dovere, ha il suo focolare d’origine. I suoi inizi, come gli inizi di ogni grandezza terrena, sono stati a fondo e lungamente irrorati di sangue» [Genealogia, II, 6] .
L’umanità non progredisce lentamente di lotta in lotta fino ad una reciprocità universale, dove le regole si sostituiranno per sempre alla guerra; essa insedia ciascuna delle sue violenze in un sistema di regole, ed avanza cosi di dominazione in dominazione.
È la regola appunto che permette che violenza sia fatta alla violenza, e che un’altra dominazione possa piegare quelli stessi che dominano. In se stesse le regole sono vuote, violente, non finalizzate; sono fatte per servire a questo o a quello; possono essere piegate al volere di tale o tal’altro. Il grande gioco della storia, sta in chi s’impadronirà delle regole, chi prenderà il posto di quelli che le utilizzano, chi si travestirà per pervertirle, le utilizzerà a controsenso e le rivolgerà contro quelli che le avevano imposte; chi, introducendosi nel complesso apparato lo farà funzionare in modo tale che i dominatori si trove¬ranno dominati dalle loro stesse regole. Le diverse emergenze che si possono individuare non sono le figure successive d’uno stesso significato; sono altrettanti effetti di sostituzioni, scambi e spostamenti, conquiste simulate, rovesciamenti sistematici. Se interpretare, fosse mettere lentamente in luce un significato nascosto nell’origine, solo la metafisica potrebbe interpretare il divenire dell’umanità. Ma se interpretare è impadronirsi, attraverso violenza o surrezione, di un sistema di regole che non ha un significato essenziale in sé, ed imporgli una direzione, piegarlo ad una volontà nuova, farlo entrare in un altro gioco e sottometterlo ad altre regole, allora il divenire dell’umanità è una serie d’interpretazioni. E la genealogia deve esserne la storia: storia delle morali, degl’ideali, dei concetti metafisici, storia del concetto di libertà o della vita ascetica, come emergenze d’interpretazioni di¬verse. Si tratta di farle apparire come avvenimenti sul teatro delle procedure.
5. Quali sono i rapporti fra la genealogia definita come ricerca della Herkunft e Entstehung e quel che si chiama di solito la storia? Si conoscono le apostrofi celebri di Nietzsche contro la storia e bisognerà ritornarci fra poco. Pure, la genealogia è designata talvolta come «wirkliche Historie»; a più riprese, è caratterizzata dallo «spirito» o dal « senso storico ». Nei fatti, ciò che Nietzsche non ha smesso di criticare dalla seconda delle Inattuali in poi, è questa forma di storia che reintroduce (e suppone sempre) il punto di vista soprastorico: una storia che avrebbe la funzione di raccogliere, in una totalità ben richiusa su di sé, la diversità infine ridotta del tempo; una storia che ci permetterebbe di riconoscerci dovunque e di dare a tutte le trasformazioni del passato la forma della riconciliazione: una storia che getterebbe dietro di sé uno sguardo da fine del mondo. Questa storia degli storici si dà un punto d’appoggio fuori del tempo; pretende di giudicare tutto secondo un’obiettività da apocalisse; in realtà ha supposto una verità eterna, un’anima che non muore, una coscienza sempre identica a se stessa. Se il senso storico si lascia conquistare dal punto di vista sovrastorico, allora la metafisica può riassumerselo e, fissandolo sotto le specie di una scienza oggettiva, imporgli il suo «egitticismo». Al contrario, il senso storico sfuggirà alla metafisica per diventare lo strumento privilegiato della genealogia se non si orienta su nessun assoluto. Non deve essere altro che l’acutezza d’uno sguardo che distingue, distribuisce, disperde, lascia giocare le differenze ed i margini – una specie di sguardo dissociante capace di dissociarsi lui stesso e di eliminare l’unità di quest’essere umano che è supposto portarlo sovranamente verso il suo passato.
Il senso storico, ed è in questo che pratica la «wirkliche Historie», reintroduce nel divenire tutto ciò che si era creduto immortale nell’uomo. Noi crediamo alla perennità dei sentimenti? Ma tutti, e quelli soprattutto che ci sembrano i più nobili ed i più disinteressati, hanno una storia. Crediamo alla sorda costanza degl’istinti, ed immaginiamo che siano sempre all’opera, qui e là, ora come un tempo. Ma il sapere storico non ha difficoltà a smontarli, – a mostrare le loro trasformazioni, ad indivi¬duare i loro momenti di forza e di debolezza, ad identificare i loro regni alterni, a coglierne la lenta elaborazione ed i movimenti attraverso i quali, rivoltandosi contro se stessi, possono accanirsi nella propria distruzione. Noi pensiamo in ogni caso che il corpo almeno non ha altre leggi che quelle della fisiologia e che sfugge alla storia.
Errore di nuovo; esso è preso in una serie di regimi che lo plasmano; è rotto a ritmi di lavoro, di riposo e di festa: è intossicato da veleni — cibo o valori, abitudini alimentari e leggi morali insieme; si costruisce delle resistenze. La storia «effettiva» si distingue da quella degli storici per il fatto che non si fonda su nessuna costante: nulla nell’uomo nemmeno il suo corpo — è abbastanza saldo per comprendere gli altri uomini e riconoscersi in essi. Tutto ciò a cui ci si appoggia per rivolgersi verso la storia e coglierla nella sua totalità, tutto ciò che permette di descriverla come un paziente movimento continuo, — è tutto questo che si tratta di spezzare sistematicamente. Bisogna fare a pezzi ciò che permetteva il gioco consolante dei riconoscimenti. Sapere, anche nell’ordine storico, non significa «ritrovare», e ancor meno ritrovarci. La storia sarà «effettiva» nella misura in cui introdurrà il discontinuo nel nostro stesso essere; dividerà i nostri sentimenti; drammatizzerà i nostri istinti; moltiplicherà il nostro corpo e l’opporrà a se stesso. Non lascerà nulla al di sotto di sé che abbia la stabilità rassicurante della vita o della natura; non si lascerà trascinare da nessuna sorda caparbietà, verso un fine millenario. Scaverà ciò su cui si ama farla riposare, e si accanirà contro la sua pretesa continuità. Il sapere non è fatto per comprendere, è fatto per prendere posizione.
Si possono cogliere, a partire di qui, i caratteri propri al senso storico, quale Nietzsche l’intende, e che oppone alla storia tradizionale la «wirkliche Historie». Questa inverte il rapporto stabilito di solito fra l’irruzione dell’avvéniménto e la necessità continua. C’è tutt’una tradizione della storia (teologica o razionalista) che tende a dissolvere l’avvenimento singolare in una continuità ideale – movimento teleologico o connessione naturale. La storia effettiva» fa risorgere l’avvenimento in ciò che può avere d’unico e di puntuale. Avvenimento — bisogna intendere con ciò non una decisione, un trattato, un regno, o una battaglia, ma un rapporto di forze che s’inverte, un potere confiscato, un vocabolario ripreso e rovesciato contro quelli che lo usano, una dominazione che s’indebolisce, si allenta, si avvelena lei stessa, un’altra che fa il suo ingresso, mascherata. Le forze che sono in gioco nella storia noli obbediscono né ad una destinazione, né ad una meccanica, ma piuttosto al caso della lotta [Genealogia, II, 12].
Non si manifestano come le forme successive d’una intenzione primordiale; non prendono l’andamento di un risultato. Appaiono sempre nel rischio singolare dell’avvenimento. All’inverso del mondo cristiano, universalmente tessuto dal ragno divino, a differenza del mondo greco, diviso fra il regno della volontà e quello della grande stupidità cosmica, il mondo della storia effettiva non conosce che un solo regno, dove non c’è né provvidenza né causa finale, – ma solo
« le mani di acciaio della necessità che scuotono il bossolo dei casi» [Aurora, 130].
Pure, non bisogna comprendere questo caso come un semplice tirare a sorte, ma come il rischio sempre rilanciato dalla volontà di potenza che per padroneggiare ogni esito del ca¬so vi oppone il rischio d’un caso ancora più grande [Genealogia, II, 12] Sicché il mondo quale noi lo conosciamo non è la figura, semplice in fondo, dove tutti gli avvenimenti si sono ritirati nell’ombra perché vengano in rilievo a poco a poco i tratti essenziali, il senso finale, il valore primo ed ultimo; è al contrario una miriade d’avvenimenti aggrovigliati; se ci appare oggi «meravigliosamente variopinto, profondo di significato», è perché una «quantità di errori e di fantasie» [Umano, troppo umano, 16] gli ha dato vita e lo popola ancora in segreto. Noi crediamo che il nostro presente poggi su intenzioni profonde, necessità stabili, e domandiamo agli storici di convincercene. Ma il vero senso storico riconosce che viviamo senza punti di riferimento né coordinate originarie, in miriadi d’avvenimenti perduti.
C’è anche il potere d’invertire il rapporto del vicino e del lontano quali li stabilisce la storia tradizionale, nella sua fedeltà all’obbedienza metafisica. A questa infatti piace portare lo sguardo verso le lontananze e le altezze: le epoche più nobili, le forme più elevate, le idee più astratte, le individualità più pure. E per far questo, cerca d’accostarsi il più possibile, di portarsi ai piedi di queste vette, a costo d’aver su di esse la famosa prospettiva delle rane. La storia effettiva, al contrario, porta il suo sguardo su ciò che è più vicino, – il corpo, il sistema nervoso, gli alimenti e la digestione, le energie; rovista fra le decadenze; e se affronta le grandi epoche è col sospetto, — non acrimonioso ma lieto – d’un brulichio barbaro ed inconfessabile. Non teme di guardare in basso. Ma guarda dall’alto, — immergendosi per cogliere le prospettive, mostrare le dispersioni e le differenze, lasciare ad ogni cosa la sua misura ed intensità. Il suo movimento è inverso a quello che operano surrettiziamente gli storici: essi fingono di guardare il più lontano possibile, ma bassamente, strisciando, si avvicinano a questa lontananza piena di promesse (e in questo sono come i metafisici che non vedono, al di sopra del mondo, un al di là se non per prometterselo a titolo di ricompensa);da storia effettiva, invece, guarda quel che le sta più vicino ma per allontanarsene bruscamente e riafferrarlo a distanza (sguardo si-mile a quello del medico che s’immerge per diagnosticare e dire la differenza). Il senso storico è molto più vicino alla medicina che alla filosofia. «Storicamente e fisiologicamente», dice talvolta Nietzsche [Crepuscolo degli idoli, 44]. E in questo nulla di stupefacente, poiché, nell’idiosincrasia del filosofo si trova anche il disconoscimento sistematico del corpo, e
«la mancanza di senso storico, l’odio contro la rappresentazione stessa del divenire, l’egitticismo» la caparbietà a «mettere all’inizio ciò che viene alla fine», e a porre «le cose ultime dinanzi alle prime» [Crep. La ragione nella filosofia].
La storia ha di meglio da fare che essere la serva della filosofia e raccontare la nascita necessaria della verità e del valore; deve essere la conoscenza differenziale delle energie e dei cedimenti, delle sommità e dei crolli, dei veleni e degli antidoti. Deve essere la scienza dei rimedi.
Infine, ultimo aspetto di questa storia effettiva: non teme d’essere un sapere prospettico. Gli storici cercano nella misura del possibile di eliminare ciò che può tradire, nel loro sapere, il luogo da dove guardano, il momento in cui sono, il partito che prendono, – l’indicibile della loro passione. Il senso storico, come Nietzsche l’intende, sa di essere prospettiva, e non rifiuta il sistema della propria ingiustizia. Guarda sotto un certo angolo, e col deliberato proposito d’apprezzare, di dire si o no, di seguire tutte le tracce del veleno, di trovare il migliore antidoto. Piuttosto che fingere di mettersi discretamente in ombra dinanzi a quel che guarda, piuttosto che cercarvi la legge e sottometterle ognuno dei suoi movimenti, questo sguardo sa da dove guarda e cosa guarda. Il senso storico dà al sapere la possibilità di fare, nel movimento stesso della sua conoscenza, la propria genealogia. La «wirkliche Historie» effettua, nella verticale del luogo dove si trova, la genealogia della storia.
6. In questa genealogia della storia che abbozza a più riprese, Nietzsche lega il senso storico e la storia degli storici. L’uno e l’altra non hanno che un unico inizio, impuro e confuso. Sono nati contemporaneamente da uno stesso segno, in cui si può riconoscere tanto il sintomo d’una malattia che il germe d’un fiore meraviglioso ed è dopo che dovranno distinguersi. Seguiamo dunque senza differenziarli ancora la loro comune genealogia.
La provenienza (Herkunft) dello storico è inequivocabile: è di bassa estrazione. È una delle caratteristiche della storia di essere senza scelta: si fa un dovere di conoscere tutto, senza gerarchia d’importanza; di comprendere tutto, senza distinzione di livello; di accettare tutto, senza fare differenze. Nulla deve sfuggirle, ma nulla deve neppure essere escluso. Gli storici diranno che questa è una prova di tatto e di discrezione: con che diritto f-rebbero intervenire il loro gusto, quando si tratta degli altri, le loro preferenze quando si tratta di ciò che è realmente accaduto? Ma in realtà, è una totale assenza di gusto, una certa grossolanità che cerca di prendere dei modi familiari con quel che c’è di più elevato, e soddisfazione a ritrovare quel che è basso. Lo storico è insensib¬le ad ogni forma di disgusto: anzi, prende piacere proprio a quello che dovrebbe nausearlo. La sua apparente serenità si ostina a non riconoscere nulla di grande e a ridurre tutto al denominatore più debole. Nulla deve essere al di sopra di lui. Se ,desidera sapere tanto, e sapere tutto, è per sorprendere i segreti che sminuiscono. «Bassa curiosità»; Da dove viene la storia? Dalla plebe. A chi si rivolge? Alla plebe, E il discorso che le tiene rassomiglia molto a quello del demagogo:
«nessuno è più grande di voi — egli dice – e colui che avesse la presunzione di volervi superare, – voi che siete buoni — è cattivo»; e lo storico, che è il suo doppio, gli fa eco: «Nessun passato è più grande del vostro presente, e di tutto quel che nella storia può presentarsi sotto l’aspetto della grandezza, il mio sapere meticoloso vi mostrerà la meschinità, la cattiveria e la sventura».
La filiazione dello storico risale fino a Socrate. Ma questa demagogia deve essere ipocrita. Deve nascondere il suo singolare rancore sotto la maschera dell’universale. E proprio come il demagogo deve invocare la verità, la legge delle essenze e la necessità eterna, lo storico deve invocare l’obiettività, l’esattezza dei fatti, il passato inamovibile. Il demagogo è spinto al disconoscimento del corpo per ben fondare la sovranità dell’idea intemporale; lo storico è portato a mettere in ombra la propria individualità, perché gli altri entrino in scena e possano prendere la parola. Dovrà dunque accanirsi contro se stesso: far tacere le sue preferenze e sormontare i suoi disgusti, confondere la propria prospettiva per sostituirle una geometria fittizamente universale, mimare la morte per entrare nel l’egno dei morti, acquistare una semiesistenza senza volto e senza nome.
E in questo mondo dove avrà imbrigliato la sua volontà individuale, potrà mostrare agli altri la legge inevitabile d’una volontà superiore. Avendo cominciato a cancellare dal proprio sapere tutte le tracce di volere, ritroverà, dal lato dell’oggetto da conoscere, la forma d’un volere eterno. L’obiettività dello storico, è l’inversione dei rapporti fra volere e sapere, e, al tempo stesso, la fede necessaria nella Provvidenza, nelle cause finali e nella teleologia. Lo storico appartiene alla famiglia degli asceti.
«Non sopporto questa lubrica genia di eunuchi dinanzi alla storia, questo ammiccare civettante all’ideale ascetico; non sopporto gli stanchi e i finiti che si rivoltano nella saggezza e guardano obiettivamente» [Genealogia, III, 26].
Passiamo alla Entstehung della storia; il suo luogo è l’Europa del xix secolo: patria delle mescolanze e degl’imbastardimenti, epoca dell’uomo-mistura. Rispetto ai momenti di grande civiltà, eccoci come i barbari: abbiamo dinanzi agli occhi città in rovina, e monumenti enigmatici; siamo immobili dinanzi a mura spalancate; ci domandiamo quali dèi abbiano potuto abitare tutti questi templi vuoti. Le grandi epoche non avevano tali curiosità né si grandi rispetti; non si riconoscevano predecessori; il classicismo ignorava Shakespeare. La decadenza dell’Europa ci offre uno spettacolo immenso di cui i mo¬enti più forti si privano o fanno a meno. La caratteristica della scena dove ci troviamo oggi è di rappresentare un teatro; senza monumenti che siano opera nostra e che ci appartengano, viviamo fra una folla di scenari. Ma c’è di più; l’Europeo non sa chi è; ignora quali razze si so¬no mescolate in lui; cerca il ruolo che potrebbe essere il suo; è senza individualità. Si comprende allora perché il xix secolo è spontaneamente storico: l’anemia delle sue forze, le mescolanze che hanno cancellato tutti i suoi caratteri producono lo stesso effetto delle macerazioni dell’ascetismo; l’impossibilità di creare in cui è, la sua assenza d’opera, la necessità in cui si trova di poggiarsi su ciò che è stato fatto prima ed altrove, lo costringono alla bassa curiosità del plebeo.
Ma se tale è appunto la genealogia della storia, come può accadere ch’essa stessa divenga analisi genealogica? Come può non restare una conoscenza demagogica e religiosa? Come può, su questa stessa scena, cambiare di ruolo? Se non, soltanto, perché ci si impadronisce di essa, perché la si padroneggia, e la si rivolge contro la sua nascita. Tale è appunto la caratteristica dell’Entstehung: non è il risultato necessario di quel che, per tanto tempo, era stato preparato in anticipo; è la scena dove le forze si mettono a rischio e s’affrontano, dove accade ch’esse trionfino, ma dove le si può catturare. Il luogo d’emergenza della metafisica era la demagogia ateniese, il rancore plebeo di Socrate, la sua credenza nell’immortalità. Ma Platone avrebbe potuto impadronirsi di questa filo-sofia socratica, avrebbe potuto rivolgerla contro se stessa, – e probabilmente più d’una volta è stato tentato di farlo. La sua sconfitta è d’esser giunto a fondarla. Il problema del xix secolo è di non fare, per l’ascetismo popolare degli storici, quel che Platone ha fatto per quello di Socrate. Bisogna non fondarlo in una filosofia della st¬ria, disfarlo a partire da ciò che ha prodotto: rendersi padroni della storia per farne un uso genealogico, cioè un uso rigorosamente antiplatonico. È allora che il senso storico si libererà dalla storia sovrastorica.
7. Il senso storico comporta tre usi che si oppongono punto per punto alle tre modalità platoniche della storia. Uno è l’uso parodistico e distruttore di realtà, che si oppone al tema della storia-reminiscenza o riconoscimento; l’altro è l’uso dissociativo e distruttore d’identità che si oppone alla storia-continuità o tradizione; il terzo è l’uso sacrificale e distruttore di verità che si oppone alla storia-conoscenza. In ogni modo, si tratta di fare della storia un uso che la liberi per sempre dal modello, insieme metafisico ed antropologico, della memoria. Si tratta di fare della storia una contromemoria, – e di dispiegarvi di conseguenza una forma del tempo del tutto diversa.
Uso parodistico e, buffonesco, innanzitutto. A quest’uomo mescolato ed anonimo che è l’Europeo — e che non sa più chi sia, che nome debba portare – lo storico offre delle identità di ricambio, in apparenza meglio individualizzate e più reali della sua. Ma l’uomo del senso storico non deve ingannarsi su questo sostituto che gli si offre: non è che un travestimento. Volta a volta, si è offerto alla Rivoluzione il modello romano, al romanticismo l’armatura del cavaliere, all’epoca wagneriana la spada dell’eroe germanico; ma sono orpelli la cui irrealtà rinvia alla nostra propria irrealtà. Liberi coloro che vogliono di venerare queste religioni e di celebrare a Bayreuth la memoria di questo nuovo al di là; liberi di farsi rigattieri di identità vuote. Il buon storico, il genealogista, saprà quel che bisogna pensare di tutta questa mascherata. Non che la respinga per spirito di serietà; vuole al contrario spingerla all’estremo: vuol mettere in opera un gran carnevale del tempo, dove le maschere non cesseranno di ritornare. Piuttosto che identificare la nostra pallida individualità alle identità fortemente reali del passato, si tratta di irrealizzarci in tante identità riapparse; e riprendendo tutte queste maschere – Federico di Hohenstaufen, Cesare, Gesù, Dioniso, Zaratustra forse -, ricominciando la buffoneria della storia, riassumeremo come nostra irrealtà l’identità più irreale del Dio che l’ha condotta.
«Forse proprio a questo punto scopriamo altresì il regno della nostra invenzione, quel regno in cui anche noi possiamo essere ancora originali, per esempio come parodisti della storia universale o pagliacci d’iddio»[Al di là del bene e del male, 223]
Si riconosce qui il rovescio parodistico di quel che la seconda Inattuale chiamava la «storia monumentale » : storia che si dava per compito di restituire le grandi vette del divenire, di mantenerle in una presenza perpetua, di ritrovare le opere, le azioni, le creazioni secondo il monogramma della loro intima essenza. Ma nel 1874, Nietzsche rimproverava a questa storia, tutta votata alla venerazione, di sbarrare la strada alle intensità attuali della vita, alle sue creazioni. Si tratta al contrario, negli ultimi testi, di parodiarla per far risultare in modo vistoso ch’essa non è che una parodia. La genealogia, è la storia come carnevale concertato.
Altro uso della storia: la dissociazione sistematica della nostra identità. Poiché questa identità, pur debole, che cerchiamo di assicurare e di raccogliere sotto una maschera, non è che una parodia: il plurale l’abita, anime innumerevoli vi si disputano; i sistemi s’incrociano e si dominano gli uni gli altri. Quando si è studiata la storia, ci si sente felici,
«in contrapposizione ai metafisici… di albergare in sé non un’anima immortale, bensì molte anime mortali» [Il viandante e la sua ombra. Opinioni e sentnze diverse, 17] .
E in ognuna di queste anime, la storia non scoprirà un’identità dimenticata, sempre pronta a rinascere, ma un sistema complesso d’elementi a loro volta molteplici, distinti, e che nessun potere di sintesi domina:
«è un segno di cultura superiore il trattenere con consapevolezza e l’abbozzare una fedele immagine di certe fasi dello sviluppo, che gli uomini mediocri attraversano quasi senza accorgersene… Il risultato più immediato è che concepiamo i nostri simili come tali sistemi affatto determinati e come rappresentanti di culture diverse, vale a dire come necessari, ma mutevoli. E ancora: che nel nostro sviluppo possiamo staccare dei pezzi e presentarli come autonomi» [Umano, troppo umano, 274]
La storia, genealogicamente diretta, non ha per fine di ritrovare le radici della nostra identità, ma d’accanirsi al contrario a dissiparla; non si mette a cercare il luogo unico da dove veniamo, questa prima patria dove i metafisici ci promettono che faremo ritorno; essa si occupa di far apparire tutte le discontinuità che ci attraversano. Questa funzione è opposta a quella che voleva esercitare, secondo le Inattuali, «la storia antiquaria». Si trattava lì di riconoscere le continuità nelle quali si radica il nostro presente: continuità del suolo, della lingua, della città; si trattava
«coltivando con mano attenta ciò che dura fin dall’antichità», di «preservare le condizioni nelle quali si è nati per coloro che verranno dopo di noi» .
Ad una tale storia, le Inattuali obiettavano che rischia di prevenire ogni creazione in nome della legge della fedeltà. Un po’ più tardi – e già in Umano, troppo umano – Nietzsche riprende il compito antiquario, ma nella direzione completamente opposta. Se la genealogia pone a sua volta la questione del suolo che ci ha visti nascere, della lingua che parliamo o delle leggi che ci governano, è per mettere in luce i sistemi eterogenei che, sotto la maschera del nostro io, ci interdicono ogni identità.
Terzo uso della storia: il sacrificio del soggetto della conoscenza. In apparenza, o piuttosto secondo la maschera che porta, la coscienza storica è neutra, spoglia di ogni passione, accanita soltanto alla verità. Ma se essa s’interroga e se in modo più generale interroga ogni coscienza scientifica nella sua storia, scopre allora le forme e trasformazioni della volontà di sapere che è istinto, passione, accanimento inquisitorio, raffinatezza crudele, cattiveria; scopre la violenza dei partiti presi: partito preso contro la felicità ignorante, contro le illusioni vigorose attraverso le quali l’umanità si protegge, partito preso per tutto quel che c’è di pericoloso nella ricerca e d’inquietante nella scoperta. L’analisi storica di questo grande volere-sapere che percorre l’umanità fa dunque apparire insieme che non c’è conoscenza che non riposi sull’ingiustizia (che non c’è dunque, nella conoscenza stessa, un diritto alla verità o un fondamento del vero) e che l’istinto di conoscenza è cattivo (che c’è in lui qualcosa di omicida, e che non può, non vuole niente per la felicità degli uomini). Prendendo, come fa oggi, le sue dimensioni più ampie, il volere-sapere non si accosta ad una verità universale; non dà all’uomo un’esatta e serena padronanza della natura; al contrario, non cessa di moltiplicare i rischi; dappertutto fa crescere i pericoli; abbatte le protezioni illusorie; disfa l’unità del soggetto; libera in lui tutto ciò che si accanisce a dissociarlo e a distruggerlo. Il sapere, invece di distaccarsi a poco a poco dalle sue radici empiriche, o dai primi bisogni che l’hanno fatto nascere, per divenire pura speculazione sottomessa alle sole esigenze della ragione, invece di essere legato nel suo sviluppo alla costituzione ed all’affermazione di un soggetto libero, porta con sé un accanimento sempre più grande; la violenza istintiva si accelera in lui e si accresce; le religioni un tempo chiedevano il sacrif- ciò del corpo umano; il sapere chiama oggi a fare esperienze su noi stessi, al sacrificio del soggetto della conoscenza.
«In noi la conoscenza s’è mutata nella passione che non teme nessun sacrificio, e in fondo di nulla ha paura se non del suo proprio estinguersi… Forse potrà anche darsi che l’umanità perisca per questa passione della conoscenza… E infine, se l’umanità non trova per una passione la sua distruzione, la troverà per una sua debolezza. Che cosa si preferisce? È questo il problema principale. Vogliamo per essa un epilogo nel fuoco e nella luce, oppure nella polvere? » [Aurora, 429]
Ai due grandi problemi che si sono diviso il pensiero filosofico del xix secolo (fondazione reciproca della verità e della libertà, possibilità d’un sapere assoluto), questi due temi maggiori trasmessi da Fichte ed Hegel, è tempo di sostituire il tema che
«potrebbe perfino appartenere alla costituzione fondamentale dell’esistenza il fatto che chi giunge alla perfetta conoscenza incontri l’annullamento» [Al di là del bene e del male, 39] .
Il senso di questa critica non è che la volontà di verità è limitata dalla finitezza della conoscenza; ma che essa perde ogni limite, ed ogni intenzione di verità nel sacrificio che deve fare del soggetto della conoscenza.
«E forse potrebbe pur sempre ogni altra aspirazione essere soppiantata da un solo enorme pensiero, cui arridesse la vittoria sul più vittorioso, – dal pensiero, cioè, dell’umanità autosacrificantesi. Già si potrebbe giurare che se mai apparisse all’orizzonte la costellazione di questo pensiero, la conoscenza della verità resterebbe l’unica immensa meta alla quale sarebbe proporzionato un tale sacrificio, poiché per essa nessun sacrificio è troppo grande. Frattanto non è stato ancora mai posto il problema » [Aurora, 45].
Le Inattuali parlavano dell’uso critico della storia: si trattava di trascinare il passato in giustizia, di tagliare le sue radici col coltello, di cancellare le venerazioni tradi-zionali, per liberare l’uomo e non lasciargli altra origine che quella in cui vuole riconoscersi. A questa storia critica, Nietzsche rimproverava di staccarci da tutte le nostre fonti reali e di sacrificare il movimento stesso della vita alla sola preoccupazione della verità. Vediamo che un po’ più tardi Nietzsche riprende a suo conto quello che rifiutava allora. Lo riprende, ma a tutt’altro fine. Non si tratta più di giudicare il nostro passato in nome d’una verità che il nostro presente sarebbe solo a possedere; si tratta di rischiare la distruzione del soggetto della conoscenza nella volontà, indefinitamente dispiegata, di sapere.
In un certo senso la genealogia ritorna alle tre modalità della storia che Nietzsche riconosceva nel 1874. Vi ritorna al di là delle obiezioni che egli allora faceva loro in nome della vita, del suo potere di affermare e di creare. Ma vi ritorna trasformandole : la venerazione dei monumenti diventa parodia; il rispetto delle antiche continuità diventa dissociazione sistematica; la critica delle ingiustizie del passato in nome della verità che l’uomo detiene oggi diventa distruzione del soggetto della conoscenza attraverso l’ingiustizia propria alla volontà di sapere.
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