La verità è un fatto di giustizia, non solo di forma logica.
[…] quando un filosofo si rivolge a un sovrano, a un tiranno, e gli dice che la sua tirannide è pericolosa e spiacevole, perché la tirannide è incompatibile con la giustizia, in quel caso il filosofo dice la verità, crede di stare dicendo la verità, e ancor più, corre un rischio (giacché il tiranno può adirarsi, può punirlo, può esiliarlo, può ucciderlo). Fu questa esattamente la situazione in cui si trovò Platone con Dionigi di Siracusa – sulla quale ci sono interessantissimi riferimenti nella Lettera settima di Platone, e anche nella Vita di Dionigi di Plutarco.Quindi, come vedete, il parresiastes è qualcuno che corre un rischio. Naturalmente, non è sempre il rischio della vita. Quando, per esempio, qualcuno vede un amico che sta commettendo un errore e rischia di incorrere nelle sue ire dicendogli che sta sbagliando, costui sta agendo da parresiastes. In tal caso, certo, non rischia la vita, ma può irritare l’amico coi suoi rilievi, e conseguentemente l’amicizia può risentirne. Se, in una discussione politica, un oratore rischia di perdere la sua popolarità perché la sua opinione è contraria a quella della maggioranza, o perché può condurre ad uno scandalo politico, egli sta usando la parresia. La parresia dunque è legata al coraggio di fronte al pericolo: essa richiede propriamente il coraggio di dire la verità a dispetto di un qualche pericolo. E nella sua forma estrema, dire la verità diventa un «gioco» di vita o di morte». Michel Foucault, Discourse and Truth. The Problematization of Parresia, 1985; trad. it. Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma, 1996, p. 7.
Umberto Galimberti, Si può sempre dire la verità e quali doveri essa ci impone? Non è in gioco solo la sua forma logica, ma anche la capacità e la forza di esibirla
Un grande capitolo di un ambizioso progetto. C’è una virtù che ha fatto la sua comparsa nel V secolo avanti Cristo e di cui si sono perse le tracce nel V secolo dopo Cristo. Il suo nome è parresia. Il suo significato è: “Dire la verità”.
Ce ne dà notizia Michel Foucault in una serie di conferenze tenute all’Università californiana di Berkeley nel 1983, un anno prima di morire. Oggi queste conferenze sono raccolte in un libro: Discorso e verità nella Grecia antica (Donzelli) aperto da un’ottima introduzione di Remo Bodei che ne parla come di un
libro sulla libertà di parola. Un grande frammento, in sé compiuto, di un vasto e ambizioso progetto a cui Foucault ha dedicato i suoi ultimi anni di vita affrontando, contestualmente, il problema del sorgere dell’ attitudine critica nelle filosofie dell’ Occidente e quello di un’etica della verità”.
Verità è la parola chiave della filosofia, è il problema intorno a cui tutta la ricerca filosofica si affaccenda dal giorno in cui cui nacque prendendo congedo dal mito e dalla religione. Anche la religione, infatti, ritiene di dire la verità, ma il fondamento della sua verità risiede nell’autorità di chi la enuncia, mentre la filosofia cerca una verità capace di stare in piedi da sola, senza il conforto di alcuna autorità.
I filosofi greci chiamarono questa loro verità episteme, una parola che viene resa in latino con scientia e in italiano con scienza. Ma, così tradotta, la parola perde il suo significato originario che è poi quello che risulta dal verbo istemi che vuol dire “sto” e da epi che vuol dire “su”. Episteme vuol dire allora “ciò che sta su”, ciò che si impone da sé, e che quindi non ha bisogno di appoggiarsi all’autorità di chi parla come accade nel linguaggio religioso, né alla persuasione seduttiva a cui ricorre il dire retorico, né alla mozione degli affetti come accade al linguaggio poetico. Ma intorno alla “verità” sorgono subito due problemi: il primo è quello di stabilire i criteri che presiedono alle affermazioni vere e ai giudizi corretti e a ciò provvede la “logica“, il secondo è quello di dire la verità, dove in gioco non è la correttezza formale del discorso, ma il diritto o il dovere di dirlo. Qui sorgono subito questioni del tipo: chi è in grado di dire la verità? Quali requisiti deve avere chi se ne sente abilitato? Su quali argomenti è importante dire la verità? Sulla natura? Sulla città? Sui costumi? Sull’ uomo? Quali sono gli effetti positivi o negativi per i governanti o per i governati? Che rapporto c’è tra dire la verità e l’esercizio del potere?
Il problema qui non è di stabilire come essere sicuri che una determinata proposizione sia vera (su ciò ha insistito la tradizione filosofica occidentale, producendosi in quella che Foucault chiama “analitica della verità”), ma di sapere chi è capace di dire la verità. Che importanza ha per il singolo e la società avere individui capaci di dire la verità? Come fare per riconoscerli? Dove in gioco non è la struttura logica della verità, ma la capacità e la forza di dirla. In tutto questo Foucault vede l’origine di ciò che in Occidente si chiama critica e che ha in Socrate il suo primo grande esempio.
Qui la filosofia si salda subito con la politica, l’una e l’altra nate insieme in quella Grecia del V secolo avanti Cristo, quando si contrappone alla parola autoritaria il dialogo filosofico in cui si confrontano le opinioni dei partecipanti, e alla tirannide la democrazia dove nell’agorà si confrontano le opinioni dei cittadini. La democrazia ateniese fu definita in modo del tutto esplicito come una costituzione (politeia) che garantisce: l’isegoria che è il diritto di parola, l’isonomia che è il diritto per tutti di partecipare all’esercizio del potere, e la parresia che è il diritto-dovere di dire la verità.
La parola parresia compare per la prima volta in Euripide (V secolo avanti Cristo), ricorre in tutto il mondo letterario greco fin nei testi patristici del V secolo dopo Cristo, e per l’ultima volta in Giovanni Crisostomo. Da allora se ne perdono le tracce e, con le tracce, anche il coraggio di “dire la verità”. Bravo chi corre il rischio di essere punito. Ma perché Foucault parla di coraggio? Gli antichi greci avevano stabilito che per dire la verità occorre “dire tutto” ciò che si ha in mente. La stessa etimologia della parola parresia rinvia a pan (tutto) e rhema (ciò che viene detto). Nella parresia si suppone che non ci sia differenza tra ciò che uno pensa e ciò che dice. L’ esatto contrario della virtù di Ulisse che i greci chiamavano phronesis e noi, scorrettamente, ma forse coerentemente con la nostra indole, traduciamo con astuzia [avrei contrapposto la parresia alla “metis” di Ulisse, piuttosto che alla phronesis, NDR.]
Ma dire tutto non sempre è un pregio. Platone ad esempio ritiene pericoloso per una buona democrazia rivolgersi ai propri concittadini e dir loro qualunque cosa anche la più stupida o la più offensiva che viene in mente. Questo cattivo uso della parresia è menzionato di frequente nella letteratura cristiana dove si indica, come rimedio, il silenzio. Per un corretto impiego della parresia è necessario che chi vi ricorre abbia delle qualità morali e soprattutto il coraggio di correre un rischio o un pericolo conseguente a ciò che dice. Buoni saranno allora quei consiglieri del sovrano se, dicendo la verità, corrono il rischio di essere puniti, esiliati o uccisi, così buono sarà quel governante che, dicendo ciò che ha davvero in mente, rischia di perdere la popolarità, la maggioranza, il consenso.
Usare la parresia, dire la verità, quando non diventa un gioco di vita e di morte come nel caso di Socrate, resta pur sempre una sfida al potere in cui Foucault vede l’origine dell’ esercizio della critica. Per il greco antico questo esercizio è autentico solo quando chi lo esercita corre qualche rischio, in caso contrario è cattiva parresia, un facile gioco in cui ciò che si esprime non è tanto la verità quanto la propria irritazione che, non prevedendo costi, può essere detta gratuita. Ma ognuno sa, che oltre agli interlocutori esterni, ciascuno ha un interlocutore interno a cui dire la verità. Qui la critica diventa “autocritica”, capacità di dire la verità a se stessi, di scandagliare la propria ombra, le cantine delle propria anima, in linea con il messaggio dell’ oracolo di Delfi: “Conosci te stesso”. Forse tutte le pratiche psicoanalitiche, con la complicazione dei loro linguaggi, non hanno ancora raggiunto la semplicità di questo messaggio a cui ci conduce il buon uso della parresia: dire a se stessi, almeno a se stessi, la verità.
Si concentrano così in una parola semplice una serie di virtù morali e civili a cui dovrebbero attenersi gli abitanti della città e soprattutto chi li governa. Chi pratica la parresia dimostra infatti di avere uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, una certa relazione con la vita attraverso il rischio e il pericolo, una comunicazione autentica con gli altri e con se stessi attraverso la critica e l’ autocritica, un significativo rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere di dire la verità. Nasce allora quel cittadino che è libero perché sceglie di parlar franco invece di irretire l’interlocutore con gli inganni della persuasione, sceglie la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio della vita invece della sicurezza, la critica invece dell’ adulazione, il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’ apatia morale. Ma da noi vincono le mille astuzie di Odisseo. Chissà se abbiamo perso queste virtù perché abbiamo perso la parola “parresia”, o se abbiamo perso la parola perché non si riferiva più a nulla o a nessuno. Nel gioco intrecciato tra “le parole e le cose”, a cui Foucault ci ha abituato, parresia segnala un nodo. Provare a scioglierlo potrebbe migliorare la relazione tra gli uomini e la loro condizione civile. Ma non abbiamo la minima speranza. Da noi ha fatto scuola l’Odissea con il resoconto delle mille astuzie del suo eroe, non L’apologia di Socrate con la parresia del suo nobile testimone.
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