Vissuto interamente nell’800, il genio di Nietzsche ha condizionato potentemente il 900 con la sua lettura dell’Occidente e i grandi temi e concetti della morte di Dio, dell’Übermensch (il superuomo, nel senso dell’oltrepassamento di sé), della volontà di potenza e dell’eterno ritorno dell’uguale.
Indice
1. La fine, la grandezza, la strumentalizzazione e la rilettura
2. La nascita della tragedia
2.1 L’apollineo e il dionisiaco
3. Socrate e la morte della tragedia
4. Il prospettivismo
5. Le Considerazioni inattuali
5.1 La seconda Inattuale: Sull’utilità e il danno della storia per la vita
5.2 Terza e quarta Inattuale: Schopenhauer come educatore, Richard Wagner a Bayreuth
6.La filosofia del sospetto.Il Nietzsche illuminista di Umano, troppo umano
7. La filosofia del mattino
7.1 La morte di Dio
7.2 La diagnosi del nichilismo dell’Occidente
8. Il pensiero meridiano e i temi di Zarathustra
8.1 Il superuomo
8.2 L’eterno ritorno dell’uguale
9. La volontà di potenza
10. Filosofare col martello
Wikiradio, I biglietti della follia e la biografia filosofica di Nietzsche raccontati da Maurizio Ferraris
Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme – una crisi quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato.
Io per primo ho scoperto la verità, proprio perché per primo ho scoperto la menzogna come menzogna, l’ho fiutata […] Il mio genio è nelle mie narici. Io vengo a contraddire come mai si è contraddetto, e nondimeno sono l’opposto di uno spirito negatore. Io sono un lieto messaggero […] solo a partire da me ci sono nuove speranze [Nietzsche, Ecce homo].
1. La fine, la grandezza, la strumentalizzazione e la rilettura
Quando Friedrich Nietzsche (1844-1900) muore, il 25 agosto 1900, ha alle spalle undici anni di silenzio trascorsi nella follia, dopo la crisi che lo aveva colto a Torino, il 3 gennaio 1889 quando, in lacrime, aveva abbracciato un cavallo frustato dal suo cocchiere, gridando:
Tu, disumano massacratore di questo destriero.
Un estremo gesto di compassione, prima del buio in cui si immerse a causa dell’aggravamento del tumore cerebrale di cui soffriva o, secondo altri, di una crisi maniaco-depressiva o ancora, dell’enorme sforzo creativo che aveva profuso nonostante i problemi di salute di cui soffriva.
Nei mesi che precedono e seguono il crollo torinese, Nietzsche scrive in presa all’esaltazione fino alla lettera rivolta al vecchio collega di Basilea Jacob Burckhardt in cui si dichiara creatore del mondo, dopo la quale questi chiede al giovane Overbeck di andare a prendere l’amico impazzito a Torino.
Vissuto interamente nell’800, il genio di Nietzsche ha condizionato potentemente il 900 con la sua lettura dell’Occidente e i grandi temi e concetti della morte di Dio, dell’Übermensch (il superuomo, nel senso dell’oltrepassamento di sé), della volontà di potenza e dell’eterno ritorno dell’uguale.
Il suo vitalismo e gli aspetti più elementari della sua critica della modernità sono stati usati dal nazismo e inclusi nella visione hitleriana del mondo, grazie alla manipolazione dei frammenti inediti operata dalla sorella Elisabeth, volta a presentarlo come un profeta della rinata razza degli eroi e dell’elezione del popolo tedesco.
La rilettura critica dell’opera di Nietzsche inizia già alla fine della seconda guerra mondiale grazie a una nuova edizione in lingua originale e a traduzioni accurate tra le quali quella italiana di Giorgio Colli e Mazzino Montinari.
Nietzsche è stato il grande decostruttore e demistificatore della morale e dell’ideale, il filosofo del sospetto, il pensatore inattuale, genealogista, critico, scopritore dell’origine di tutto ciò che è umano.
Nato nel 1844 a Röcken, un villaggio della Sassonia prussiana, nei pressi di Lipsia, da un pastore protestante che lo lascia prematuramente orfano, è formatosi nel prestigioso collegio di Pforta grazie a una borsa di studio, dopo il quale studia teologia per un anno (1864). Nello stesso periodo legge Vita di Gesù in cui David Strauss offriva una lettura della religione come mito e di Gesù come simbolo dell’umanità che sembra colpirlo profondamente. Scrivendo alla sorella, profondamente devota, della perdita della fede, nota:
se si vuol lottare per la pace dell’anima, si deve credere; ma se vuoi esser un devoto della verità, allora devi domandare.
Nel 1865, abbandonata la facoltà di teologia, si iscrive all’Università di Lipsia per continuare a seguire le lezioni di filologia classica di Friedrich Ritschl, già suo insegnante a Bonn. La sua prima grande opera, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, del 1871, è frutto di questo impegno filologico che si intreccia da subito con quello filosofico.
2. La nascita della tragedia
I primi cenni della critica all’Occidente, inteso come età di decadenza e di crisi sono presenti già ne La nascita della tragedia dallo spirito della musica, frutto degli studi classici intrapresi da Nieztsche che nel 1869, grazie all’appoggio del proprio maestro, Friedrich Wilhelm Ritschl, a venticinque anni diviene professore di filologia a Basilea.
L’opera contiene la contestazione, già spiccatamente filosofica, dell’immagine classicista della grecità, caratterizzata da misura, equilibrio e serenità. Un’immagine falsa, secondo Nietzsche, perché fissa l’antichità nel momento della sua decadenza, il V secolo, quando lo spirito greco ha ormai smarrito le «radici vitali» delle origini.
Il tema della vita è ripreso dal giovane Nietzsche dalla filosofia di Schopenhauer, dal quale trae l’idea di un mondo governato dal principio irrazionale della volontà di vita. Alla noluntas e all’ascesi schopenhaueriane, Nietzsche tuttavia preferisce l’accettazione della vita e del dolore degli eroi della tragedia greca, priva di ogni soluzione consolatoria di ordine metafisico o religioso.
La lettura nietzscheana della tragedia, intrecciata ai grandi temi del vitalismo romantico, supera così il pessimismo schopenhaueriano e contesta alla radice la visione neoclassica di stampo winckelmanniano.
2.1 L’apollineo e il dionisiaco
Conosco il piacere del distruggere in misura della mia forza di distruzione-
– nell’una e nell’altra cosa obbedisco alla mia natura dionisiaca
che non riesce a distinguere tra il fare no e dire si.
Io sono il primo immoralista,
perché sono il distruttore par excellence.
Ecce homo
L’arte costituisce dunque il primo approccio di Nietzsche alla comprensione della realtà che si lascia spiegare filosoficamente attraverso la categoria del tragico.
Nietzsche sostiene infatti che la tragedia è la più alta espressione della civiltà ellenica perché in essa si incontrano le due grandi forze che animano lo spirito greco, il dionisiaco e l’apollineo nei quali acquista visibilità il contrasto primigenio degli opposti (caos e ordine, nascita e morte, ascesa e decadenza, generazione e corruzione) che è il fondamento ontologico della vita [qui un brano da La filosofia nell’epoca tragica dei greci].
L’arte greca ne mostra la dialettica. Dioniso è il dio della notte e dell’ebbrezza, lo strato oscuro dell’istinto e della vita in cui ciascuno annega e perde la propria individualità, come nei riti orgiastici che conducono alla perdita di sé, al con-fusione nell’indistinto (lo stato che precede l’individuazione), all’estasi e allo star fuori di sé, è il caotico e lo smisurato, l’eccesso, il furore. Esso è dunque impulso di liberazione e di abbandono, la sua forma espressiva è la musica.
L’uomo greco della tragedia che precede la nascita della filosofia, risponde al dionisiaco con l’invenzione degli dèi, con il mondo della quiete e della chiarezza, della serenità olimpica. Allo smisurato e caotico, risponde dunque con l’invenzione dell’arte, con la misura e la forma che argina il dionisiaco, con Apollo che lo trattiene, lo ricompone, lo sublima.
Nella tragedia greca, apollineo e dionisiaco si fondono nella perfetta sintesi costituita dal canto e dalla danza del coro e dall’azione drammatica.
All’immagine della grecità fondata sull’esaltazione dell’armonia e della compostezza, Nietzsche oppone dunque quella radicalmente diversa nella quale questi elementi apollinei sono in profonda tensione con la dimensione caotica e irrazionale del dionisiaco che, nella Nascita della tragedia ha il ruolo prevalente.
La sensibilità greca avverte con profondità mai più raggiunta la tragicità della vita e della condizione umana: la limitatezza e la finitezza dell’esistenza individuale, il suo essere momento di un ciclo di vita e di morte sul quale l’uomo non ha alcun potere.
Il gioco dialettico di apollineo e dionisiaco esprime dunque, innanzitutto, il gioco di forze che agisce all’interno di ogni uomo: l’apollineo è l’illusione, il sogno che rende accettabile la vita racchiudendola in forme stabili e armoniche.
Nel dionisiaco invece, si rivela all’uomo tutto l’abisso della sua condizione in cui la vita erompe qual è, gioco crudele di nascita e morte, esperienza del caos, del perdersi di ogni forma stabile e definita nel flusso della vita.
In esso vi è dunque dolore, la tragedia è infatti dolore. Eppure, nello stesso tempo è anche gioia, perché Dioniso è forza generatrice, vita che si afferma continuamente al di là della morte.
Nel dionisiaco l’uomo infrange tutti i divieti e le barriere imposti dalla cultura e, secondo un motivo fondamentale di tutta la filosofia nietzscheana, «dice si alla vita»: si libera cioè delle illusioni e si accorda con la sua natura che è forza, vitalità.
3. Socrate e la morte della tragedia
Socrate fu un equivoco; tutta la morale del miglioramento, anche quella cristiana fu un equivoco […]. La più viva luce del giorno, la razionalità ad ogni costo, la vita luminosa, fredda, cauta, cosciente, senza istinto, in contrapposizione agli istinti, fu essa stessa soltanto una malattia, un’altra malattia – e non fu assolutamente un ritorno alla “virtù”, alla “salute”, alla “felicità” […]. “Socrate non è un medico”, disse piano tra sé e sé:
“qui il medico è solo la morte […] Socrate fu soltanto per lungo tempo malato […]”.
Il crepuscolo degli idoli. Come fare filosofia col martello
Lo spirito tragico dei greci e l’intreccio indistinguibile di dionisiaco e apollineo che fu di Eschilo e di Sofocle è il vertice dell’umanità e della grecità, secondo Nietzsche.
Con Socrate e la vittoria dello spirito scientifico, della spiegazione e della ricerca inizia, invece, la decadenza dell’Occidente. Socrate è, infatti, l’uomo che spiega, che chiede spiegazioni. Egli incarna l’istanza intellettualistica e moralistica che pone il tema del bene in sé, della giustizia e della virtù in sé, che chiede l’essenza, il “che cos’è”, è l’uomo della ragione che imbriglia la vita e la morale.
Socrate inaugura l’istanza della spiegazione e della verità e la volontà della conoscenza e della scienza di cogliere la struttura della realtà. L’Occidente abita ancora pienamente e il cono di luce della domanda socratica e della distinzione tra bene e male; con Socrate, quindi con il cristianesimo inizia l’Occidente come nemico della vita.
La tragedia muore, per Nietzsche, nel momento in cui il pensiero greco, con Socrate, pretende di racchiudere in concetti l’esistenza, imponendo così alla vita il primato della ragione. «La tragedia muore suicida» per mano di Euripide, «maschera» che non rivela più né Apollo né Dioniso, ma un nuovo demone, Socrate.
L‘età di Euripide e Socrate è dunque un’età di decadenza, nella quale la cultura greca che aveva espresso con Eraclito ed Eschilo la straordinaria capacità di cogliere la tragicità dell’essere, perde il suo legame con le proprie origini, chiudendo l’epoca di Dioniso ed espellendo il dionisiaco dall’orizzonte della cultura occidentale.
All’uomo tragico si sostituisce così l’uomo teoretico che, con la potenza della ragione e della tecnica, costruisce un mondo di apparenze, sospinto da un bisogno di rassicurazione e da quell’esigenza di rendere tollerabile il disordine della vita che fa dire a Socrate che
al giusto non può accadere niente di male.
Il tragico è però una componente ineliminabile della vita. Per questo il conflitto tra concezione tragica e teoretica della vita sopravvive al tentativo compiuto dal pensiero occidentale, da Platone e dal cristianesimo in poi, di costruire “filosofie antitragiche”, finalizzate ad occultare il tragico imponendo un ordine razionale alle cose e ipostatizzando essenze e strutture metafisiche. Il fallimento di questa pretesa è visibile per Nietzsche in alcuni elementi della cultura del suo tempo, quale il dramma musicale di Wagner.
Quale filologo, il giovane Nietzsche continua ad occuparsi dei classici greci. Tra il 1872 e il 1875 scrive diversi saggi, tra i quali La filosofia nell’età tragica dei greci (1873) nel quale postula l’esistenza, in continuità con La nascita della tragedia, di una frattura sostanziale tra i presocratici e Socrate e Platone.
Come dunque la tragedia morì nel socratismo di Euripide, così la filosofia tragica delle origini si spense nella dialettica socratico-platonica che sostituì al pessimismo eroico dei presocratici l’ottimismo morale della ragione. In Eraclito, particolarmente, Nietzsche ritiene di vedere la radice del proprio pensiero: il primato del divenire sull’essere, il flusso del tempo come dimensione vera della realtà, l’unità degli opposti come unità conflittuale di dionisiaco e apollineo. Il filosofo ritrova se stesso e la stessa intuizione dell’innocenza del divenire, particolarmente nel frammento eracliteo
il tempo è un fanciullo che gioca a dadi col mondo.
4. Il prospettivismo
Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: “ci sono soltanto i fatti”,
direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni.
Noi non possiamo constatare nessun fatto in sé.
Frammenti postumi
I due filosofi più dionisiaci sono, per Nietzsche, Schopenhauer e Kant perché hanno compreso che il mondo dei fenomeni è una produzione del soggetto: essi sono quindi i primi demitizzatori della conoscenza che trova se stessa nelle cose, come accede per la morale con principi che l’uomo stesso ha creato e non esistono fuori di lui.
Nell’estate 1873 scrive Su verità e menzogna in senso extramorale, nel quale sviluppa una critica al concetto scientifico e postitivistico di verità che anticipa alcuni temi della critica novecentesca al linguaggio: una convenzione la cui essenza non è quella di rappresentare la natura delle cose.
Nietzsche si muove sul terreno di Protagora – l’uomo è misura di tutte le cose – e Gorgia, per cui il reale non è altro che un proliferare di immagini che il linguaggio produce a scopo persuasivo. Ciò che chiamiamo verità, di conseguenza, è solo un «gioco di dadi» concettuale determinato dalle infinite interpretazioni del mondo prodotte dall’intelletto umano. La verità è dunque solo il provvisorio configurarsi di opinioni ed immagini sulla base di criteri, interessi e rapporti di forza determinati.
Emerge già in questa fase il cosiddetto prospettivismo di Nietzsche, uno dei motivi conduttori di tutto il suo pensiero, per il quale, contro il mito positivistico della scienza obiettiva in quanto scienza di fatti,
non ci sono fatti, ma solo interpretazioni.
Non esistono né verità, né falsità, solo prospettive differenti della realtà, non valutabili a partire da un criterio oggettivo di preferibilità.
Non esiste dunque conoscenza al di fuori della pluralità dei punti di vista che gli uomini aprono sul mondo: conoscere è infatti valutare, sono i valori a stabilire
ciò che viene tenuto per vero.
Ciò non deve essere confuso con un generico relativismo, in cui ogni posizione si equivale. Come osserverà in Ecce homo, una delle sue ultime opere, la trasvalutazione di tutti i valori implica infatti l’atto con cui
l’umanità prende la decisione suprema su se stessa.
Si tratta dell’«atto» dell’oltre-umanità che, compiuta l’opera distruttiva dell’immoralista e sgomberato il campo dalla «verità» (metafisica e morale), apre lo spazio della scelta in cui si scopre genealogista dei valori e legislatore del mondo.
Non occorre perciò cambiare il mondo, come voleva Marx, basta plasmarlo, rimodellarlo sulla base della propria hybris.
Nietzsche giunge così a mettere radicalmente in questione i concetti di soggetto e di coscienza, concetti prospettici tra gli altri, privi dei caratteri di unità e ultimità che la filosofia ci ha trasmesso da Cartesio a Kant – il soggetto è un «effetto di superficie», dirà, con una formula ripresa quasi letteralmente da Foucault nel celebre finale de Le parole e le cose.
Riprendendo un tema già spinoziano e leibniziano, Nietzsche sottolinea che ogni rappresentazione del soggetto deriva da un conatus o appetitus nei confronti dell’oggetto, di cui il soggetto non è necessariamente consapevole, visto che dal punto di vista biologico – cioè della conservazione della vita – la coscienza è un accidens della rappresentazione stessa.
L’io cosciente non è infatti, schopenhauerianamente, che una «piccola ragione», davanti alla «grande ragione» del corpo, multiforme attività di rappresentazione e volizione di cui la coscienza non percepisce che la minima parte.
5. Le Considerazioni inattuali
Tra il 1873 e il 1876 Nietzsche pubblica le quattro Considerazioni inattuali nelle quali sviluppa una critica della cultura del suo tempo, prefiggendosi di esaltare le figure controcorrente capaci di riaffermare lo spirito della tragedia: Schopenhauer e Wagner.
Per esaltare la loro inattualità, Nietzsche costruisce una critica capillare allo sfondo su cui queste due figure si stagliano, a partire dalla falsa critica alla religione del filisteo colto, quel David Strauss la cui Vita di Gesù lo aveva colpito durante il suo unico anno di studi teologici, ma che ora, davanti all’ipocrisia delle confessioni esposte in La vecchia e la nuova fede, addita come il codardo che annacqua la critica appena posta, la stempera, la rende conforme.
Gradisce forse, signor Maestro, fondare la religione del futuro? «Non mi sembra ancora giunto il momento». «Non mi sfiora neppure l’idea di voler distruggere qualche Chiesa.»
‑ Ma perché no, signor Maestro? solo questione di poterlo fare. Del resto, a esser sinceri, Lei stesso crede di poterlo fare […] Dunque non neghi più: il fondatore di religioni è riconosciuto, la nuova strada comoda e piacevole verso il paradiso straussiano è costruita. Solo della carrozza in cui vuole condurci, Ella, uomo modesto, non è del tutto soddisfatto; alla fine Ella ci dice «che la carrozza, alla quale i miei cari lettori si sono dovuti affidare con me, non voglio affermare che risponda a tutti i requisiti» (p. 367): «ci si sente tutti pesti».
Ah, Lei vuol udire qualcosa di amabile, elegante fondatore di religioni. Invece noi vogliamo dirLe qualcosa di sincero. Anche se il Suo lettore si prescriverà le 368 pagine del Suo catechismo religioso in modo da leggerne una pagina al giorno per un anno, dunque in dosi minime, noi crediamo comunque che finirà per sentirsi male: per la rabbia che non si veda un effetto. Piuttosto farne una bella bevuta, possibilmente tutto in una volta! come dice la ricetta per ogni libro di attualità. Così la bevanda non potrà nuocere, e il bevitore non si sentirà affatto male e arrabbiato, bensì allegro e di buon umore, come se nulla fosse accaduto, nessuna religione distrutta, nessuna strada mondiale costruita, nessuna confessione fatta ‑ questo sì che è un effetto! Medico, medicina e malattia, tutto dimenticato! [Prima Inattuale, David Strauss – L’uomo di fede e lo scrittore, 1873].
5.1 La seconda inattuale: Sull’utilità e il danno della storia per la vita
Dopo la critica allo scientismo positivista sviluppata in Verità e menzogna in senso extramorale, nella seconda Inattuale intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita( 1874) il filosofo attacca così un altro dei tratti dominanti della cultura ottocentesca: lo storicismo, atteggiamento in cui si esprime un legame eccessivo con il passato e l’atrofizzazione di ciò che in ogni cultura è attivo, creativo e nuovo, e la storiografia, produzione saggistica su tutto ciò che accade che si pretende inquadrata in una prospettiva storica.
Lo storicismo pretende che lo sguardo dal passato sul presente sia necessario per comprendere la realtà, perché la realtà si disvela e rivela storicamente. La storiografia è invece una produzione culturale velleitaria che pretende ingannevolmente di indicare il senso di ciò che accade.
Un fenomeno storico, riconosciuto puro e completo e risolto in un fenomeno della conoscenza è, per colui che lo ha riconosciuto, morto, poiché egli ha riconosciuto in lui l’illusione, l’ingiustizia, la passione cieca e soprattutto tutto l’orizzonte oscurato dalla dimensione terrestre di quel fenomeno e contemporaneamente la sua potenza storica. Questa potenza è diventata impotente per lui che sa, forse non ancora per lui che vive [Premessa, p. 6].
L’eccesso di storia, la sua idolatria, distrugge la vita perché imita il passato, lo copia e rinuncia a creare. Lo storicismo ottocentesco ha fatto dell’uomo un semplice epigono del passato, un estimatore di ciò che fu a danno della vita. Citando Goethe e Leopardi, Nietzsche si scaglia contro «tutto ciò che istruisce senza spingere all’azione»:
considera il gregge che pascola di fronte a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia domani, salta di qua e di là, mangia, riposa, digerisce, salta di nuovo, e così dalla mattina alla sera, giorno dopo giorno, poco legato al suo piacere e alla sua svogliatezza, cioè al paletto dell’istante, e perciò né malinconico né annoiato [Sull’utilità e il danno].
La consapevolezza e il senso del tempo, conclude Nietzsche, non rendono un buon servizio alla vita: non rendono felici. Per vivere il presente, occorre dimenticare il passato. Un eccesso di memoria ostacola la vita.
Quale è dunque la buona memoria? Quella che rende il presente più ricco e fecondo di prospettive.
Il filosofo distingue tre modi positivi di porsi in rapporto con la storia: quella monumentale, l’antiquaria e la storiografia critica.
La storiografia monumentale corrisponde all’atteggiamento di chi è attivo e coltiva grandi aspirazioni:
la grandezza fu comunque una volta possibile e perciò anche sarà possibile un’altra volta,
è quindi l’approccio di chi cerca grandi modelli, ma rischia di mitizzare il passato per renderlo degno di imitazione.
La storiografia antiquaria è coltivata dai conservatori che hanno cura delle proprie origini e assumono la tutela della tradizione come compito. È la storia come feticcio, come preservazione fine a stessa che ha come limite il servire il passato fino al punto di mummificare la vita.
Il terzo atteggiamento, quello critico, è proprio di chi è insofferente del passato che vive come un peso di cui liberarsi. Il critico porta la storia passata davanti al tribunale del presente e pretende di separarsene drasticamente, perché la storia è per lo più ingiusta:
uomini o tempi che servono la vita in questo modo, giudicando e annientando un passato, sono sempre uomini e tempi pericolosi.
Sarà nell’opera successiva, Umano, troppo umano, che Nietzsche porterà la storiografica critica sul terreno della genealogia, per mostrare come all’origine dei fatti creduti naturali e dei valori pretesi eterni ci siano interessi e passioni, cioè la volontà di potenza di individui e gruppi.
5.3 Terza e quarta inattuale: Schopenhauer come educatore e Richard Wagner a Bayreuth
Nella terza Inattuale, Schopenhauer come educatore (1874), Nietzsche celebra la figura esemplare di maestro ed educatore di Schopenhauer, il quale ha perseguito un ideale di filosofia come denuncia del conformismo e ricerca della libertà.
La grandezza, per Nietzsche, non può essere separata dalla familiarità con i mostri e con il fondo feroce dell’esistenza. Infatti solo chi è solito attraversare l’oscuro riesce a trasmettere serenità
Il vero pensatore rasserena e allieta sempre, sia che egli esprima la sua serietà o il suo scherzo, la sua penetrazione umana o la sua indulgenza divina; senza atteggiamenti tetri, mani tremolanti, occhi acquosi, ma sicuramente e semplicemente, con coraggio e vigore, forse con un certo fare cavalleresco e duro, in ogni caso però come vincitore; e proprio ciò rasserena più profondamente e intimamente: vedere il dio vincitore accanto a tutti i mostri che egli ha combattuto.
Nella quarta ed ultima Inattuale, Richard Wagner a Baureuth (1875), Wagner incarna la figura dell’artista che riscatta i tempi e indica agli uomini la sola verità possibile, quella dello spirito tragico che rinasce dalla menzogna millenaria. In questo momento, Nietzsche vede ancora nell’opera del grande musicista il primo annuncio dell’Übermensch, l’oltreuomo.
6. Umano troppo umano
Dove voi vedete cose ideali, io vedo cose umane, ahi troppo umane. […]
Umano troppo umano è il monumento di una crisi: dice di essere un libro per spiriti liberi: quasi ogni frase vi esprime una vittoria –
con quel libro mi sono liberato di ciò che non apparteneneva alla mia natura […]
qui il termine libero deve essere inteso solo in un senso: uno spirito diventato libero che ha ripreso possesso di se stesso.
Ecce Homo
Nel 1876, l’anno dopo la pubblicazione dell’ultima Inattuale, l’aggravarsi della malattia che lo porterà alla follia spinge Nietzsche a chiedere un anno di congedo all’Università di Basilea che due anni dopo si tramuterà in congedo definitivo. È in questo momento che il filosofo dà inizio ai viaggi continui attraverso l’Italia, la riviera francese e le valli svizzere che dieci anni più tardi avranno come epilogo la catastrofe torinese.
Nel 1878, nel centenario della morte di Voltaire, esce Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi in cui Nietzsche prende congedo dagli idoli della propria giovinezza, Schopenhauer e Wagner. Il distacco da Schopenhauer è sostanzialmente una presa di distanza dalla sua metafisica:
Chi non sa porre la propria volontà nelle cose, vi pone almeno un senso: crede, cioè, che in esse esista già una volontà,
dirà dieci anni dopo nel Crepuscolo degli idoli.
Più traumatico è l‘allontanamento da Wagner, il cui cenacolo di Bayreuth, creato nel 1876, manifesta ormai agli occhi del filosofo l’irrealizzabilità della rinascita della cultura tragica attraverso il dramma musicale.
L’anno seguente, Nietzsche viene a conoscenza del progetto wagneriano del Parsifal [sotto nell’incantevole versione allestita per il Festival di Bayreuth del 2012], un’opera in cui l’epopea romantica dell’Anello del nibelungo si salda con la prospettiva cristiana della redenzione, e lo interpreta come un tradimento.
Come scriverà più tardi in Nietzsche contra Wagner:
All’improvviso Richard Wagner, apparentemente il più ricco di vittorie, in verità un disperato décadent putrefatto, si prosternò, derelitto e a brandelli, davanti alla croce cristiana.
Educatore dell’umanità è ora solo quella del filosofo il cui metodo è critico e storico. Critico perché Nietzsche assume il sospetto come criterio d’analisi anche delle verità apparentemente più certe, storico, nel senso che il filosofo non crede più a «realtà eterne» e «verità assolute», ma concepisce l’uomo e i suoi valori come realtà storiche, effetto del gioco delle forze che operano al suo interno.
Come ha ben chiarito Michel Foucault,
la storia, genealogicamente diretta, non [avrà] per fine di ritrovare le radici della nostra identità, ma d’accanirsi al contrario a dissiparla; non si mette[rà] a cercare il luogo unico da dove veniamo […]; essa si occuper[à] di far apparire tutte le discontinuità che ci attraversano.
Questa funzione è opposta a quella che voleva esercitare, secondo le Inattuali, «la storia antiquaria» […]. Ad una tale storia, le Inattuali obiettavano che rischia di prevenire ogni creazione in nome della legge della fedeltà. Un po’ più tardi – e già in Umano, troppo umano – Nietzsche riprende il compito antiquario, ma nella direzione completamente opposta [Michel Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, 1971].
Nietzsche è così diventato «illuminista» è dedica dunque a Voltaire – «[tra i] più grandi liberatori dello spirito» – nel centenario della morte, la prima edizione di Umano, troppo umano.
Tutto l’interesse del filosofo si concentra ora sull’uomo, non più la schopenhaueriana vita del cosmo, ma la vita dell’uomo, evento biologico di questo mondo. Di qui il violento attacco contro ogni «trascendenza»: cattiva filosofia è quella che «duplica» il mondo, immaginando idealisticamente una realtà in sé, dietro ai fenomeni. Tutto si risolve, al contrario, nell’apparenza e nulla può condurci alla cosa in sé sognata anche da Schopenhauer e degna
di un’omerica risata.
Le ipotesi metafisiche, come quelle religiose sono in realtà solo un’illusione «troppo umana», frutto di un inganno a cui l’uomo soggiace volontariamente per rendere tollerabile la propria caducità e la propria debolezza, vagheggiando un significato infinito della propria esistenza. La religione è menzogna e la metafisica
tratta degli errori fondamentali dell’uomo come fossero verità fondamentali.
Nel brano seguente, tratto dal Crepuscolo degli idoli (1888), Nietzsche mette in scena lo smascheramento della metafisica e, in particolare, del suo errore ontologico fondamentale, consistente nell’aver contrapposto “mondo vero” e “mondo apparente”.
1. Il mondo vero, attingibile dal saggio, dal pio, dal virtuoso, – egli vive in esso, lui stesso è questo mondo.
(La forma più antica dell’idea, relativamente intelligente, semplice, persuasiva. Trascrizione della tesi “Io, Platone, sono la verità”).2. Il mondo vero, per il momento inattingibile, ma promesso al saggio, al pio, al virtuoso (“al peccatore che fa penitenza”).
(Progresso dell’idea: essa diventa più sottile, più capziosa, più inafferrabile – diventa donna, si cristianizza … ).3. Il mondo vero, inattingibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un obbligo, un imperativo. (In fondo l’antico sole, ma attraverso nebbia e scetticismo; l’idea sublimata, pallida, nordica, königsbergica).
4. Il mondo vero – inattingibile. Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Di conseguenza neppure consolante, salvifico, vincolante: a chi ci potrebbe vincolare qualcosa di sconosciuto?… (Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo).
5. Il “mondo vero” – un’idea, che non serve più a niente, nemmeno più vincolante – un’idea divenuta inutile e superflua, quindi un’idea confutata: eliminiamola! (Giorno chiaro; prima colazione; ritorno del bon sens e della serenità; Platone rosso di vergogna; baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi).
6. Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? forse quello apparente?… Ma no! col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente! (Mezzogiorno; momento dell’ombra più corta; fine del lunghissimo errore; apogeo dell’umanità; INCIPIT ZARATHUSTRA) [Il crepuscolo degli idoli, Come il mondo vero finì per diventare favola. Storia di un errore].
Metafisica e religione hanno dunque un valore puramente consolatorio. L’esito di questa svolta é l’analisi spietata della cultura moderna di cui Nietzsche annuncia lo stato di malattia: i grandi modelli ottocenteschi (romanticismo, idealismo, positivismo) non sono altro che «raffinati imbrogli».
Il campo in cui Nietzsche mette alla prova la “filosofia critica” è ora quello della morale, la quale assoggetta la vita a valori che si pretendono trascendenti ed hanno invece origine nella vita stessa.
Il filosofo prova la genesi “umana”, bassa e persino spregevole dei valori. Dietro ad ogni ideale viene così scoperto il suo opposto: l’altruismo maschera l’egoismo, la verità l’impulso alla falsificazione, la santità la bramosia di vendetta [seguendo Nietzsche, Freud ha mostrato la dinamica delle formazioni reattive]. L’uomo agisce spinto dall’istinto di conservazione e dall’intenzione di procurarsi il piacere ed evitare il dolore. Anche la volontà di sapere che lo anima, lungi dall’essere pura e disinteressata, ha dietro di sé la vita stessa che è per essenza scontro di forze, lotta per la sopravvivenza.
A partire da questi principi semplici – che si rifanno alla domanda filosofica “di duemila anni fa”, quando i filosofi greci si chiedevano come può nascere una cosa dal suo contrario – Nietzsche ricostruisce i processi che hanno portato alla nascita del mondo morale, con tutti i suoi pregiudizi, le sue astuzie e le sue finzioni.
Se nel periodo giovanile la filosofia di Nietzsche era dominata da tragico, ora l’ideale dominante è quello di una umanità libera dalle illusioni, in cui l’uomo possa riconoscersi in modo autentico. Protagonista di questa riforma morale non è più il genio artistico, ma il Freigeist, lo spirito libero, superiore al libero pensatore del settecento perché non crede ciecamente nella ragione, ma anche su questa si interroga.
7. La filosofia del mattino
Con l’immagine della filosofia del mattino, significativamente opposta alla hegeliana nottola di Minerva, Nietzsche abbozza una nuova concezione della condizione umana che si fa strada in Aurora e nella Gaia scienza (1882) come l’attitudine di uno spirito gioioso e libero, dal «buon temperamento» che caratterizza «l’umanità a venire».
Lo «spirito libero» è il grande scettico: non ha soggezione né rispetto per ciò che gli “spiriti vincolati” accettano e venerano; ha la gaiezza e l’audacia temeraria di chi non indietreggia davanti a nulla. Il suo è un mondo organizzato sul principio della gaia scienza, libero dall’ignoranza e dalla paura.
Anche la figura dello «spirito libero» è, tuttavia è una figura di passaggio, un viandante verso una meta ancora non chiarita, la filosofia del mattino in cui il filosofo è sempre meno il critico freddo e spietato e sempre più un uomo che inventa la propria vita, la cui scienza è gaia perché non ha la solenne serietà del concetto, ma il cui stato d’animo è quello di chi diviene consapevole all’improvviso della propria libertà e si abbandona all’ebbrezza, alla danza, al gioco.
7.1 Incipit tragoedia: l’annuncio della morte di Dio
Nell’aforisma 125 della Gaia scienza, «l’uomo folle» annuncia per la prima volta la morte di Dio:
Avete sentito dire di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente:
«Cerco Dio, cerco Dio».
E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò gran risa.
«È forse perduto?» disse uno.
“Si è perduto come un bambino?” fece un altro.
«Oppure sta ben nascosto. Ha paura di noi. Si è imbarcato? È emigrato?» gridavano e ridevano in una gran confusione.
Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con il suo sguardo:«Dove se n’è andato Dio» – gridò – «ve lo voglio dire! Siamo stati noi a ucciderlo: voi e io. Siamo noi tutti i suoi assassini. Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte?, Che mai facemmo a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? […] Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!»
Ecco dunque la verità tremenda che apre la nuova via alla filosofia nietzscheana. Che cosa significa tuttavia che Dio è morto? Non significa né che gli uomini non credono più in Dio, né allude a una dimostrazione della sua inesistenza. Ha piuttosto il valore di una constatazione: non c’è più alcun Dio che ci può salvare, oltre gli uomini c’è solo il nulla.
Nietzsche riassume dunque in una formula radicale l’irruzione del nichilismo nel mondo moderno, ossia il fatto che l’insieme di ideali e valori su cui il cristianesimo ha edificato una civiltà, tradisce ora il nulla su cui era fondato:
Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna.
7.2 La diagnosi del nichilismo dell’Occidente
Se Dio è morto non ha più senso dunque parlare di morale, di bene e di male, di giusto e di ingiusto. Non ha più senso chiedersi dove l’uomo stia andando e di dove sia venuto. La categoria chiave di questa nuova fase della filosofia nietzscheana è dunque quella di nichilismo, alla quale il filosofo dedicherà d’ora in avanti un grande sforzo di analisi.
In primo luogo il concetto ha nella sua filosofia una funzione diagnostica: designa cioè la condizione pessimistica e passiva di un’umanità per la quale nulla ha più senso. Come si vede, Nietzsche denuncia le cause del nichilismo, moralistico e immorale al tempo stesso, in cui siamo immersi, proprio per progettarne la fuoriuscita. Il suo è l’ultimo grande tentativo dell’occidente di rifondare se stesso [anche se la distruzione della falsificazione metafisico-religiosa di cui Nietzsche si rende protagonista viene spesso presentata come nichilista nel rovesciamento della vulgata corrente]. A partire da questa constatazione Nietzsche sviluppa una riflessione ontologica e storica al tempo stesso: nel corso della civilizzazione, la metafisica e la morale hanno perso gradualmente la loro necessità vitale, dunque l’essere stesso si avvicina al nulla.
Quale compito rimane allora all’uomo? Quale senso ha il suo abitare la terra? Nella Gaia scienza Nietzsche abbozza una prima risposta:
Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa?
E’ il primo cenno a un nichilismo attivo, di cui tuttavia può essere protagonista solo un uomo superiore.
8. Zarathustra, il pensiero meridiano
Io amo i grandi spregiatori perché sono i grandi adoratori, frecce del desiderio verso l’opposta riva.
Amo coloro che non cercano, oltre le stelle, una ragione per offrirsi in sacrificio o perire;
amo coloro che si sacrificano alla terra, perché la terra appartenga un giorno al superuomo.
Also Sprach Zarathustra
Si annuncia così il pensiero del «grande meriggio» – il momento del giorno in cui l’ombra è più corta – in cui la filosofia di Nietzsche trova il suo compimento: Così parlò Zarathustra.
Alla folla raccolta sulla piazza del mercato Zarathustra dice:
Io vi insegno il superuomo (Übermensch). L’uomo è qualcosa che deve essere superato […] Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al sopra di sé: e voi volete […] retrocedere al bruto piuttosto che superare l’uomo?
E aggiunge – aggiornando Pascal -: L’uomo è una fune tesa tra il bruto e il superuomo.
Il superuomo nietzscheano sta dunque all’uomo attuale, come questo sta al preumano: l’uomo superiore è la tappa successiva che l’umanità deve compiere dopo essersi lasciata alle spalle la condizione animale.
8.1 L’Übermensch
Quella a cui Nietzsche guarda è un’umanità nuova, non soltanto un soggetto di pura potenza. Il passaggio dall’uomo al superuomo non deve dunque essere inteso come l’evoluzione di una nuova razza di individui superiori. Niezsche non crede, d’altra parte, nel progresso e condanna tanto lo storicismo idealistico che l’ottimismo positivistico e il provvidenzialismo cristiano. Il superuomo non è dunque il risultato di una presunta logica immanente della storia, ma la scelta possibile che Zarathustra annuncia a «tutti e a nessuno», come recita il sottotitolo del libro.
Ma chi è dunque il superuomo? Nei discorsi di Zarathustra si presenta come una figura luminosa, l’«eroe affermativo» per eccellenza, espressione della libertà del dionisiaco.
E’ tuttavia anche colui che pecca di hybris (la hybris era, per i greci, la disobbedienza orgogliosa all’ordine divino), che ha la tracotanza di chi è al di là del bene e del male; è l’uomo insieme del grande amore e del grande disprezzo, spirito creatore che salverà l’umanità dal nichilismo. Conserva del barbaro il vigore e l’intensità degli istinti che integra tuttavia in un ordine superiore, risultato dell’educazione greca alla libertà.
Su un piano più strettamente filosofico, il superuomo si caratterizza per la sua «fedeltà alla terra»: poichè Dio è morto, l’unica realtà è ora la vita terrena.
Ecco, io vi insegno il superuomo. Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no, costoro esercitano il veneficio. Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la terra: possano scomparire!
Davanti alla perdita dell’al di là, il superuomo riconosce nei cieli solo il riflesso utopico della terra e può volgersi dunque ad essa con quel fervore e quel senso di appartenenza che l’uomo riservava in precedenza al divino. Il legame con la terra è dunque, per l’uomo dell’età del nichilismo, la grande occasione di guarigione. Non dunque il superuomo al posto di Dio, ma la terra:
«Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così son morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere il sacrilegio contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile, e apprezzare le viscere dell’imperscrutabile più del senso della terra!»
Il superuomo nietzscheano è dunque prima di tutto un uomo di questo mondo, che sa dire sì alla vita, sapendo che non c’è nulla al di là di essa.
«In passato l’anima guardava al corpo con disprezzo, e questo disprezzo era allora la cosa più alta. Essa voleva il corpo macilento, orrido, affamato. Pensava, in tal modo di poter fuggire al corpo e alla terra. Ma quest’anima era anch’essa macilenta, orrida, affamata, e crudeltà era la voluttà di quet’anima! Ma anche voi fratelli, ditemi, che cosa manifesta il vostro corpo dell’anima vostra? Non è forse la vostra anima indigenza e feccia e miserabile benessere?
Davvero un fiume immondo è l’uomo. Bisogna essere un mare per accogliere un fiume immondo senza diventare impuri. Ecco io vi insegno il superuomo, egli è il mare nel quale si può inabissare il vostro grande disprezzo. Qual è la massima esperienza che possiate vivere? L’ora del grande disprezzo: L’ora in cui vi prenda schifo anche per la vostra felicità e così pure per la vostra ragione e la vostra virtù. […]
L’uomo è una fune tesa tra il bruto e il superuomo – una fune sopra l’abisso. Pericoloso l’andare alla parte opposta, pericoloso il restare a mezza via, pericoloso il guardare indietro, pericoloso il tremare e l’arrestarsi. Ciò ch’è grande nell’uomo è l’essere un ponte, non una meta: ciò che si può amare nell’uomo è l’essere una transizione e un tramonto.
Amo quelli che sanno vivere soltanto per sparire, poiché son coloro appunto che vanno oltre. Io amo i grandi spregiatori perché sono i grandi adoratori, frecce del desiderio verso l’opposta riva. Amo coloro che non cercano, oltre le stelle, una ragione per offrirsi in sacrificio o perire; amo coloro che si sacrificano alla terra, perché la terra appartenga un giorno al superuomo.Amo colui che vive per conoscere, e che vuol conoscere affinché, un giorno, viva il superuomo. E in tal modo egli vuol la propria distruzione. Amo colui che lavora e inventa, per edificare una casa al superuomo e preparare a lui la terra, gli animali e le piante: giacché vuole così la sua distruzione.
Amo colui che non ritiene per sé una sola goccia del suo spirito, ma che vuol essere interamente lo spirito della sua virtù: così egli varca, quale spirito, il ponte. […] Amo colui la cui anima è profonda anche nella ferita, e che può perire per un piccolo avvenimento: così egli passa volentieri sul ponte.Amo colui l’anima del quale è traboccante, così ch’egli dimentica sé stesso e tutte le cose che sono in lui: così tutte le cose cooperano alla sua distruzione.
Amo colui che è libero spirito e libero cuore: così la sua testa non è che un viscere del suo cuore, ma il cuore lo spinge alla rovina. Amo tutti coloro che sono come gocce pesanti, cadenti una per una dalla fosca nube sospesa su gli uomini: esse annunziano che viene il fulmine, e periscono quali messaggeri.Guardate, io sono un nunzio del fulmine e una pesante goccia della nube: ma questo fulmine si chiama superuomo».
8.2 L’eterno ritorno dell’uguale
La concezione del superuomo trova nella dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale il definitivo orizzonte di comprensione. La prima folgorante intuizione venne a Nietzsche, come racconta in Ecce homo, nell’agosto 1881:
«Camminavo quel giorno lungo il lago di Silvaplana (nella valle svizzera dell’Engandina) attraverso i boschi; presso una possente roccia che si levava in figura di piramide, vicino a Surlej, mi arrestai. Ed ecco giunse a me quel pensiero […]: il tempo non ha fine, il divenire non ha scopo. Il corso del mondo non è retto da alcun ordine provvidenziale teso a instaurare il regno di Dio o della morale; il tempo non procede in modo rettilineo, né verso un fine trascendente (come ha preteso la tradizione ebraico-cristiana), né verso una finalità immanente (come hanno creduto l’idealismo hegeliano e lo storicismo)».
L’uomo occidentale è dunque prigioniero di un’errata concezione lineare del tempo, secondo la quale ogni cosa ha inizio e fine, un principio e uno scopo, rispetto al quale i momenti del processo sono inscritti in una «grande logica» che li rende irrilevanti. In questa visione, il passato ci condiziona in quanto irreversibile e il futuro si impone come evento sempre incombente che ci impedisce di godere il presente. A questa visione giudaico-cristiana del tempo (peccato, redenzione, fine dei tempi), Nietzsche oppone una concezione ciclica, ripresa dalla tradizione antica, presocratica e orientale, secondo la quale ogni cosa ritorna nell’eterna ripetizione dell’uguale.
C’è tuttavia il pericolo di interpretare l’eterno ritorno in senso fatalistico: se non accade nulla di nuovo, anche gli atti di volontà degli uomini sono nulli. Non è dunque illusorio anche l’annuncio del superuomo? La risposta di Nietzsche è negativa: non basta affidarsi alla ciclicità del tempo per sottrarsi al nichilismo e all’angoscia; l‘amor fati del superuomo non è la rassegnata accettazione delle cose come sono, ma la decisione di volere quella legge universale che gli altri esseri inconsapevoli si limitano a seguire ciecamente.
La dottrina dell’eterno ritorno inaugura così una nuova concezione dell’agire umano: nella visione lineare del tempo, ogni istante ha senso solo se legato agli altri che lo precedono e lo seguono, non di per sé. Nella visione nietzschena, invece, ogni momento del tempo (e quindi ogni esistenza singola) possiede interamente il suo senso, ha valore per sé. Se la Nascita della tragedia aveva affermato il primato della vita, ora Nietzsche afferma quello dell’attimo.
L’attimo non è affidato né al destino, né alla casualità, ma alla decisione, al coraggio, alla volontà. L’eterno ritorno può essere voluto dunque solo dal superuomo che rende perfetto ogni attimo e ne vuole l’eternità. Si prepara così l’avvento per una nuova e felice umanità, capace di dispiegare la propria volontà di potenza sul mondo.
Coraggio è la mazza più micidiale: il coraggio ammazza anche la compassione. Ma la compassione è l’abisso più fondo: quanto l’uomo affonda la sua vista nella vita, altrettanto l’affonda nel dolore. Coraggio è però la mazza più micidiale, coraggio che assalti: esso ammazza anche la morte, perché dice: “Questo fu la vita? Su! Da capo!”.
Ma in queste parole sono molte squillanti fanfare. Chi ha orecchi, intenda.
“Alt, nano! dissi. O io, o tu! Ma di noi due il più forte sono io: tu non conosci il mio pensiero abissale! Questo – tu non potresti sopportarlo!“.
Qui avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano infatti mi saltò giù dalle spalle, incuriosito! Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma, proprio dove ci eravamo fermati, era una porta carraia.
“Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine. Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via fuori della porta e in avanti – è un’altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l’un contro l’altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: “attimo’‘. Ma, chi ne percorresse uno dei due sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?”.
“Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo”.
“Tu, spirito di gravità! dissi io incollerito, non prendere la cosa troppo alla leggera! O ti lascio accovacciato dove ti trovi, sciancato – e sono io che ti ho portato in alto! Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta carraia che si chiama attimo, comincia all’indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un’eternità.
Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l’una all’altra in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque – anche se stesso? Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuori – deve camminare ancora una volta! E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti – non dobbiamo tutti esserci stati un’altra volta? e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via – non dobbiamo ritornare in eterno?”. […] l’ uomo è il più crudele degli animali : ecco che io muoio e scompaio, diresti , e in un attimo sono un nulla. Le anime sono mortali come i corpi . Ma il nodo di cause, nel quale io sono intrecciato, torna di nuovo, esso mi creerà di nuovo! Io stesso appartengo alle cause dell’eterno ritorno. Io torno di nuovo, con questo sole, con questa terra, con quest’aquila, con questo serpente, non a nuova vita o a vita migliore o a una vita simile : io torno eternamente a questa stessa identica vita [F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra].
9. La volontà di potenza
Pericoloso l’andare alla parte opposta, pericoloso il restare a mezza via,
pericoloso il guardare indietro, pericoloso il tremare e l’arrestarsi
Così parlò Zarathustra
La volontà di potenza è infatti il carattere distintivo della condizione di felicità del superuomo, della «grande salute». Il termine, che appartiene alla produzione posteriore allo Zarathustra, è stato a lungo interpretato sulla base dei significati immediati di cui è portatore, cioè nel segno della violenza e del dominio sugli altri, a partire dalla ricostruzione dei frammenti operata durante la malattia del filosofo da Elisabeth Förster-Nietzsche, sorella filonazista di Nietzsche, attraverso il Nietzsche-Archiv di Naumburg.
Nietzsche non concepiva però la volontà di potenza come semplice atto di forza, ma come scelta operata nel dominio di sé, opposta alla violenza barbara tipica dell’individuo mediocre. Il filosofo ne porta ad esempio il brahmanesimo come espressione di un potere nobile fondato sull’autocontrollo: la volontà di potenza non é dunque né volontà di dominio, né affermazione di sé sull’altro, né tantomeno la giustificazione metafisica di un’ideologia di potenza, ma un continuo oltrepassare se stessi.
Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro [Al di là del bene e del male].
10. Filosofare col martello
Se ci si vuole fare rapidamente un’idea del modo in cui erano capovolte tutte le cose, prima di me, si cominci da questo scritto. Ciò che sulla copertina è chiamato idolo è semplicemente quello che finora si è chiamato verità. Crepuscolo degli idoli; in lingua povera: la vecchia verità si avvicina alla sua fine… Non c’è realtà, non c’è idealità che non sia toccata in questo libro (toccata: che prudente eufemismo!). Non solo gli idoli eterni, ma anche i più recenti e, conseguentemente, i più caduchi: le idee moderne, ad esempio. Un gran vento soffia tra gli alberi e dappertutto cadono a terra dei frutti: delle verità. Vi è in esso la soverchia abbondanza di un autunno troppo ricco: si inciampa tra le verità, se ne schiaccia anche qualcuna: ce ne sono troppe… Ma ciò che si finisce per avere in mano non sono più cose problematiche, sono cose precise.
Con lo Zarathustra, Nietzsche chiude la parte costruttiva della sua filosofia. Negli ultime tre anni prima della follia si dedica invece febbrilmente allo sviluppo della parte decostruttiva del suo pensiero, tornando quasi allo spirito illuministico di Umano troppo umano, ma con uno slancio critico nuovo, lucidamente intenzionato a distruggere quanto resta della millenaria menzogna:
non basta annunciare una dottrina: bisogna anche trasformare con la forza gli uomini, in modo che la ricevano (1883).
Se il superuomo dev’essere il destino dell’uomo, allora è necessaria la distruzione dell’umanità forgiata dalla tradizione occidentale: la filosofia del martello si abbatte così definitivamente sulle “menzogne di vari millenni”, le metafisiche, le religioni, la morale.
Il XIX secolo appare a Nietzsche un «XVIII assottigliato e instupidito», un deserto in cui l’uomo si è definitivamente perduto. Si tratta di un tempo dominato dal militarismo e dal nazionalismo prussiano, dalla morale vittoriana, dalla logica perversa della merce e dello scambio in cui gli uomini vivono comportamenti anonimi e ripetitivi, obbedendo come un gregge ai valori dell’eticità stantìa di Dio, patria, famiglia: è il trionfo di una cultura servile – nel 1869, venticinquenne, Nietzsche peraltro aveva chiesto e ottenuto l’annullamento della cittadinanza prussiana per assumere quella svizzera, necessaria all’insegnamento. Successivamente, lasciò anche la cittadinanza svizzera, senza fare nulla per riprendere quella tedesca, divenendo apolide.
«Circe di tutti i filosofi», la morale é «il sonno della vita»,
in cui l’uomo vive senza coscienza di sé, prigioniero di illusioni e dimentico della propria natura libera e creativa. Il sentimento che ne è il fondamento nascosto è il risentimento, lo stato d’animo in malafede proprio dell’uomo “schiavo” che proietta la propria impotenza fuori di sé. Il risentimento è dunque, essenzialmente, il sentimento reattivo proprio di chi è incapace di azione, di volontà e di cambiamento.
Reazione e risentimento, sono ciò che Nietzsche chiamava il «pensare bassamente», di cui parla nell’incontro di Zarathustra con la propria caricatura (la scimmia):
[Zarathustra] arrivò anche alle porte della grande città: ma qui un pazzo, colla bava alla bocca, gli corse incontro con le braccia aperte e gli attraversò il cammino. Era quello stesso che il popolo chiamava «la scimmia di Zarathustra»: giacchè si era appropriato alcunchè del suo stile e della sua inflessione di voce, e toglieva anche volentieri molte cose a prestito dalla sua sapienza.
Vedendolo e ascoltandone la rabbiosa imitazione delle proprie parole, Zarathustra si sdegna:
«Dall’amore soltanto deve uscire il mio disprezzo e il mio uccello augurale; ma non dalla palude! –
Ti si chiama la mia scimmia, o pazzo furioso: ma io ti chiamo il mio maiale grugnente, – col grugnire mi guasti il mio elogio della pazzia.[…] – sedesti allora presso queste lordure, per aver un pretesto a grugnire, – per avere un pretesto a molta vendetta! la vendetta è infatti tutta la tua schiuma, o pazzo vanitoso; io t’indovinai bene!
Ma il tuo folle discorso mi urta anche quando hai ragione! E se la parola di Zarathustra avesse pur mille ragioni, tu, con la mia parola, commetteresti sempre un torto!»
Così parlò Zarathustra; poi guardò la grande città, sospirò, ed a lungo si tacque.
Alla fine disse così: Mi disgusta anche questa grande città, non questo pazzo soltanto. Tanto qui come là non v’è nulla da rendere peggiore.
Il tempo presente che Nietzsche presentisce gravido di un peggior futuro, è infatti dominato da questo spirito delle città, dalla sua cecità, dalla sua fretta, dalla sua immondizia: è il tempo dell’ultimo uomo, pulce del mondo:
Ahimè! Viene il tempo in cui l’uomo non potrà più generare alcuna stella. Ahimè! giunge il tempo del più spregevole tra gli uomini che non sa più disprezzare se stesso. Guardate! Io vi mostro l’ultimo uomo. «Che cosa è amore? Che cosa è creazione? Che cosa è nostalgia? Che cosa è astro?» – così chiede l’ultimo uomo ammiccando. La terra sarà divenuta allora piccina e su di lei saltellerà l’ultimo uomo che impicciolisce ogni cosa.
La sua razza è indistruttibile come quella della pulce; l’ultimo uomo vive più a lungo di tutti. «Noi abbiamo inventato la felicità» – dicono gli ultimi uomini e ammiccano [Zarathustra].
La degradazione nichilistica del mondo di cui parla Zarathustra alludendo all’ultimo uomo, lo smascheramento della parzialità dei valori su cui è edificata la morale dei signori (e quella reattiva degli schiavi) – nella Genealogia della morale (1887) e nell’aforisma 260 di Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire (1886) – l’attacco definitivo alla metafisica – il Crepuscolo degli idoli. Ovvero come filosofare a colpi di martello (da cui si è tratto Come il mondo vero divenne favola. Storia di un errore) – e alla religione – l’Anticristo – sono i grandi temi degli ultimi scritti.
Nietzsche fa ancora in tempo a pubblicare la propria biografia intellettuale, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, e Nietzsche contra Wagner (1888), prima della follia che lo spegne, probabilmente a causa di un meningioma o di un’encefalopatia genetica – come la critica tende oggi a ritenere, considerando i sintomi di cui soffrì e la familiarità del tumore al cervello di cui morì suo padre, piuttosto che delle conseguenze della sifilide, come si è creduto a lungo -, condizione straziante nella quale trascorse i suoi ultimi undici anni di vita.
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