Un estratto dell’articolo pubblicato dalla Rivista della scuola superiore dell’economia e delle finanze.
1. Il principio di causalità nel pensiero moderno
Il principio di causa-effetto è una correlazione tra due fenomeni per cui il secondo, l’effetto, è prodotto dal primo, la causa. Di questa proposizione si danno essenzialmente due interpretazioni: una ontologico-oggettivistica e una gnoseologico-soggettivistica. Secondo la prima sono i fenomeni in quanto tali ad essere legati dal nesso di causalità; vi sarebbe pertanto una forma di necessità in base alla quale, avvenuto un fatto, ne avviene un altro da questo causato. L’altra interpretazione afferma invece che il principio di causa-effetto non sussiste necessariamente nel mondo esterno, ma è un postulato generale inventato dall’uomo come criterio conoscitivo e ordinatore che consente di mettere in correlazione insiemi di fatti e di orientarci in un universo altrimenti caotico. Per questa seconda interpretazione si pone il problema di spiegare come un principio di ragione consenta di dar conto dei fenomeni. In genere si intende il nesso causa-effetto come una corrispondenza biunivoca, cioè un effetto è prodotto da una sola causa e viceversa una causa produce un solo effetto. Tuttavia questa ulteriore condizione non è necessaria e può ben darsi che una causa produca una molteplicità di effetti e che un effetto sia occasionato da una pluralità di cause.
Dal punto di vista storico, il problema della causazione è già presente in ambito scientifico e filosofico fin dall’epoca dei presocratici; Platone se ne occupa nell’ambito della teoria delle idee, tuttavia la prima trattazione sistematica della questione è dovuta ad Aristotele che, soprattutto nel secondo libro della Fisica, pone il problema delle cause in una forma che influenzerà in modo consistente la successiva speculazione su questo tema. Aristotele distingue quattro tipi di causa: materiale, formale, efficiente, finale. Dato, per esempio, un tavolo ligneo di forma rettangolare, la causa materiale è il legno, materia di cui è composto il tavolo, la causa formale è il rettangolo, la causa efficiente è l’artefice del tavolo e la causa finale è data appunto dal fine per il quale il tavolo è stato costruito.
Nella concezione di Aristotele la causa finale è particolarmente importante, oltre che sul piano metafisico, anche a livello logico: se infatti non vi fosse un fine ultimo a cui l’universo tende non si potrebbe evitare il regresso all’infinito delle cause, mentre Aristotele, postulando l’esistenza del Dio motore immobile, a cui il mondo tende, evita proprio la questione del regresso infinito. In Aristotele, il concetto di causa ha una valenza sia ontologica che gnoseologica. È in questo senso emblematico l’inizio della Fisica. Leggiamo infatti:
Poiché in ogni campo di ricerca in cui esistono principi o cause o elementi, il sapere e la scienza derivano dalla conoscenza di questi ultimi – noi, infatti, pensiamo di conoscere ciascuna cosa solo quando ne abbiamo ben compreso le prime cause e i primi principi e, infine, gli elementi -, è evidente che anche nella scienza della natura si deve cercare di determinare anzitutto ciò che riguarda i principi[3].
Nel lungo periodo che va da Aristotele al XVII secolo, non mancarono speculazioni sul principio di causa-effetto. Alcune di tali concezioni, come quella di Ockham[4], sono molto interessanti; tuttavia sono essenzialmente la fisica moderna e i connessi studi sul funzionamento delle macchine – siamo appunto nel tardo Cinquecento – che determinano anche nuove concezioni relative al principio di causa-effetto. A partire dal XVII secolo i filosofi e gli scienziati mostreranno sempre un notevole interesse nel comprendere la natura di questo principio. Nella concezioni di autori vissuti nel XVII e nel XVIII secolo, si ritrovano una molteplicità di profonde interpretazioni del nostro asserto, le quali, insieme allo sviluppo delle scienze esatte, influenzarono profondamente la concezione di Kant e dei fisici vissuti tra il Settecento e l’Ottocento. Questi ultimi a loro volta spinsero “critici”, quali Mach, e una rivisitazione globale del principio.
Una formulazione chiara è quella espressa da Hobbes, che, nel De corpore, affronta essenzialmente il principio di causa-effetto in connessione con le cause che generano movimento. Per Hobbes la causa consiste in un insieme di proprietà di un agente che modificano alcune proprietà di un paziente. Tale modificazione è l’effetto. […]
Una causa intera è sempre sufficiente a produrre il suo effetto, purché si tratti di un effetto del tutto possibile[6].
Con queste parole il filosofo inglese vuole sottolineare un altro principio che non coincide certo con quello di causa-effetto, ma che ne una condizione fondamentale di applicabilità e di sensatezza, cioè il principio di continuità – o, sarebbe meglio dire, di regolarità – della natura. Vale a dire: se in certe condizioni si è verificato un fenomeno al tempo , il medesimo fenomeno si verificherà al tempo , successivo a , se in si ripresenteranno le stesse condizioni tipiche di. Questo principio assicura che se la causa x ha prodotto l’effetto y, ciò avverrà in qualunque tempo, a parità di condizioni. Per questo Hobbes dice che “la causa intera è sempre sufficiente a produrre il suo effetto”. “Il suo”, sempre lo stesso, e non un altro effetto. Da queste premesse segue una forma di necessitarismo che Hobbes esprime chiaramente con queste parole:
Di qui segue anche che, nello stesso istante in cui la causa diventa intera, è prodotto anche l’effetto (…). Alla stessa maniera si può dimostrare che tutti gli effetti futuri, quali che siano, avranno una causa necessaria, e, così, tutto ciò che sarà prodotto o è stato prodotto ha avuto la sua necessità nelle cose precedenti.[7]
Ora resta da stabilire di quale tipo di necessità si tratti. Anche in questo caso la risposta di Hobbes è molto chiara: si tratta di una necessità di tipo meccanico e materiale: Nell’ottavo capitolo del De corpore, il filosofo inglese aveva infatti stabilito una proposizione che suona:
Ciò che è in uno stato di quiete si intende che resta sempre in questo stato, se non c’è un altro corpo oltre lo stesso, supposto il quale non può restare ulteriormente nello stato di quiete.[8] Data questa proposizione e la definizione di causa-effetto, Hobbes ne conclude che:
La causa del movimento può essere unicamente in un corpo contiguo e mosso.[9]
In Hobbes il principio di causa-effetto ha quindi tre caratteristiche: 1) oggettività e assoluta necessità; 2) è legato a una concezione meccanicistica, nel senso che gli “accidenti” della causa determinano il modo in cui sono modificati gli “accidenti” dell’effetto; 3) è connesso con una visione materialistica poiché gli effetti sono prodotti per diretto contato del corpo-causa col corpo-effetto.
Sottolineiamo che, sebbene in Hobbes, il meccanicismo sia connesso col materialismo, tale connessione non è necessaria poiché si può pensare che la causa eserciti i propri effetti in modo meccanico, ma grazie a una qualche forza e non grazie a un contatto corporeo diretto. Hobbes traccia una linea di pensiero che sarà tipica di alcuni fisici nei secoli a venire e da cui è esclusa ogni visione teleologica. Pertanto mi è sembrato opportuno entrare in qualche dettaglio.
Nel XVII secolo molti filosofi si erano occupati del nesso causa-effetto, tra questi ricordiamo Cartesio e Spinoza, tuttavia il pensiero più complesso ed articolato su questo tema è senz’altro quello di Leibniz e siccome Mach, nella sua critica al concetto di causa, pone una sostanziale equivalenza tra questa nozione ed il principio leibniziano di ragion sufficiente o determinante, risultano opportune alcune considerazioni sulla concezione leibniziana. Come punto di partenza per l’indagine può essere assunto un breve scritto, Le verità prime, pubblicato per la prima volta dal Couturat[10] nel 1902. Qui Leibniz sostiene che tutte le verità possono esser comprese sotto il nome di identità. Scrive il filosofo tedesco:
Verità prime sono quelle che enunciano la medesima cosa circa se stessa o negano l’opposto del suo opposto. Ad esempio “A è A”, oppure “A non è non A”. Se è vero che A è B, è falso che A non è B, o che “A è non B”. Analogamente, “ogni cosa è quale è”. “Ogni cosa è simile od uguale a se stessa”. “Niente è maggiore (o minore) di se stesso”. Tutte queste affermazioni e le altre di tal genere, quali che siano i gradi di priorità, possono tuttavia essere comprese sotto lo stesso nome di identità. Tutte le rimanenti verità si riducono poi alle prime mediante definizioni, ossia attraverso la risoluzione dei concetti, nella quale consiste la prova a priori, indipendente dall’esperienza.[11]
Pertanto, almeno da quanto asserito in Le verità prime, segue che anche le verità contingenti sono, dopo un’attenta analisi dei concetti in esse implicati, riconducibili alle verità implicanti l’identità. Ma allora, se ciò è vero, ne consegue che non può sussistere un effetto senza cause perché altrimenti, la catena che riconduce una verità x al principio di identità, sarebbe spezzata. Si avrebbe cioè che x non è analizzabile in forma identitaria. Leibniz è del tutto esplicito in proposito. Leggiamo infatti:
(…) nasce subito da qui l’assioma ben noto che nulla è senza ragione, ossia che nessun effetto è senza causa. Altrimenti, si darebbe una verità che non potrebbe essere provata a priori, ossia che non si risolverebbe in proposizioni identiche, il che è contro la natura della verità, la quale, esplicitamente o implicitamente è (sempre) identica.[12]
In Le verità prime viene anche introdotto il concetto di sostanza individuale o nozione completa. Poiché tutte le verità sono riconducibili all’identità, questo implica che nella nozione, nel concetto di ogni individuo sono già compresi tutti i suoi predicati ed i fatti che gli accadranno. All’individuo e in generale a tutte le verità di fatto è pertanto inerente una forma di necessità, per quanto diversa da quella tipica delle verità di ragione. Questa concezione sarà trattata più diffusamente da Leibniz nel Discorso di metafisica del 1686, opera che si ritiene scritta nello stesso periodo di Le verità prime.
Prima però di affrontare alcune tematiche del Discorso, ancora una nota concernente il denso opuscolo Le verità prime. Leibniz afferma che ogni sostanza individuale esercita azione e passione fisica su tutte le altre, ma che, in senso metafisico, non vi è azione o influsso di una sostanza sull’altra. Viene così introdotta la concezione monadologica. E a questo punto leggiamo una breve proposizione concernente il principio di causa-effetto che suscita qualche meraviglia:
E quelle che chiamiamo cause sono soltanto, nel rigore metafisico, requisiti concomitanti.[13]
A mo’ di spiegazione scrive Leibniz:
Ne abbiamo illustrazione dalle stesse esperienze della natura, poiché i corpi si allontanano infatti dagli altri corpi in forza della propria elasticità, non per forza estranea, benché (sia stato richiesto un altro corpo) affinché possa agire l’elasticità (che nasce da qualcosa di intrinseco al corpo stesso).[14]
La posizione di Leibniz può essere così riassunta; esistono due livelli di realtà e di verità: il piano fisico e il piano metafisico. Il principio-base è che sia le verità fisiche che quelle metafisiche devono essere ricondotte a verità analitiche e, in ultima istanza, all’identità. Nel mondo fisico questa riconduzione avviene tramite il principio di causa-effetto che, pertanto è fondamentale nelle scienze fisiche. Sul piano metafisico però ogni individuo ha già in sé tutti i suoi predicati (e nel termine predicati vanno inclusi anche i fatti che capitano agli individui) passati, presenti e futuri, e questi non sono vincolati a un rapporto di causa-effetto con altre sostanze individuali, ma sono inerenze in sé di ogni sostanza. Quindi, sul terreno metafisico, non si può parlare di principio di causa-effetto.
Nel Discorso di metafisica Leibniz specifica quanto visto in Le verità prime. Distingue tra verità contingenti e necessarie. Queste ultime sono tali che il loro opposto implica contradizione, mentre quanto alle prime, l’opposto non implica alcuna contraddizione, è cioè logicamente possibile. Nondimeno, come già visto, le verità contingenti non sono meno certe di quelle necessarie poiché sono iscritte nella nozione completa di un individuo. Di nuovo Leibniz è chiaro:
Ora noi sosteniamo che ciò che deve accadere ad ogni persona è virtualmente già compreso nella sua natura o nella sua nozione, come le proprietà della definizione nel cerchio. Certo così la difficoltà sussiste ancora: per risolverla in modo rigoroso, dirò che ogni connessione o derivazione è di due tipi, la prima è assolutamente necessaria e di essa il contrario implica contraddizione, e questa deduzione si verifica nelle verità eterne, quali sono quelle della geometria; l’altra invece non è necessaria che ex hypothesi e, per così dire, per accidente, ma in se stessa è contingente, perché il suo contrario non implica contraddizione.[15]
Si è quindi visto che il principio di causa-effetto attiene al mondo fisico in quanto analizzato fisicamente. C’è però da chiedersi: a quale tipo di causalità pensava Leinbiz? Hobbes riteneva che gli unici influssi che un oggetto potesse esercitare su un altro dipendessero dal contatto corporeo. Leibniz esplicita in diverse parti del Discorso di metafisica che il mondo fisico è retto da precise leggi che sono state create da Dio e sottolinea che queste leggi agiscono certo meccanicamente, ma non solo per contatto diretto dei corpi: vi è una forza[16] che è responsabile del movimento e che non può essere ridotta alla mera estensione. Di nuovo Leibniz è chiaro:
Ora questa forza è qualcosa di differente dalla grandezza, dalla figura e dal movimento; e da ciò si può giudicare che tutto ciò che si conosce dei corpi non consiste nella estensione e nelle sue modificazioni, come sostengono i moderni. Così siamo obbligati a ristabilire quegli esseri o forme che essi hanno bandite. Ed appare sempre più manifesto che, benché tutti i fenomeni particolari della natura si possano spiegare, da coloro che sappiano intenderli matematicamente e meccanicamente, i principi generali della natura corporea e della stessa meccanica sono piuttosto metafisici che geometrici ed appartengono alle forme o nature indivisibili come cause dei fenomeni, più che alla massa corporea ed estesa.[17]
Al di là dell’accentuata vena metafisica di Leibniz, occorre sottolineare che qui viene introdotta una concezione del principio di causa che troverà, esplicitamente o meno, non pochi sostenitori tra i fisici: le cause per cui avvengono i fenomeni non sarebbero più da ricercare nel comportamento fattuale dei corpi e nelle loro interrelazioni, ma in leggi fisiche che rappresentano la struttura ontologica dell’universo. Per cui i corpi si comportano in un certo modo perché obbediscono a queste leggi. Certo già Galilei aveva asserito che le leggi del mondo sono scritte in caratteri matematici, ma nel suo caso non è affatto sicuro che egli pensasse alle leggi della fisica come a qualcosa di dato una volta per tutte e come a una effettiva struttura matematico-platonica dell’universo[18]. In Leibniz ciò è invece certo: le cause ultime del comportamento fisico degli oggetti sono da ricercare nelle leggi della fisica.
Al quadro qui presentato occorre aggiungere alcune specificazioni: è noto che negli scritti teoretici più importanti e segnatamente nei Nuovi saggi sull’intelletto umano (1703), Saggi di Teodicea (1710) e Monadologia (1714), Leibniz attribuì importanza fondamentale al principio di contraddizione per le verità di ragione. Nei Nuovi saggi sottolineò (coerentemente con quanto espresso in Le verità prime) che le verità di ragione sono identiche e sono di due tipi: 1) identiche positive; 2) identiche negative. Alla base delle identiche positive vi è il principio di identità a quelle identiche negative il principio di contraddizione[19]. Nei Saggi di Teodicea e nella Monadologia[20] parla senz’altro del principio di contraddizione come base delle verità necessarie. Quanto alle verità contingenti leggiamo nella Teodicea che il loro fondamento è dato dal:
[…] principio della ragion determinante: che nulla accade senza che vi sia una causa o almeno una ragione determinante che possa, cioè, servire a rendere ragione a priori perché una cosa è esistente piuttosto che non esistente e perché è così piuttosto che in un altro modo.[21]
Nella Monadologia, si legge che:
[Il principio] della ragion sufficiente [è quello] in forza del quale noi giudichiamo che nessun fatto può ritenersi vero o esistente, né alcuna proposizione esser veritiera, se non v’è una ragione sufficiente per la quale sia così e non altrimenti.[22]
Questo non è affatto in contraddizione con quanto asserito in Le verità prime e cioè che tutte le verità sonoi identiche, ma anzi ne rappresenta il completamento: il principio di contraddizione garantisce l’identità di tutte le verità nell’ambito della verità necessarie, quello di ragion sufficiente, altra forme di esprimere in termini generali il principio di causa-effetto, garantisce tale identità nell’ambito delle verità di fatto o contingenti. Chiaramente il principio di ragion sufficiente è stato introdotto perché un fondamento puramente logico, come il principio di identità o di contraddizione, non può garantire l’esistenza perché un fatto può esser logicamente possibile, cioè non contraddittorio, ma cionondimeno non accadere [questa è comunque l’obiezione che Kant muove ai razionalisti nell’Unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, 1763].
In conclusione: il principio di causa-effetto si esprime in Leibniz nei termine di ragion determinante o sufficiente. Si estrinseca nel mondo tramite le leggi fisiche create da Dio, le quali sono la ragione del perché i fatti avvengono in un certo modo. Sul piano puramente metafisico non vi è nesso di causa-effetto neppure per le verità contingenti in quanto la nozione completa ha già in sé tutti i suoi predicati.
La critica più chiara a chi ritiene la causalità un nesso inerente ai fenomeni in sé e per sé è dovuta a David Hume. Anzitutto, Hume non nega che vi siano discipline in cui ragionamenti di tipo esistenziale possano essere condotti con mezzi puramente razionali: tali discipline sono l’aritmetica e l’algebra[23]. Il problema nasce quando si parla di esistenza in senso diverso, e precisamente di esistenza nel tempo e/o nello spazio. In questo caso non vi è un criterio di ragione che possa esser dimostrato deduttivamente e che implichi la sussistenza necessaria di certe forme di regolarità. Così, ad opinione di Hume, già la geometria che ha a che fare con l’estensione “(…) non può affatto essere ritenuta una scienza perfetta e infallibile”[24]. Ora il principio di causa-effetto serve anzitutto a garantire l’identità e la permanenza di esistenza degli oggetti. Infatti, non vi è alcuna ragione logica per cui un oggetto che al tempo t e nella posizione x produce in noi certe sensazioni sia lo stesso che al tempo T e nella posizione X produce le stesse sensazioni, se tra i tempi t e T non abbiamo avuto alcuna relazione sensoriale con l’oggetto. Hume argomenta che:
A questa conclusione che va al di là delle impressioni dei sensi, possiamo giungere soltanto perché ci fondiamo sulla connessione di causa-effetto: altrimenti non potremmo avere la certezza che l’oggetto è sempre lo stesso e non uno nuovo.[25]
E ancora:
(…) la causalità è la sola che possa spingerci al di là dei sensi ed informarci dell’esistenza di oggetti che non vediamo né sentiamo.[26]
Ma quale è l’origine del principio di causa-effetto? Hume non ha dubbi: tale origine risiede nell’esperienza e nella nostra capacità di generalizzare e di astrarre da esperienze simili. Non vi è alcuna necessità per cui l’esistenza di un oggetto implichi quella di un altro: si è constatato che a certi fenomeni ne seguono altri e questa abitudine ci porta alla illegittima supposizione che esista un nesso necessitante tra questi fenomeni per cui, avvenuto l’uno – la causa – invariabilmente debba conseguire l’altro – l’effetto -. Per Hume il nesso di causa-effetto è solo una nostra necessità psico-gnoseologica che ci consente di porre un ordine apparente in un universo altrimenti caotico. Come tale il principio va considerato ed usato. Anche in questo caso le parole di Hume sono quanto mai chiare. Leggiamo infatti:
L’idea di causa ed effetto è derivata dall’esperienza, la quale c’informa che certi particolari oggetti, in tutti i casi passati sono andati costantemente uniti insieme.[27]
E in seguito:
La ragione non potrà mai convincerci che l’esistenza di un oggetto implichi quella di un altro: per cui, quando passiamo dall’impressione di un oggetto all’idea o credenza d’un altro, non siamo spinti a ciò dalla ragione, ma dall’abitudine, ossia da un principio di associazione.[28]
Pertanto una prova basata sul principio di causa-effetto, per quanto possa essere scevra da dubbi e incertezze, dato l’altissimo numero di casi in cui un certo fenomeno ha seguito un altro senza eccezione (come accade per il sorgere quotidiano del Sole o per la mortalità degli esseri umani[29]), non è mai accompagnata dal senso di necessità tipico delle dimostrazioni matematiche né indica propriamente connessioni esistenti nel mondo esterno indipendentemente dalle nostre esperienze.
La critica di Hume al principio di causa-effetto indusse, come noto, Kant a reimpostare la questione in modo da dare un valore assoluto al principio, ma da liberarlo da quelle critiche a cui è soggetto nella sua forma realista (sia essa materialista alla Hobbes o “razionalista” alla Leibniz). Il mondo fenomenico, sostiene Kant, è il solo che l’uomo può conoscere tramite l’intelletto e, quindi, l’unico di cui possa avere conoscenza scientifica. In questo contesto “assoluto” diviene allora sinonimo di trascendentale, di oggetto di esperienza possibile a priori. E il problema kantiano di come siano in generale possibili giudizi sintetici a priori, equivale a quello della comprensione della struttura conoscitiva del soggetto trascendentale.
Il principio di causa-effetto ha un ruolo fondamentale in questa struttura. Esso costituisce infatti una delle dodici categorie o concetti puri dell’intelletto, precisamente fa parte delle categorie della relazione. Nell’“Estetica trascendentale”, tra l’altro Kant ha sottolineato che gli oggetti di esperienza possibile a priori sono solo quelli che possono avere una collocazione nello spazio e/o nel tempo. Questi ultimi, in quanto intuizioni pure accolgono le rappresentazioni degli oggetti, l’immaginazione consente la sintesi delle rappresentazioni, ma la precisa concettualizzazione della sintesi delle rappresentazioni è possibile solo tramite le categorie, le quali permettono di ordinare i risultati della sintesi e di concludere così il processo di concettualizzazione[30]. Il ruolo della categorie è, quindi, fondamentale e proprio la categoria di causa è quella che, applicata ai dati forniti dalla sensibilità, consente di determinare le relazioni nel tempo. Essa è cioè la condizione a priori della possibile unificazione del molteplice nel tempo. Scrive Kant in proposito:
Ma questa unità sintetica [del molteplice nel tempo], come condizione a priori, in cui unifico il molteplice di una intuizione in generale (…) è la categoria di causa, per la quale io, quando l’applico alla mia sensibilità, determino rispetto alla sua relazione, tutto ciò che accade nel tempo. L’apprensione dunque di un tale avvenimento, e insieme l’avvenimento stesso secondo la percezione possibile, sottostà al concetto di relazione di effetto e causa; così in tutti gli altri casi.[31]
E nel paragrafo 36 dei Prolegomeni ad ogni metafisica futura Kant sostiene che il principio di causa (cioè la legge del nesso dei fenomeni) non deriva certo dall’esperienza, ma anzi noi possiamo avere l’idea stessa della natura grazie a principi come quello di causa-effetto che sono a fondamento dell’esperienza stessa[32] e, continua Kant
(…) la legalità si fonda sulla connessione necessaria dei fenomeni in una esperienza (…) e quindi sulle leggi generali dell’intelletto, così certo a principio suona strano, ma è, non di meno, certo, dire riguardo alle ultime, l’intelletto non attinge le sue leggi (a priori) dalla natura, ma le prescrive ad essa.[33]
In questo modo pertanto il principio di causa-effetto recupera la sua valenza assoluta, sia pur nella forma trascendentale e non in quella “realistico ingenua”, ma di fatto, poiché non ha senso parlare di un mondo indipendente dal soggetto trascendentale, l’operazione di Kant è quella di un recupero integrale del principio dopo la critica humeana.
I successi della fisica e la sua giustificazione filosofica data da Kant portarono Laplace ad affermare nel modo più esplicito l’assolutezza del principio di causa-effetto. Scrive Laplace:
Noi dobbiamo considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo stato anteriore e la causa di quello che seguirà. Un’intelligenza che, per un istante dato, conoscesse tutte le forze da cui la natura è animata e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se fosse abbastanza vasta per sottomettere questi dati al calcolo, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e quelli del più leggero atomo: niente sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi.[34]
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