Introduzione
Il periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi trent’anni del Novecento fu tra i più fecondi per la fisica ed è paragonabile solo al XVII secolo. La nostra immagine del mondo venne modificata in maniera radicale grazie soprattutto alla termodinamica, alla teoria della relatività e alla meccanica quantistica.
La termodinamica fu ideata per prima[1]: tramite il concetto di entropia l’irreversibilità fu introdotta in maniera quantificabile in fisica, mentre per le equazioni di Lagrange, che forniscono la forma analitica “standard” della meccanica classica, la direzione del tempo è del tutto indifferente. Con le teorie della relatività ristretta e generale di Einstein (1905 e 1915 rispettivamente) alcune delle nostre più consolidate ed intuitive credenze, quali il concetto di simultaneità, l’indipendenza di massa e lunghezza dalla velocità e di tempo e velocità entrarono in crisi, almeno a un certo livello di fenomeni. Con la meccanica quantistica, nome sotto il quale viene indicato un complesso insieme di scoperte[2], una molteplicità di nuove concezioni entrò nel mondo della fisica: materia ed energia si presentano solo in pacchetti discreti detti quanti, gli elettroni all’interno del nucleo possono occupare solo determinate bande energetiche, i fotoni e le stesse particelle subatomiche presentano proprietà ondulatorie e corpuscolari, non è possibile determinare con esattezza posizione e quantità di moto di una particella, secondo una certa statistica le particelle possono superare barriere di potenziale, situazione questa del tutto “proibita” nella fisica classica. […]
Nella seconda metà dell’Ottocento vi fu un fisico, Ernst Mach, che affrontò con grande maturità una serie di problemi, definibili in senso lato come epistemologici, concernenti l’immagine fisica del mondo. La rivisitazione critica del concetto di causa fu uno dei cardini della concezione di Mach, basata non solo su conoscenze fisiche, ma anche su profonde cognizioni di psicologia sperimentale e di storia della filosofia. […] Le sue concezioni sono antagoniste di quelle della meccanica quantistica.
1. Mach e la sua concezione del principio di causa-effetto
L’opera di Mach abbraccia un lungo arco di anni se pensiamo che il suo primo lavoro sistematico può essere considerato La storia e la radice del principio di conservazione del lavoro, pubblicato nel 1872, ma scritto alcuni anni prima e l’ultimo Le idee-guida della mia teoria della conoscenza scientifica[35], 1910. In questo lungo periodo si collocano i tre contributi fondamentali di Mach: La meccanica nel suo sviluppo storico-critico (1883), L’analisi delle sensazioni (1886) e Conoscenza ed errore (1905). Il pensiero del fisico-fisiologo-filosofo moravo fu sempre estremamente coerente e i suoi tre grandi lavori possono essere considerati come lo sviluppo e l’approfondimento di idee già presenti in forma più o meno esplicità già La storia e la radice del principio di conservazione del lavoro.
L’analisi del principio di causa-effetto si inserisce all’interno di una concezione molto articolata i cui cardini sono: 1) la scienza è basata sull’economia di pensiero; 2) il modo in cui la scienza si è sviluppata non è predefinito, ma dipende da una serie di circostanze storico-sociali. Ne consegue che i principi e le leggi della fisica non hanno niente a che fare con una supposta struttura matematica in sé dell’universo, sono piuttosto tabelle, rubriche, tramite le quali si riassume un insieme di fatti. Scrive Mach:
È importante chiarire che un principio è sempre la constatazione di un fatto. Se si trascura questo, si avverte sempre un’insufficienza e si continua a ricercare una fondazione che non è possibile trovare.[36]
E ancora:
Se ci fossero immediatamente accessibili tutti i singoli fatti, tutti i singoli fenomeni, non appena desideriamo conoscerli – non sarebbe mai sorta una scienza.[37]
Più nello specifico, il fatto che la meccanica sia stata la branca della fisica che si è sviluppata per prima e i cui risultati sono stati i più cospicui, dipende da motivi storici e contingenti e non implica affatto che la meccanica debba essere assunta come fondamento per gli altri rami della fisica. Proprio l’esame dei rapporti tra meccanica e altri settori della fisica e lo studio concernente l’origine dei principi della fisica è il punto di partenza della speculazione machiana sul nesso di causa-effeto. L’idea di fondo è dimostrare che non solo non esiste il nesso di causa-effetto come proprietà intrinseca ai fenomeni della natura, ma che anche a livello scientifico tale nesso può più utilmente essere sostituito dal concetto di dipendenza funzionale tra fenomeni. Scrive Mach:
Quando parliamo di causa e di effetto, noi mettiamo arbitrariamente in evidenza quegli aspetti, sul cui rapporto poniamo attenzione in vista di un risultato per noi importante. Ma nella natura non vi è né causa né effetto. La natura è qui e ora.[38]
La mentalità di Mach è però molto aperta e non si tratta quindi di “demonizzare” il rapporto causa-effetto. Se per qualche scienziato può esser utile pensare i fenomeni legati dal principio di causalità, questo è del tutto legittimo e non vi è niente da eccepire, purché non si ipostatizzi il principio o si voglia “costringere” anche altri a vedere in esso un postulato insostituibile. Le suguenti parole di Mach mi sembrano chiarificatrici, oltre che del suo pensiero, anche della sua mentalità generale:
Ho letto da qualche parte che io condurrei una “lotta accanita” contro il concetto di causa. Le cose non stanno così, perché io non sono un fondatore di religioni. Io ho sostituito, per le mie esigenze e i miei scopi, il conctto di causa con quello di funzione. Se qualcuno trova che in questo non c’è maggiore precisione né liberazione, né chiarimento, rimanga tranquillamente ai vecchi concetti; non ho né la forza né il bisogno di imporre a tutti il mio punto di vista.[39]
Introdotte queste idee generali che servono a fornire almeno alcune delle linee-guida della speculazione machiana, scendiamo più nello specifico, cominciando ad analizzare quanto Mach afferma in La storia e la radice del principio di conservazione del lavoro. Qui viene sostenuto che:
1) il principio di conservazione del lavoro può esser formulato come principio del perpetuum mobile escluso;
2) tale principio è un caso del principio di ragion sufficiente, il quale a sua volta equivale al principio di causa-effetto;
3) si può fornire un inquadramento più completo e perspicuo alla fisica introducendo il rapporto di dipendenza funzionale.
A base del proprio ragionamento Mach pone che:
1) tutti questi principi derivano dall’esperienza;
2) sono utili solo se vengono impiegati da persone che hanno fatto esperienze ed esperimenti su un insieme di fenomeni e che, quindi, hanno “confidenza” con essi ed hanno imparato a separare gli elementi “accidentali” da quelli permanenti e che possono far comprendere alcune invarianti. Altrimenti tali principi sono vuote parole e non hanno alcuna utilità.
[…]
Se il principio del perpetuum mobile escluso non si fonda sulla visione meccanicistica, il che deve essere ammesso, essendo la sua correttezza riconosciuta ben prima dello sviluppo della visione meccanicistica; se inoltre quest’ultima, vacillante e precaria, non può concedere a tale principio alcun fondamento sicuro; se infine è ben probabile che il nostro principio non si fondi su alcun giudizio positivo, poiché è stato esso stesso partecipe della fondazione delle più importanti conoscenze positive – su quale fondamento riposa dunque il principio, e donde trae quella forza persuasiva, con la quale ha in ogni tempo dominato i più grandi scienziati?[46]
Rispondendo a questa domanda, Mach formula la propria opinione in merito al principio di causa-effetto. Seguiremo dunque in dettaglio l’argomentazione del fisico austriaco. Egli asserisce osservando i fenomeni naturali, ci abituiamo a considerarli gli uni dipendenti dagli altri e che diamo a questa dipendenza il nome di principio di causa-effetto. Finché il nesso di causa-effetto viene definito in forma così generale come dipendenza di fenomeni, non vi è niente da eccepire. Anzi esso è assolutamente necessario alla scienza e, prima ancora che alla scienza, alla costituzione dell’esperienza stessa poiché esprime in termini formalizzabili la continuità e stabilità di certe nostre esperienze, proprietà senza le quali sarebbe per noi impossibile qualunque forma di “orientamento” nel mondo. Mach ritorna più volte su questo punto in diverse parti delle sue opere. Per esempio, in Conoscenza ed errore scrive:
Se l’ambiente degli esseri viventi non fosse costituito di parti che rimangono almeno approssimativamente costanti, o non fosse scomponibile in eventi che si ripetono in modo periodico, l’esperienza sarebbe impossibile, l’associazione senza valore.[47]
Il problema è che ogni formulazione del principio di causa-effetto è sempre associata alle nozioni di spazio e di tempo. Ora, ad opinione di Mach (posizione questa decisamente antikantiana), questo è improprio perché, i nostri concetti di spazio e di tempo sono ricavati dai fenomeni e un principio che voglia essere generale non può dipendere da concetti che, a loro volta, dipendono da nessi fenomenici. Mi sembra qui necessaria una precisazione per evitare eventuali fraintendimenti: Mach non pensa certo che noi scopriamo la dipendenza dei fenomeni grazie a leggi metafisiche dell’universo o grazie a nostre strutture trascendentali, ma proprio solo perché la ricaviamo dall’esperienza; tuttavia un principio generale deve valere per tutti i fenomeni, mentre se nella formulazione del nesso causa-effetto introduciamo i concetti di spazio e tempo, esso è, nella migliore delle ipotesi, legato a quelle esperienze che derivano dallo spazio e dal tempo. Tra l’altro spazio e tempo non sono per Mach nessi fenomenici insostituibili. Per esempio, in fisica la posizione dei corpi celesti potrebbe essere determinata in funzione dell’angolo di rotazione terrestre anziché in funzione del tempo. Per cui la corretta formulazione della legge di causalità è quella di nesso tra fenomeni esprimibile in equazioni.
Nel 1872 Mach chiamava ancora tale nesso “legge di causalità”. In seguito, e giustamente, abbandonò questo nome perché foriero di fraintendimenti in quanto, appunto, per legge di causalità si intendeva comunemente un nesso legato allo spazio e al tempo, mentre Mach voleva formulare un principio che non dipendesse da questi due concetti. Il concetto machiano di dipendenza funzionale dei fenomeni esprime il fatto che, nella scienza, quel che conta è appunto questa dipendenza (che nella fisica viene espressa con formule matematiche), mentre il principio di causa-effetto è molto indeterminato, vago, e non è traducibile in un linguaggio scientifico e, quindi, non è di aiuto nella scienza. Un esempio chiarirà cosa intende Mach per dipendenza funzionale tra fenomeni: consideriamo l’equazione di stato dei gas perfetti = costante, dove p indica la pressione del gas, v il volume e T la temperatura. Se in una trasformazione la temperatura resta costante e, per esempio, 1) la pressione aumenta, allora il volume diminuisce; 2) se il volume aumenta, la pressione diminuisce. Il nesso di dipendenza funzionale espresso dall’equazione dice quindi qualcosa di ben preciso. Ma qui come si applicherebbe il principio di causa-affetto? È la modificazione della pressione la causa o la modificazione del volume? E come stabilirlo visto che i due fenomeni avvengono in contemporanea? E, anche ammesso che sia possibile stabilirlo, quale mai vantaggio ne trarrebbe la nostra immagine del mondo? Ecco, quindi, che Mach asserisce:
Nelle scienze altamente sviluppate l’uso dei concetti di causa ed effetto è sempre più limitato, sempre più raro. Il motivo sta nel fatto che questi concetti indicano solo in modo assai provvisorio ed imperfetto uno stato di cose, che mancano di precisione, come già si è accennato. Appena è possibile caratterizzare gli elementi con grandezze misurabili […] la dipendenza degli elementi si fa rappresentare dal concetto di funzione.[48]
[…]
Mach vuole in particolare sottolineare che ogni principio generale, se è slegato da una effettiva conoscenza ed esperienza dei fenomeni che si vogliono osservare e studiare, è solo un vuoto precetto che non serve a nulla; esso acquista senso e utilizzabilità solo se si sono già compiuti studi ed esperimenti sui fenomeni. Non vi è nessun principio che possa dispensare dal lavoro. La speculazione machiana che abbiamo esposto non può essere scissa dalla visione antifinalistica, antiteologica ed antimetafisica del fisico moravo: così, a proposito di fenomeni di massimo e di minimo, che molto spesso vengono presentati in una forma più o meno velatamente finalistico-teologica, Mach asserisce che in realtà i principi e le leggi connessi con massimi e minimi esprimono sempre il fatto che, in certe condizioni, non si verifica lavoro. Il vedere in ciò un massimo o un minimo dipende da necessità conoscitive “economiche” che sono solo nostre, non della natura. Mi sembra molto bello ed indicativo il seguente lungo passo:
Istintivamente cerchiamo di facilitare a noi stessi la comprensione della natura attribuendolegli intenti economici che sono nostri. […] Invece di celebrare la tendenza economica della natura, è più chiaro, più rigoroso e nello stesso tempo gode di validità più generale, anche se suona meno sublime dire: accade sempre solo ciò che può accadere in presenza delle forze e sotto le condizioni date.[50]
[…]
Cosa ha introdotto Mach rispetto al “vecchio” empirismo alla Hume? Un elemento fondamentale è che il filosofo austriaco ritiene che ciò che Hume chiama abitudine non sia affatto una mera acquisizione personale, ma che sia il portato di strutture biologiche dell’essere umano e della ben precisa deriva storica di una civiltà. Appunto la scienza (biologia, fisiologia) e la storia (nel caso di Mach storia della fisica, essendo egli un fisico) possono far comprendere che cosa in realtà sia l’uomo e come si sia evoluta la sua conoscenza. Ciò non è possibile attraverso una pura speculazione razionale. Altro fatto fondamentale è che Mach cerca di giustificare le proprie idee per mezzo di una conoscenza davvero estesa e profonda della fisiologia, psicologia sperimentale e, soprattutto, della fisica. Ciò dà una notevole “concretezza” e chiarezza al suo pensiero, se ne condividano o meno tutte le conseguenze. Inizialmente Mach fu osteggiato e non compreso da molti filosofi e fisici, in seguito, nel periodo 1880-1920 la sua influenza fu invece profonda e, nonostante che abbia sempre avuto dei “nemici”, tra i quali ricordiamo Planck, egli influenzò notevolmente il pensiero di molto fisici e filosofi, non ultimi Einstein e Wittgenstein. In Italia un grande uomo di scienza che conobbe bene ed apprezzò il lavoro di Mach, anche se non condivise gli aspetti più marcatamente empiristici della sua concezione, fu Enriques.
4. La meccanica quantistica e il principio di causa-effetto
La critica di Mach aveva riguardato l’interpretazione del concetto di causa-effetto, la presunta assolutezza di certe nozioni fondamentali come “spazio” e “tempo”, la rivisitazione di altre, come, per esempio, il concetto di massa. Mach però non giunse mai a proporre una fisica in cui il nesso di causa-effetto, almeno nella sua veste tradizionale, non potesse valere in linea di principio.
Con la meccanica quantistica il quadro cambia completamente poiché si tratta di una teoria in cui anche il concetto machiano di nesso funzionale tra fenomeni deve subire una modificazione in quanto gli aspetti probabilistici entrano nella formulazione della meccanica quantistica in maniera intrinseca. Per cui un nesso funzionale non descriverà più una relazione tra due o più fenomeni, ma, dato un fenomeno o meglio, un certo stato quantico determinato da un insieme di parametri, la probabilità che si verifichi un altro stato quantico. Siamo quindi in presenza di un nesso funzionale concernente probabilità di fenomeni e non fenomeni. Un aspetto molto generale della fisica classica, a cui era anche parzialmente connessa la visione tradizionale del nesso di causa-effetto, concerne l’immagine del mondo che ci dà una teoria fisica: un atteggiamento filosofico, tipico di molti fisici ed entro certi limiti comprensibile, è, come già accennato, l’idea che le leggi della fisica siano uno schema matematico inerente al mondo. L’uomo si limita a scoprire tali leggi. Questo, che indubbiamente è un atteggiamento filosofico, pare suffragato anche a livello psicologico quando una teoria sembra non avere particolari problemi nel descrivere gli eventi che si conoscono.
Atteggiamento più prudente è quello di chi sostiene che, pur non esistendo leggi fisiche in sé e per sé, tuttavia un modello globale coerente che sia una rappresentazione del mondo è necessario in ogni scienza. Cioè, data la teoria T, possiamo anche disinteressarci del fatto che le leggi di T ineriscano o meno al mondo, ma almeno devono avere due requisiti fondamentali: 1) spiegare la quasi totalità dei fenomeni di cui si occupa T e tutti i fenomeni giudicati più importanti; 2) presentare una visione coerente del mondo, vale a dire non avere parti e i cui modelli si escludano a vicenda. Ora il secondo requisito sembra mancare alla meccanica quantistica poiché, come vedremo, per alcuni fenomeni è necessario descrivere le particelle subatomiche come corpuscoli, per altri come onde.
Inscindibilmente connesso con questo problema è l’aspetto probabilistico della teoria quantistica, per cui la questione del determinismo-indeterminismo non è più solo di carattere gnoseologico, ma concerne la struttura stessa della teoria. Tanto più questa situazione sembra paradossale se si tiene conto che molti dei padri della meccanica quantistica, come Schrödinger, erano realisti convinti ed altri addirittura come Planck ed Einstein erano realisti e deterministi.
Il problema della coerenza interna del modello offerto dalla fisica quantistica sarà l’argomento principale di questo paragrafo e la questione del causalismo sarà affrontata all’interno di questo discorso più generale. Prima di affrontare l’argomento principale, è necessaria un precisazione: nello studio delle strutture fortemente dipendenti dalle condizioni iniziali e costituite da un gran numero di particelle, vi sono sempre state leggi statistiche. La teoria cinetica dei gas e la termodinamica sono esempi classici. Fornisco un semplice esempio: consideriamo un recipiente pieno d’acqua e una sostanza disciolta nell’acqua in modo non uniforme a un certo tempo t. Supponiamo che in t la densità della sostanza nell’acqua sia massima nella parte sinistra del recipiente e diminuisca con continuità andando verso destra. Si assiste al fenomeno detto “diffusione”, cioè progressivamente la densità della sostanza diventa uniforme: le sue molecole si spostano in media dalla zona di densità maggiore a quella di densità minore. Ciò è un effetto puramente statistico poiché non vi è alcuna forza che tende a spingere le molecole verso destra. Ogni molecola si comporta indipendentemente da ogni altra ed ognuna è spinta dalle molecole circostanti di acqua in direzioni imprevedibili e con uguale probabilità verso sinistra o verso destra.
Ma consideriamo due straterelli contigui di liquido e un piano interposto tra essi: allora il piano viene attraversato da un numero maggiore di molecole provenienti dalla parte sinistra del recipiente per il semplice fatto che a sinistra vi sono più molecole della sostanza sciolta che non a destra. Ciò provoca la diffusione della sostanza disciolta da sinistra verso destra. Si ha quindi un effetto statistico che ci dice come si comporta il liquido anche se noi non sappiamo nulla delle singole molecole[53]. Non possiamo determinare il loro movimento perché strettamente connesso a una molteplicità di condizioni iniziali (quali la loro orientazione tra le molecole di acqua) che è quasi impossibile stabilire e una piccola variazione delle quali implica una grande differenza di comportamento. Si può però pensare, almeno a livello puramente teorico, che se conoscessimo le posizioni iniziali di tutte le molecole potremmo determinare con esattezza il moto di ciascuna di esse e che, quindi, l’aspetto statistico del fenomeno sarebbe eliminabile[54]. Bene, in meccanica quantistica la situazione non è questa, vedremo che ci sono aspetti statistici e probabilistici non eliminabili.
La base del problema è la “duplice natura” ondulatoria e corpuscolare dei fotoni e delle particelle subatomiche, quali gli elettroni: Max Planck nel 1900 aveva dimostrato che i problemi derivanti dal principio di equipartizione dell’energia applicato al corpo nero sono risolvibili postulando che la radiazione non sia continua, ma si presenti solo in pacchetti discreti, detti quanti. Tramite l’ipotesi dei quanti Einstein fu poi in grado, cinque anni dopo, di spiegare l’effetto fotoelettrico. D’altra parte nel 1925 de Broglie aveva scoperto che il postulare l’esistenza di onde-pilota associate all’elettrone forniva un quadro unitario e coerente alle formule scoperte da Bohr per la quantizzazione delle orbite elettroniche. Poco tempo dopo un esperimento rivelò che l’elettrone aveva in effetti anche la natura ondulatoria postulata da de Broglie.
Nel 1926 Schrödinger dette forma matematica corretta alle intuizione di de Broglie giungendo alla famosa equazione d’onda che è ancor oggi quella fondamentale in meccanica quantistica. Nello stesso periodo Heidenberg formulò il principio di indeterminazione e nel 1927 Schrödinger dimostrò l’equivalenza matematica tra la formulazione di Heisenberg e la propria[55]. Ora come conciliare la natura corpuscolare e ondulatoria dei fotoni e delle particelle subatomiche? Il problema non è in alcun modo solo una questione filosofica del tipo: questi oggetti sono onde o corpuscoli?, ma riguarda la coerenza fisica del quadro proposto dalla meccanica quantistica. Riferisco il seguente classico esperimento per chiarire il problema: supponiamo di avere una sorgente di luce monocromatica, un muretto con due fenditure e dietro al muretto uno schermo che registra l’impatto dei fotoni. Supponiamo anzitutto che sia aperta una sola fenditura. In questo caso la luce che illumina lo schermo presenterà un fenomeno tipicamente ondulatorio, la diffrazione, per il quale l’illuminazione dello schermo appare quasi tutta concentrata in una banda e il resto dello schermo sembra binaco. Se però si riduce l’intensità della luce si vede che effettivamente anche la banda illuminata è composta da “punti” luminosi e non è un continuo. In questo caso è, quindi possibile conciliare le proprietà ondulatoria con quelle corpuscolari. Quando però apriamo l’altra fenditura nasce il problema: sullo schermo si assiste a un classico fenomeno ondulatorio, cioè le figure di interferenza, per cui lo schermo presenta fasce senza fotoni e fasce in cui più intensa è la presenza di fotoni. Ma la cosa più singolare è che questa differenza nei comportamenti dei fotoni si presenta se noi spariamo anche un solo fotone alla volta. Mi spiego: se è aperta una sola fessura e spariamo un solo fotone alla volta, la fascia più colorata è quella approssimativamente di di fronte alla fessura, il resto è quasi oscuro. Quando apriamo due fessure e spariamo un fotone alla volta sarebbe lecito attenderci che le fasce colorate fossero quelle davanti alle fessure, ma non è così, ci sono le frange di interferenza:
In qualche modo, ogni particella passa al tempo stesso per le due fenditure e interferisce con se stessa! (…) È che ogni singola particella si comporta in modo simile a un’onda; e possibilità diverse accessibili a una particella possono a volte cancellarsi reciprocamente![56]
Tuttavia la cosa ancor più difficile da spiegare è che se si mette un rilevatore in una fessura in modo da stabilire se il fotone è passato per essa, le frange di interferenza scompaiono e il rilevatore ci dice esattamente se il fotone è passato o meno per tale fessura. Sembra che il fotone assuma natura completamente corpuscolare e sembra che l’osservazione abbia palesato l’aspetto corpuscolare del fotone. Ma come è possibile che un’osservazione modifichi la natura di una particella? Questa situazione paradossale è perfettamente descritta dalla funzione d’onda di Schrödinger che rappresenta lo stato quantico di una particella. La funzione d’onda è una funzione a variabili complesse e fornisce non la probabilità, ma l’ampiezza di probabilità che si verifichi un evento. In senso intuitivo, anche se parecchio inesatto, fornisce la probabilità di una probabilità. Ora, se ci interessa sapere quale è la probabilità che un fotone raggiunga un punto x dello schermo, si può dimostrare che essa è data dal modulo al quadrato della funzione d’onda . Ma è possibile provare che questo è vero solo nel caso in cui su una fenditura è posto il rilevatore. Per cui a livello puramente quantistico, senza presenza di osservatore, le singole vie “(…) hanno solo ampiezze di probabilità, non probabilità.”[57].
Non solo i risultati ottenuti attraverso l’equazione e la funzione d’onda coincidono sul piano matematico con il principio di indeterminazione, ma si accordano anche sul fatto che la presenza di un osservatore è decisiva nel modificare lo stato di una particella. Ricordiamo che Heisenberg sottolineò che, se vogliamo studiare il comportamento di un elettronone in un atomo, dobbiamo in qualche modo “illuminarlo” e questa illuminazione sarà tanto più precisa quanto più piccola sarà la lunghezza d’onda della luce incidente sull’elettrone. L’ideale è quindi usare fotoni di raggi . Il problema è però che i raggi sono così penetranti che modificano la posizione e la velocità dell’elettrone. Quindi, usando raggi “non troppo potenti” avremo un’immagine sbiadita sulla posizione e quantità di moto del nostro elettrone, usando raggi più penetranti modifichiamo posizione e quantità di moto. In ambo i casi si ha una indeterminazione del prodotto della posizione per la quantità di moto che è coerente con quanto prescritto teoricamente dal principio di indeterminazione[58].
Siamo quindi in questa paradossale situazione: la meccanica quantistica è in grado di spiegare i fenomeni atomici tramite il suo apparato matematico, ma non fornisce un’immagine coerente del mondo perché in effetti non spiega se gli enti di cui si occupa siano onde o corpuscoli e eventualmente quali siano le relazioni tra la “duplice natura” delle particelle. Tutti i “padri” della meccanica quantistica si posero questi problemi e ne dettero interpretazioni molto diverse. Essenzialmente si tratta di due interpretazioni: 1) complementarista-non determinista; 2) realista-determinista.
La prima è dovuta alla cosiddetta “scuola di Copenaghen” e fu sostenuta da fisici quali Bohr, Heisenberg, Dirac, Born, Rosenfeld. L’idea-base mi sembra sia la seguente e premetto che presenterò all’inizio questa idea in una forma molto diretta, tale da sembrare forse davvero semplicistica, ma che, a mia opinione, coglie i motivi fondamentali dell’interpretazione di Copenaghen: 1) la meccanica quantistica non è per il momento strutturata in una teoria coerente nel senso che non presenta effettivamente un’immagine univoca del mondo, in questo senso dovrà esser migliorata; 2) tuttavia le ipotesi che stanno alla base della meccanica quantistica risolvono la quasi totalità dei problemi di cui la disciplina si occupa; accettiamo per il momento queste ipotesi senza preoccuparci troppo della coerenza globale del modello; 3) qualunque futuro modello che abbia anche solo qualche parentela con la meccanica quantistica sarà sempre intrinsecamente probabilistico. Per esso non ha neppure senso parlare di causa-effetto.
L’idea cardine dell’interpretazione di Copenaghen è dovuta a Niels Bohr ed è il concetto di complementarità. Heisenberg, che fu uno dei maggiori sostenitori di questo concetto, si esprime in questi termini:
Bohr considerò le due immagini – quella corpuscolare e quella ondulatoria – come due descrizioni complementari della stessa realtà. Ognuna delle due descrizioni può essere solo parzialmente vera e sono necessarie delle limitazioni all’uso della teoria corpuscolare così come di quella ondulatoria, in quanto né l’una né l’altra possono evitare delle contraddizioni. Se si tiene conto di questi limiti che possono essere espressi per mezzo di relazioni d’incertezza, le contraddizioni scompaiono.[59]
E prosegue:
Naturalmente le due concezioni si escludono a vicenda poiché una cosa non può essere nello stesso tempo un corpuscolo (…) e un’onda (…). Ma l’una può essere il complemento dell’altra. Servendoci di entrambe le raffigurazioni, passando dall’una all’altra per ritornare poi alla prima, otteniamo infine la giusta impressione dello strano genere di realtà che si nasconde dietro gli esperimenti atomici.[60]
In Questioni di principio della fisica moderna, scritto risalente al 1935 e ripubblicato nel 1959 nel volume Mutamenti nelle basi della scienza, Heisenberg era stato ancor più chiaro. Leggiamo infatti:
Sembra dunque che la scienza possa percorere solo una via: utilizzare dapprima senza riserve, per la descrizione di quanto osserva, i concetti così come essi si offrono, e procedere poi di volta in volta alla revisione solo sotto la costrizione dell’esperienza. Chiedere che la chiarificazione dei concetti venga intrapresa fin dal principio, equivarrebbe a chiedere che l’intero sviluppo della scienza venga predeterminato mediante un’analisi logica. (…) dobbiamo quindi acconciarci a vedere anche nelle discipline fisiche esattamente elaborate dal lato matematico nulla più che tentativi eseguiti a tastoni per orientarci nella moltitudine dei fenomeni.[61]
Ciò che Heisenberg afferma è chiaro: accettiamo provvisoriamente la concezione complementarista di Bohr poiché la meccanica quantistica è scevra da contraddizioni matematiche e le sue previsioni trovano riscontro negli esperimenti. I suoi concetti sono quindi utili e devono essere usati anche se non vi è un modello univoco. Ora, si è visto che uno dei concetti fondamentali in meccanica quantistica è quello di probabilità. Ma con che tipo di probabilità si ha a che fare esattamente? Per rispondere a questa domanda, occorre sottolineare che la funzione d’onda obbedisce a un’equazione di moto (l’equazione di Schrödinger) proprio come avveniva nella fisica classica. Quindi l’ampiezza di probabilità per una posizione x della particella è perfettamente determinata nel corso del tempo. Tuttavia l’ampiezza di probabilità è un’astrazione che in quanto tale non ci dice quale sia la probabilità di trovare la particella nello spazio-tempo. Come si è visto occorre fare delle osservazioni che però spezzano la continuità della funzione, modificando il sistema, si tratti dell’esperimento delle due fendititure o del microscopio a raggi [62].
Ecco allora la seguente interessante interpretazione della funzione d’onda o di probabilità:
Essa contiene delle affermazioni sulle possibilità o meglio sulle tendenze (“potentia” nella filosofia aristotelica), e queste affermazioni sono completamente oggettive, non dipendono da nessun osservatore; e contiene affermazioni sulla nostra conoscenza del sistema, che sono naturalmente soggettive in quanto possono essere diverse per osservatori diversi.[63]
Al di là del richiamo ad Aristotele che pare un po’ ingenuo e forzato, quel che scrive Heisenberg è del massimo interesse: la funzione fornisce informazioni sulla tendenza del sistema, non direttamente sulle probabilità di trovare una singola particella in un punto x o di determinare dei limiti per la sua quantità di moto, ma su ciò che io ho chiamato un po’ impropriamente probabilità di probabilità. Una tendenza generale appunto. Se con l’osservazione possiamo poi dalla “tendenza” alla probabilità vera e propria, spezziamo la continuità della nostra funzione. Il che implica tra l’altro che tra due osservazioni è impossibile stabilire il cammino di una particella. E questo ha profonde ricadute sul concetto stesso di realtà poiché
L’osservazione stessa cambia la funzione di probabilità in modo discontinuo; essa sceglie fra tutti gli eventi possibili quello che realmente ha avuto luogo. (…). Perciò il passaggio dal “possibile” al “reale” ha luogo durante l’atto d’osservazione.[64]
Ma questo “reale” non è certo il reale della fisica classica, bensì un reale in cui il ruolo essenziale è svolto dal principio di indeterminazione in base al quale, dato uno stato presente, caratterizzato per esempio dal fatto che la quantità di moto[65] di una particella è compresa tra due limiti, è possibile determinare i limiti in cui tale quantità di moto sarà compresa nel futuro, ma non quale essa sarà esattamente. In un contesto del genere non ha neppure senso parlare di causa e di effetto per il semplice fatto che non si può neppure in linea di principio isolare l’una o l’altro. Si ha a che fare con probabilità di eventi, non con certezza di eventi. Questo risulta molto bene dal fatto che il principio di indeterminazione è espresso da una disequazione e non da una equazione, per cui anche il concetto di nesso funzionale di Mach deve essere esteso nel caso della meccanica quantistica dalle equazioni e sistemi di equazioni alle disequazioni e sistemi di disequazioni. Con la meccanica quantistica, almeno nella interpretazione di Copenaghen, il determinismo classico viene eliminato dalla fisica anche se questo non implica affatto la non conoscibilità o l’imprevedibilità degli eventi. Quindi anche quando si parla di indeterminismo della fisica quantistica, il riferimento è relativo, cioè indeterminismo rispetto ai canoni della fisica classica, ma in realtà l’apparato matematico della meccanica quantistica permette previsioni molto precise, nei limiti di quel che interessa determinare.
È noto che non tutti i fisici accettarono l’interpretazione di Copenaghen. Tra essi Einstein tentò di mostrare che la meccanica quantistica era contraddittoria, ma la risposta di Bohr alle sue obiezioni lo convinse che così non era. Egli tuttavia non accettò mai il carattere indeterministico della disciplina e la giudicò come uno stadio momentaneo verso un superiore punto di vista deterministico.
Tra gli altri sono stati presentati due famosi paradossi, il paradosso di Einstein-Podol’skij-Rosen e il “gatto di Schrödinger”[66]. Non è qui possibile neppure accennare ad essi; è opportuno tuttavia ricordare che entrambi sono basati sull’influenza che l’osservatore ha sui fenomeni quantistici. I due paradossi non sono facilmente superabili, ma nell’interpretazione di Copenaghen si evita che generino antinomie postulando che: 1) l’osservatore è inseparabile dallo strumento con cui interagisce; 2) lo strumento e l’osservatore devono sempre esser descritti in termini di fisica classica, mentre il fenomeno studiato deve esserlo in termini quantistici.
Tra coloro che non dettero un’interpretazione indeterminista della meccanica quantistica, analizzeremo due pensatori i cui contributi alla fisica furono della massima importanza: Max Planck ed Erwin Schrödinger.
La posizione di Max Planck, su cui per lo più ci concentreremo, è particolare: aspetti probabilistici erano apparsi nella quantomeccanica ben prima delle scoperte che abbiamo descritto (1925-1927). E Planck, a cominciare dal periodo attorno al 1910 fino alla morte, sopraggiunta nel 1947, si interessò sempre anche del problema determinismo-indeterminismo, fino a giungere ad un riformulazione del principio di causalità. In un saggio del 1923 Planck si esprime chiaramente: la causalità non è una necessità logica inerente ai fenomeni, ma è una condizione trascendentale senza cui non può esistere scienza. Scrive Planck in proposito:
Non si può infatti costringere nessuno con motivi puramente logici ad ammettere un rapporto causale. (…). Il nesso causale, ripeto, è di natura non logica, ma trascendentale.[67]
D’altronde
Il pensiero scientifico aspira alla causalità, è anzi la stessa cosa che il pensiero causale, e la meta finale di ogni scienza deve essere di condurre fino alle sue ultime conseguenze il punto di vista causale.[68]
Planck aderisce quindi senz’altro alla posizione di Kant, ovviamente però ne compie una rivisitazione tenendo conto dei più recenti risultati della matematica e della fisica; per cui il nesso di causa-effetto rimane una forma fondamentale del nostro intelletto, tuttavia occorre dare un contenuto a questa forma che sia, in un certo senso, più esteso di quello che gli dette Kant. Solo in questo modo è possibile far rientrare anche le leggi statistiche all’interno del concetto di causalità e dare loro un aspetto deterministico, sia pur in un senso più debole rispetto a quello tradizionale. In uno scritto del 1932 Planck è del tutto esplicito. Leggiamo infatti:
Oggi non è più lecito limitarsi ad annoverare la legge di causalità fra le categorie, come ha fatto Kant, quale espressione della validità di leggi inderogabili che governano tutto ciò che avviene, quale forma di intuizione senza cui non siamo in grado di raccogliere esperienze. Infatti il principio di Kant, che certe categorie costituiscono a priori il fondamento di ogni nostra esperienza, anche se destinato a rimanere intangibile per tutti i tempi, non dice nulla circa il significato speciale delle singole categorie (…).[69]
Quindi occorre ridefinire il “significato speciale delle singole categorie”. In realtà Planck aveva cercato una tale ridefinizione a partire almeno dal 1914 nel contributo Leggi dinamiche e leggi statistiche ove aveva anzitutto sottolineato che il concetto di probabilità usato in fisica fornisce comunque informazioni precise su un sistema, sia pure appunto a livello statistico, ma soprattutto, e qui è la vera radice deterministica del pensiero di Planck, le leggi statistiche hanno senso solo se posano su regolarità di tipo assolutamente deterministico, anche se, al momento, noi non conosciamo tali regolarità. Scrive Planck:
(…) si capisce che in fisica il calcolo esatto delle probabilità sia possibile solamente se per le azioni più elementari, e cioè nel finissimo microcosmo, si riconoscono come valide leggi esclusivamente dinamiche [cioè deterministiche in senso classico]. Benché queste si sottraggano singolarmente all’osservazione per mezzo dei nostri sensi, tuttavia la presupposizione della loro assoluta invariabilità è la base indispensabile di ogni nostra costruzione statistica.[70]
È come se Planck ammettesse due forme trascendentali distinte: una forma che ci fa vedere gli aspetti statistici del mondo ed una che ci mostra quelli deterministici in senso classico. Entrambe le forme sono necessarie a un certo livello di conosenza. Però, in ultima istanza, è la seconda forma che fonda la prima. Nello scritto del 1932 Planck approfondisce e specifica questa posizione e definisce un evento come causalmente determinato quando può essere previsto con sicurezza[71]. Ora, continua Planck, in fisica ci sono eventi che, almeno allo stato attuale delle conoscenze, si possono prevedere solo in modo statistico. Sono allora possibili due atteggiamenti: o si rinuncia al vincolo causale oppure si esige a priori la rigidità di tale vincolo e lo si riformula parzialmente. Planck rifiuta il primo atteggiamento e, sposando la tesi della rigidità del nesso causa-effetto, giunge a pensare che debba essere riformulato e precisato il concetto di “evento” e tematizza la separazione tra nostra immagine del mondo e mondo per come effettivamente è. Ovviamente la linea di attacco del ragionamento di Planck non può che partire dal principio di indeterminazione di Heisenberg. Per “salvare” il principio di causa-effetto, il fisico tedesco asserisce che l’interpretazione indeterministica del principio di Heisenberg non è accettabile poiché concerne la nostra immagine del mondo, per cui, partendo dal presupposto che nel concetto di evento siano comprese posizione e quantità di moto, concludiamo che, esistendo una relazione di indeterminazione tra queste due grandezze, non è più valido il principio di causa-effetto. Ma, afferma Planck, è un nostro pregiudizio che nell’evento abbiano valore contemporaneamente la velocità (o la quantità di moto) e la posizione, cioè che il concetto di traiettoria sia applicabile al mondo della microfisica. Non occorre abbandonare il nesso di causa-effetto, ma la nozione di traiettoria applicata alle particelle, che per Planck concerne la nostra immagine del mondo e non il mondo. Leggiamo Planck:
Per uscire dalla difficoltà è infatti assai più plausibile ammettere che la questione del valore contemporaneo delle coordinate e della velocità del punto materiale, come quella della traiettoria di un fotone di determinato colore, non abbia alcun senso fisico. È una via di uscita che in casi consimili ha già reso eccellenti servigi. L’impossibilità di risolvere una questione senza senso non può naturalmente esser posta a carico della legge causale come tale, ma soltanto delle premesse che hanno condotto ad impostare la questione: nel nostro caso a carico delle premesse su cui è costruita l’immagine fisica del mondo.[72]
Pertanto, prosegue Planck, in uno scritto del 1938, il principio di indeterminazione ha solo un valore “negativo”, ci dice che cosa è impossibile, che cosa non può far parte di un evento. Da questa conoscenza importante, ma “negativa”, occorre strutturare una conoscenza positiva, che tenga conto del principio di Heisenberg solo come limitazione al concetto di evento e che sia del tutto deterministica. Ovviamente Planck riconosce che al momento tale conoscenza non esiste. Leggiamo di nuovo Planck poiché la sue parole sono davvero chiare:
L’elettrone non si trova dunque in nessun posto o, se si preferisce, si trova con la stessa probabilità in tutti i posti. Pertanto la domanda sul percorso di un elettrone è d’ora in avanti illusoria, e sarebbe privo di senso pretendere su ciò una risposta determinata. Così, mentre il principio di indeterminazione rinuncia all’ipotesi della meccanica classica e cerca di costringerci ad accettare l’indeterminismo, di fatto pone le premesse alla possibilità di una teoria deterministica e apre la porta, chiusa dall’indeterminismo di principio, verso nuove specie di conoscenza. Ma il principio di indeterminazione da solo non è sufficiente per costruire una teoria completa del determinismo. Poiché esso è espresso tramite una disuguaglianza, esso costituisce in un certo senso solo la cornice per l’accoglimento di un altro principio più determinato.[73]
Ora esisteva nella fisica quantistica qualche legge o funzione il cui andamento è del tutto deterministico e di cui si potesse pensare poter rappresentare il fondamento per una microfisica appunto deterministica? Sì, una tale funzione esisteva ed è la funzione d’onda di Schrödinger, la quale dà l’ampiezza di probabilità che un evento accada, ma che come funzione è determinata per tutti i luoghi e per tutti i tempi[74]. Allora la realtà deterministica sottostante all’apparenza fenomenica indeterministica sarebbe data proprio dai campi di onde di cui parla la funzione d’onda. Le particelle con i loro aspetti indeterministici sarebbero solo epifenomeni di questa realtà deterministica più profonda di cui però, è bene sottolinearlo, conosciamo ben poco. In uno scritto davvero notevole risalente al 1952 e tratto da una sua conferenza, Erwin Schrödinger concludeva:
(…) se non altro è lecito immaginare quei corpuscoli come enti più o meno transitori nell’ambito del campo d’onde, ma tali che la loro forma e molteplicità strutturale, nel senso più ampio della parola, siano determinate dalle leggi ondulatorie in modo tanto preciso, chiaro e persistente, che molte cose avvengono come se avessimo a che fare con enti corporei duraturi. La massa e carica delle particelle, che possono così essere indicate esattamente, devono essere compresi tra gli elementi di forma determinati dalle leggi ondulatorie.[75]
E in risposta ad obiezioni di Max Born proposte nella discussione susseguente alla conferenza, Schrödinger replicava:
C’è un altro concetto, quello di complementarità, che Niels Bohr e i suoi discepoli diffondono e di cui tutti fanno uso. Devo confessare che non lo comprendo. Per me si tratta d’un’evasione. Non d’un’evasione volontaria. Infatti si finisce per ammettere il fatto che abbiamo due teorie, due immagini della materia che non si accordano, di modo che qualche volta dobbiamo far uso dell’una, qualche volta dell’altra.[76]
Con questo mi sembra che lo posizioni siano sufficientemente chiarite. Per altro, in forma un po’ modificata e raffinata dai succesivi sviluppi della meccanica quantistica, la posizione di Schrödinger, viene oggi, nella sostanza, riproposta da Penrose il quale scrive:
Sto adottando l’opinione che la realtà fisica della posizione della particella sia, in effetti il suo stato quantico.[77]
La realtà della particella sarebbe, quindi, rappresentata dalla funzione d’onda.
L’interpretazione indeterministica della meccanica quantistica ha le seguenti difficoltà: 1) non fornisce un’immagine univoca del mondo, ma permane la dualità onde-particelle, questo è vero che si accetti o meno in modo esplicito il principio di complementarità. Si ha, quindi, a ben vedere, in forma diversa una riproposizione non risolta del dualismo; 2) è difficile accettare non solo che l’osservazione modifichi un evento, ma che, in certe circostanze, sembri determinarlo.
L’interpretazione detereministico-realista ha molte difficoltà: 1) anche qui permane il problema del dualismo non risolto e, questa volta quasi nella forma tradizionale di fenomeno-noumeno. Specialmente Planck, quando distingue tra immagine del mondo e realtà, sembra riferirsi a questa come a qualcosa del tutto indipendente dall’uomo, un noumeno, appunto. In verità qualcosa che pare inattingibile; 2) la meccanica quantistica non ha avuto alcuna evoluzione in senso deterministico. Questo naturalmente non significa che non possa averla, ma certo l’asserire che esiste una teoria deterministica di cui non conosciamo praticamente nulla e che sarà la base di una attuale teoria nella sostanza indeterministica, appare un escamotage un po’ troppo facile.
Note
[1] L’“atto di nascita” della termodinamica può esser fatto risalire al 1850, anno in cui Clausius formulò il cosiddetto secondo principio della termodinamica, in base al quale è impossibile che il calore passi spontaneamente da un corpo a temperatura t a uno più caldo a temperatura t+delta di t. Approfondendo gli studi sul secondo principio Clausius giunse a distinguere le trasformazioni reversibili da quelle irreversibili e ad introdurre il fondamentale concetto di entropia.
[2] Qui ci occuperemo solo del principio di causa-effetto per come fu modificato dagli aspetti statistici della meccanica quantistica scoperti nel primo trentennio del XX secolo e di cui il principio di indeterminazione di Heisenberg costituisce la sintesi essenziale.
[3] Aristotele, Fisica, I, 184 a.
[4] Per una succinta esposizione delle critiche di Ockham al principio di causa-effetto, si può consultare Abbagnano, 1961, pp. 118-119.
[5] Hobbes, 1655, 1972, p. 171.
[6] Ibidem, p. 171.
[7] Ibidem, p. 172.
[8] Ibidem, p. 165.
[9] Ibidem, p. 173.
[10] Couturat trovò questo manoscritto di Leibniz nella biblioteca di Hannover. Il manoscritto non aveva titolo. Fu il Couturat a darglielo e a pubblicarlo nel 1902 sulla “Revue de Métaphysique et de Morale”.
[11] Leibniz, 1686?, 1992, p. 182.
[12] Ibidem, p. 183.
[13] Ibidem, p. 186.
[14] Ibidem, p. 186.
[15] Leibniz, 1686, 1967, p. 76.
[16] Quel che Leibniz chiamava forza oggi viene detta energia cinetico, o meglio equivale al doppio dell’energia cinetica. È noto che Leibniz polemizzò con i cartesiani poiché questi ritenevano la quantità di moto mv la grandezza dinamica fondamentale, mentre Leibniz riteneva tale la “forza”, . Si veda su questo argomento il capitolo XVII del Discorso di metafisica.
[17] Leibniz, 1686, 1967, p. 85-86.
[18] Ho affrontato il problema del presunto platonismo di Galilei nel commento che ho posposto alla traduzione del Sidereus Nuncius. Si veda Galilei, 1610, 2001, pp. 51-88, in particolare pp. 69-79, paragrafo intitolato “Galilei: il suo supposto platinismo e il metodo sperimentale”.
[19] A questo proposito si consulti il secondo capitolo del quarto libro dei Nuovi saggi sull’intelletto umano. In Leibniz, 1703, 1968, pp. 495-510.
[20] Leibniz, 1710, 1967, parte prima, paragrafo 44, p. 484 e Leibniz, 1714, 1989, paragrafo 31, p. 150.
[21] Leibniz, 1710, 1967, parte prima, paragrafo 44, p. 484.
[22] Leibniz, 1714, 1989, paragrafo 32, p.151.
[23] Hume, 1739-1740, 1987, p. 84.
[24] Ibidem, p. 84.
[25] Ibidem, p. 87.
[26] Ibidem, p. 87.
[27] Ibidem, p. 103.
[28] Ibidem, p. 110.
[29] Hume fa questi esempi in Ibidem, p. 140.
[30] Kant espone queste concezioni nel primo libro, § 10 dell’“Analitica trascendentale”. Si veda Kant, 1787, 1987, pp. 111-116.
[31] “Analitica trascendentale”, primo libro § 26, Kant 1787, 1987, pp. 150-154, citazione p. 153.
[32] Kant, 1783, 1992, pp. 145-147.
[33] Ibidem, p. 147.
[34] Laplace formula questa convinzione in Teoria analitica della probabilità (1812). Io ho ripreso la citazione da Abbagnano, 1961, p. 118.
[35] La storia e Le idee-guida sono consultabili in Mach, 2005, rispettivamente alle pagine 41-111 e 113-133.
[36] Mach, 1883, 2001, p. 101.
[37] Mach, 1872, 2005, p. 81.
[38] Mach, 1883, 2001, p. 472.
[39] Mach, 1905, 1982, p. 273n.
[40] Mach, 1883, 2001, p. 157.
[41] Mach, 1872, 2005, p. 63.
[42] Mach, 1883, 2001, p. 194-seg.
[43] Mach, 1872, 2005, pp. 66-67.
[44] Ibidem, p. 66.
[45] Il rapporto tra la meccanica e le altre parti della fisica è uno dei temi centrali del pensiero machiano, ma non può essere qui affrontato perché richiederebbe, da solo, un intero lavoro. Per una succinta formulazione e soluzione della questione, il lettore può consultare Mach, 1872, 2005, capitolo “La fisica meccanicistica”, pp. 71-84. Intere sezioni de La Meccanica sono poi dedicate a questo problema.
[46] Mach, 1872, 2005, p. 85.
[47] Mach, 1905, 1982, pp. 31-32.
[48] Ibidem, p. 272. Tra l’altro l’idea che i nessi funzionali fenomenici siano a fondamento tanto del “fisico” quanto dello “psichico”, derivata anche dagli studi ed esperimenti sulle sensazione e percezioni condotti di Mach, condussero il filosofo austriaco a concludere che non vi è sostanziale differenza tra “fisico” e “psichico” e tra Io e Mondo. Non è qui possibile approfondire questa interessante sezione dell’opera machiana. Rimandiamo a Conoscenza ed errore dove queste idee sono sviluppare con dovizia di particolari. La seguente breve citazione tratta dalla Meccanica è però di per sé sufficiente a inquadrare l’ordine di idee di Mach: “Penso che una ricerca fisica prudente renderà necessari nuovi studi sulla sensazione. Riconosceremo allora – e cominciamo già a farlo – che la nostra sensazione di fame non è molto diversa della tendenza dell’acido solforico verso lo zinco, e la nostra volontà non è diversa dalla pressione della pietra sul suo supporto.” In Mach, 1883, 2001, pp. 455-456.
[49] Mach, 1872, 2005, pp. 95-96.
[50] Mach, 1883, 2001, p. 453.
[51] Mach, 1905, 1982, p. 274.
[52] Si veda, per esempio, Mach, 1883, 2001, pp. 478-479.
[53] Ho ripreso questo esempio da Schrödinger, 1944, 1995, pp. 31-37.
[54] In realtà la questione non è affatto semplice perché se, per esempio, la determinazione delle condizioni iniziali implicasse la conoscenza di una infinità di dati, sarebbe impossibile eliminare la descrizione statistica anche in linea di principio. Un’ottima analisi di questi problemi accessibile al lettore che ha conoscenze matematiche di livello medio è in Toraldo di Francia, 1976, capitolo III, pp. 221-314.
[55] La bibliografia sulla storia della meccanica quantistica è semplicemente sterminata. Un ottimo testo di carattere semidivulgativo è Gamow, 1966. Acor più discorsivo, ma chiaro e rigoroso nei limiti propostisi dall’autore è Rydnik, 1975. Più tecnico, ma non per specialisti è Cohen-Tannoudji, Spiro 1986, 1988. Decisamente più specialistico è Hund, 1975, 1980. Un testo classico sui primi trent’anni della teoria dei quanti, adottato anche come manuale universitario, è Heisenberg, 1930, 1979.
[56] Penrose, 1989, 1998, pp. 302-303.
[57] Ibidem, p. 312.
[58] Heisenberg, 1958, 1966, pp. 59-62.
[59] Ibidem, p. 55.
[60] Ibidem, p. 63.
[61] Heisenberg, 1959, 1960, p. 60.
[62] Heisenberg, 1958, 1966, p. 63.
[63] Ibidem, p. 67.
[64] Ibidem, pp. 68-69.
[65] È bene ricordare che il principio di indeterminazione non riguarda solo posizione e quantità di moto di una particella, ma coinvolge altre grandezze fondamentali quali l’energia e il tempo asserendo che il prodotto dell’ideterminazione dell’energia per l’intervallo di tempo in cui osserviamo il sistema per computare tale energia è maggiore della costante di Planck. In simboli .
[66] Per il paradosso di Einstein-Podol’skij-Rosen e il gatto di Schrödinger si può consultare Toraldo di Francia, 1976, pp. 394-404 e Penrose, 1989, 1998, pp. 360-368 e 374-378 rispettivamente.
[67] Planck, Causalità e libero arbitrio, 1920, in Planck, 1993, p. 142.
[68] Ibidem, p. 148.
[69] Planck, La causalità della natura, 1932, in Planck, 1993, p. 265.
[70] Planck, 1914, in Planck, 1993, p. 90.
[71] Planck, 1932, in Planck, 1993, p. 268.
[72] Ibidem, p. 279.
[73] Planck, 1938, Determinismo o indeterminismo, in Planck, 1993, p. 347.
[74] Planck, 1932, in Planck, 1993, p. 280.
[75] Schrödinger, 1952, L’immagine attuale della materia, in Heisenberg-Schrödinger-Born-Auger, 1969, pp. 56-57.
[76] Ibidem, p. 61.
[77] Penrose, 1989, 1998, p. 313.
Commenti recenti