Dopo un’efficace panoramica della tradizione pagana e cristiana del pregiudizio di genere, Ercolani si sofferma sul pensiero femminista tra affermazione della differenza e ricerca dell’uguaglianza, con condivisibili osservazioni finali ispirate dal Manifesto per un nuovo femminismo e particolarmente dal contributo di Sara Giovagnoli. Dal Rasoio di Occam.
Indice
1. Un antico pregiudizio
2. Fra tradizione pagana e cristiana
3. Uguaglianza e differenza
4. Per un nuovo femminismo tra Freud ed Hegel
5. Nancy Fraser, Come il femminismo divenne l’ancella del capitalismo
1. Un antico pregiudizio
Che si tratti di un essere fisiologicamente connaturato al male, capace di accoglierlo e di produrlo (e riprodurlo?) in maniera perfino inimmaginabile da parte dell’uomo, è convinzione radicata e agevolmente riscontrabile nel panorama culturale dell’Occidente.
Se è la prima donna Eva a convincere il primo uomo Adamo a disobbedire al volere divino, introducendo così nel mondo il peccato e soprattutto la morte, secondo la chiosa di S. Paolo (Biblia sacra: Rom 5,12), morte che Dio non aveva previsto originariamente per la sua creatura prediletta (Biblia sacra: Sp 2,24); è sempre una donna, stavolta la moglie, a tentare il buon Giobbe, descritto di per sé come «integro e retto, timorato di Dio ed estraneo al male», esortandolo a maledire Dio per tutti i colpi gratuiti ricevuti (Biblia sacra: Gb 1,1 e 2,9).
Né le cose andavano meglio nella cultura della Grecia antica, dove la donna era vista come un essere irrazionale e ferino, sostanzialmente portatore di discordie, guerre e, infine, morte. Nel poema esiodeo de Le opere e i giorni è Pandora, una donna, colei che recita il ruolo di portatrice dei doni che gli dèi fanno agli uomini (fra i quali proprio le donne), dando in questo modo inizio alle interminabili sciagure che da quel momento li avrebbero colpiti (Esiodo, Opere e giorni: vv. 80-82).
Paradigmatico il caso della Medea raccontata da Euripide, che in seguito al tradimento del marito rivela quella che significativamente il tragediografo descrive come un’«indole odiosa e feroce che tutta la riempie» (Medea, vv. 103-104), fino al punto di uccidere i figli e negargli persino la sepoltura, pur di vendicare il proprio sentimento offeso e infliggere dolore al coniuge fedifrago.
Alla furia animale, la Medea di Euripide aggiunge anche l’immancabile nota irrazionale, per esempio quando al marito Giasone che piangeva la morte dei due cari («Figli miei diletti») ella, che pur li aveva uccisi con crudeltà, riesce a rispondere «[diletti] alla madre, non certo a te» (Medea, v. 1397). Una visione, quella di Medea, al tempo stesso olistica e totalitaria (il nucleo famigliare come entità unica e indistinta, per cui il male che colpisce un singolo elemento coinvolge, deve inevitabilmente coinvolgere anche tutti gli altri), ma anche figlia di una deresponsabilizzazione ritenuta del tutto tipica della donna (non sono io a uccidere i figli, è stato mio marito con il suo gesto fedifrago e distruttivo. Io anzi li amo, lui no).
Questa connotazione originaria con cui viene definita l’essenza della donna fin dai testi più antichi e fondanti della tradizione occidentale, è certamente alla base di tutto il portato di discriminazioni intellettuali e sociali che ne sono seguite, e che trovano in san Paolo, ideologo del cristianesimo, il suggello più autorevole.
E’ lui, infatti, che pur in altre opere aveva pronunciato delle parole inaudite per quei tempi, ispirate alla perfetta uguaglianza fra tutte le creature di Dio, comprese il maschio e la femmina (Biblia sacra: Gal 3,26-28), ad esprimersi in maniera inequivocabile attraverso delle vere e proprie sentenze che sarebbero rimaste indelebili sulla parete della coscienza cristiana e occidentale:
Voglio tuttavia che sappiate che capo di ogni uomo è Cristo, capo della donna è l’uomo e capo di Cristo è Dio […] Le mogli siano obbedienti al proprio marito come al Signore […] Le donne tacciano nelle assemblee, perché non è permesso loro di parlare: siano sottomesse, piuttosto, come recita la legge (Biblia sacra: 1Cor 11,3; Ef 5,22; 1Cor 11,8).
Una vera e propria paura della donna, mista a una sottovalutazione a dir poco sospetta, visti i toni estremi, che certamente, come scriveva Jean Delumeau nel suo illuminante La peur en Occident (1978: 309), non costituisce una prerogativa esclusiva dell’ascetismo cristiano, visto che a Roma si considerava la «debolezza» o «pusillanimità» mentale della donna (imbecillitas mentis) come un dato perfettamente naturale, e anche nella tradizione greca, malgrado l’ampio lasso di tempo che separò le opere di Esiodo e Omero dall’Atene democratica, le cose non cambiarono molto, visto che un campione della democrazia come Pericle poteva affermare (anticipando S. Paolo) che «la virtù più grande di una donna è saper tacere» (cfr. Fossier 1991: 360).
2. Fra tradizione pagana e cristiana
L’analisi incrociata della tradizione cristiana e di quella pagana conduce sostanzialmente allo stesso assunto di fondo: quello di una creatura, la femmina, viziata fin dall’origine, difettosa e quindi portatrice insana di un virus malefico ben capace di distruggere l’armonia terrena, e anzi, a pensarci bene, perfettamente in grado di identificarsi con quel «male» che è caratteristica della vita mondana segnata dall’assenza di Dio e quindi del Bene (privatio boni).
Per la tradizione pagana Aristotele si impegna a descrivere con analisi minuziose l’inferiorità e la difettosità dell’anatomia femminile rispetto a quella maschile, concludendo che le femmine «sono per natura più deboli e più fredde, e si deve supporre che la natura femminile sia come una menomazione» (Aristotele, De gen. anim.: 775a, 15-16), ma anche lo stesso Platone, pur alieno dal maschilismo viscerale degli altri filosofi antichi, nel Timeo (90e – 91a) immagina che la donna sia stata prodotta da un processo di corruzione dell’uomo.
Per la tradizione cristiana, si può ricordare S. Ambrogio, che nella fisiologica diversità fra l’uomo che è spirito (mens) e la donna che è sensazione (sensus), riteneva di scorgere la risposta al quesito teologico del tempo, cioè se fosse più colpevole Adamo oppure Eva nell’aver ceduto alla tentazione del maligno: sicuramente Adamo, perché lei non era particolarmente furba, e aveva dalla sua la scusante della stupidità (S. Ambrogio, De inst. Virg.: PL 16, col. 325).
Ma anche S. Tommaso, che nella Summa theologiae riprende proprio Aristotele e la definizione che questi dava della donna in quanto «maschio mancato» (mas occasionatus), per arrivare a confermare la sua sottomissione e inferiorità rispetto all’uomo (subiectio et minoratio), nei confronti del quale ella svolge un ruolo di aiuto, ma soltanto finalizzato a «cooperare alla generazione» (in adiutorium generationis), perché per tutto il resto altri maschi potevano essere ben più efficaci.
E del resto, che di solo aiuto si tratta, lo evinciamo dal fatto che anche nella procreazione è comunque l’uomo, con il suo seme, a svolgere un ruolo attivo (virtus activa), mentre a quell’essere «difettoso e mancato» (deficiens et occasionatus) che è la donna resta una mera funzione passiva di instrumentum procreationis (Tommaso d’Aquino, Summa Theol.: I, q. 92, arg. 1,2, co. e ad. 1).
Insomma, irrazionalità, debolezza (fisica ed emotiva), pusillanimità, difettosità generalizzata della sua natura, ma ancora, aspetto imperdonabile e irrecuperabile per la cultura cristiana, «porta del Diavolo» (diaboli janua), «prima ad abbandonare la legge divina» (legis prima desertrix), di fatto vera e propria incarnazione del male (Tertulliano, De cultu foem.: PL 1, col. 1419).
Siamo di fronte a un marchio indelebile, destinato a caratterizzare per secoli la reputazione e la condizione della donna, nonché a giustificare ampiamente l’oppressione maschile e le discriminazioni attuate nei suoi confronti lungo i secoli.
Marchio tanto indelebile quanto influente: indelebile perché non risolvibile neppure con l’educazione e l’istruzione, influente perché capace di convincere di ciò persino una personalità illuminata come quella di J.J. Rousseau (non certo l’unico), che nell’Émile ou de l’éducation scrive:
Tutta l’educazione delle donne deve essere relativa agli uomini. Piacere loro, essergli utili, farsi amare e onorare da loro, allevarli da giovani e prendersi cura di loro da adulti, consigliarli, consolarli, rendere la loro vita piacevole e dolce: ecco i doveri delle donne in tutti i tempi e ciò che bisogna insegnargli fin dalla loro infanzia (Rousseau, O.C.: II, 637).
Il timore che la fragilità innata impedisse alle donne di impegnarsi negli studi più alti è stato condiviso anche al di là dell’Oceano, e per di più quando già eravamo da poco entrati nel XX secolo. Negli Stati Uniti, infatti, alcune commissioni mediche vennero incaricate di analizzare le prime studentesse con lo scopo di prevenire il sovraffaticamento del cervello e verificare il timore diffuso che lo studio troppo impegnativo potesse implicare la sterilità delle loro ovaie (Matthaei 1985: 5).
Un pregiudizio imponente e sedimentato nel sentire comune degli individui dalla matrice culturale più varia e diversa. Un vero e proprio muro all’apparenza insormontabile, destinato a separare la donna dal raggiungimento di una consapevolezza e di una riconoscibilità culturale e sociale in grado di parificarla all’uomo.
3. Uguaglianza e differenza
La ricerca di una parità, infatti, o se si preferisce dell’uguaglianza, è stato il leit-motiv costante delle prime battaglie culturali condotte in difesa delle donne, quasi un programma minimo di reazione, si potrebbe dire col senno di poi, volto a tentare di scalfire quel grande muro costruito con le pietre della maledizione e del pregiudizio.
Prendiamo il caso di Mary Wollstonecraft, per esempio, che esattamente trent’anni dopo l’Emilio di Rousseau compone un’opera, forse la prima sistematicamente compiuta nel panorama della letteratura femminista, che sembra una risposta diretta al filosofo francese.
Per esempio là dove scrive che
per rendere il contratto sociale veramente giusto, con lo scopo di diffondere quei principi illuminanti che soli possono migliorare il destino dell’uomo, alle donne deve essere concesso di fondare la propria virtù sulla conoscenza, cosa scarsamente possibile se non vengono educate con gli stessi criteri e obiettivi degli uomini (Wollstonecraft 1792 (1891): 250).
La scrittrice inglese riconosce il livello inferiore delle donne dell’epoca, per lo più interessate all’aspetto estetico, alle storie d’amore e alla sola, piccola e misera, dimensione privata. Ma imputa tale condizione non a un’inferiorità congenita, bensì alla società governata dai maschi, che esclude la maggior parte di loro dalla possibilità di ricevere un’educazione culturale e mentale adeguata.
Si tratta di un’esplicita richiesta di uguaglianza delle opportunità, con delle finalità neppure troppo sconvolgenti (per l’ordine valoriale della tradizione occidentale). Infatti Wollstonecraft sottolinea sì la «massima importanza» che deve essere riconosciuta all’educazione nazionale delle donne, con lo scopo ultimo di renderle «creature razionali» e «libere cittadine» affinché possano diventare «buone moglie buone madri» (Wollstonecraft 1792: 255 e 257).
Certo, si era saliti di livello. In quel «libere cittadine» era comunque insita un’istanza sociale che ha caratterizzato per oltre un secolo la fase cosiddetta «liberal-democratica» della lotta femminista, e che si poneva come scopo quello di far raggiungere alle donne un trattamento paritario all’interno delle società liberali che si erano affacciate alla rivoluzione industriale.
Fatto sta che i protagonisti della tradizione liberale si guardarono bene dall’accogliere tale istanza, tanto che anche lo stesso pregiudizio negativo nei confronti delle donne fece riscontrare un salto di qualità. Non più confinato alla sola sfera dell’indole e della conformazione fisica più debole (e quindi inferiore), ora si tentava di bollare la donna come costituzionalmente incapace di coltivare delle virtù pubbliche e civili, insomma di interessarsi al bene della collettività e della società. Ed è in nome di questo ulteriore pregiudizio che i pensatori liberali, ma anche gli stati che si richiamavano a tale nobile tradizione, esclusero per secoli le donne dal godimento di quei diritti politici e sociali che pur essi teorizzavano con tanta enfasi.
Basti pensare al padre del liberalismo economico, Adam Smith. Questi, ritenendo che il possesso della generosità e dello spirito pubblico fosse fondato sullo stesso principio della giustizia, distingue la generosità dall’umanità e conclude che quest’ultima è una virtù della donna, mentre la prima appartiene all’uomo. Il «sesso debole» è sì fornito di umanità e maggiore sensibilità rispetto al maschio, ma si tratta di una dote che si estrinseca nella sfera privata, quella della cerchia ristretta degli affetti. Nel più ampio ambito sociale la donna è meno generosa e meno disposta a impiegare i beni propri o della propria famiglia per il bene della collettività (Smith 1759: 190).
Allo stesso modo la pensava Tocqueville, compiaciuto nel notare come nella democrazia americana ci si guardava bene dall’impegnare le donne negli affari politici e sociali, che esulassero da quell’ambito famigliare in cui lei è sì la regina, ma comunque sottoposta all’uomo che ne è il «capo naturale» (chef naturel) (Tocqueville 1951 sgg., t. I, v. II: 219-220).
Non c’era niente da fare, insomma, perché il pregiudizio naturalistico si estendeva con grande facilità anche all’ambito sociale, portato avanti da quegli stessi autori liberali da cui era lecito attendersi una ricerca dell’uguaglianza delle opportunità.
È a partire da questi presupposti che il movimento femminista decise di compiere un salto di qualità, concentrandosi sul principio della «differenza sessuale» e non più su quello dell’emancipazione e della ricerca della parità fra uomo e donna.
Gli scritti di autrici come Luce Irigaray e Julia Kristeva ebbero un’influenza enorme soprattutto sul movimento femminista italiano, artefice di una dura requisitoria contro il concetto di uguaglianza inteso come momento incapace di valorizzare le differenze di un essere, quello femminile, che doveva uscire dall’ordine costituito maschile e liberarsi dai rischi dell’omologazione. Insomma, se «lo sfruttamento delle donne è fondato sulla differenza sessuale, non può risolversi che attraverso la differenza sessuale», secondo le parole della stessa Irigaray (Boccia 2002: 155-8).
La donna, insomma, almeno quella immaginata dalle femministe, prende le distanze da quel cosmo maschile che l’ha culturalmente bollata e relegata ai margini più bassi del consorzio sociale, e nel fare questo, in maniera coerente, si trova a rimettere in discussione ogni aspetto della storia del pensiero, della storia e della prassi politica, persino del linguaggio, poiché questi sono tutti rami di una pianta malata all’origine: la pianta di un mondo pensato dagli uomini e per gli uomini, in cui la donna è destinata a recitare un ruolo marginale, quando non subordinato o del tutto strumentale (servile).
4. Per un nuovo femminismo tra Freud e Hegel
Non è compito di questo saggio tentare di trarre un bilancio della deviazione estremistica posta in essere dal movimento femminista negli ultimi decenni del XX secolo, né certamente di tentare un bilancio esaustivo della vicenda femminile nel suo complesso, quanto piuttosto evidenziare quello che mi sembra un ulteriore salto di qualità nel rapporto tra filosofia e pensiero femminista.
Questo ulteriore salto di qualità è composto certamente da slanci in avanti significativi, ma anche da ripensamenti tanto inaspettati quanto prolifici sul piano della speculazione scientifica e su quello di una nuova percezione che le donne posso avere della propria identità di genere.
L’occasione è fornita dall’uscita, per i tipi di Mimesis, del Manifesto per un nuovo femminismo, a cura di Maria Grazia Turri (pp. 236), filosofa ed economista dell’Università di Torino, che si avvale dei contributi di studiose e studiosi di estrazione culturale e ambiti disciplinari diversi.
Dalla lettura di questo testo, veniamo a scoprire un cambiamento radicale di atteggiamento che si manifesta fin dalla premessa contenuta nel saggio intitolato Specchio, della psicologa e ricercatrice dell’Università di Bologna Sara Giovagnoli. La cui lettura mi ha ispirato una parafrasi del celebre incipit del Manifesto di Marx ed Engels: un fantasma si aggira dentro l’animo di ogni donna! Tremendamente capace di condizionarla, di fornirla di senso come anche di annichilirla.
Si tratta dello sguardo dell’uomo, una sorta di vero e proprio specchio interiore attraverso cui la donna cerca quell’approvazione in cui reperire finalmente una propria identità pacificata.
In questa strettissima dipendenza dall’approvazione dello «sguardo» maschile risiedevano l’errore fatale e la debolezza congenita della donna fin dai tempi di Simone de Beauvoir, che nel suo celebre Il secondo sesso (1949) scriveva già di una
fanciulla che ha sognato se stessa attraverso gli occhi di uomo: negli occhi di un uomo la donna crede finalmente di ritrovarsi (de Beauvoir 1949: 627).
Lo scopo supremo dell’amore umano è il medesimo dell’amore mistico, ossia l’identificazione con l’amato, la ricerca della sua approvazione, il bisogno di servirlo, di trovare in esso l’identità e il senso della vita, che altrimenti sfuggono tragicamente relegando l’individuo in una dimensione chiusa e soffocante. Senza speranza alcuna di un possibile salvezza.
L’essere che ama per antonomasia è la donna, come scriveva il Nietzsche de La gaia scienza, capace del «dono totale dell’anima e del corpo», con una dedizione incondizionata che fa del suo amore «una fede, la sola che abbia» (cit. in de Beauvoir 1949: 623).
La forza dell’uomo consisterebbe proprio in questo disequilibrio, perché esso non si concede mai del tutto, non abdica mai per farsi servitore della donna amata, mentre a lei è concesso di amarsi soltanto attraverso l’amore che ispira, secondo le parole di de Beauvoir riportate in apertura del suo saggio da Giovagnoli (p. 195).
Questo aspetto, possiamo dire consustanziale all’animo femminile, è quanto forse è stato più trascurato dall’ala estremista del movimento femminista, che nel rimarcare la «differenza» delle donne ha spesso dimenticato di «pensare» (e quindi concettualizzare) quelli che sono gli elementi anche di debolezza insiti in quella differenza:
Così come Freud vedeva nelle donne della sua epoca il motivo portante del disagio della civiltà e il simbolo evidente della repressione sociale – scrive Giovagnoli con perspicacia profonda e suggestiva – così oggi, nell’illusiva parvenza di parità, nella corsa alla conquista del negato, possiamo vedere nella donna moderna una persona altrettanto frustrata, non più vittima della repressione sociale, ma della sua stessa repressione. È lei stessa che si vincola, che si impone delle rinunce, che castra il suo essere donna e si getta tra le braccia della nevrosi. Forse è meglio cadere vittima per propria mano che per quella altrui? Meglio una castrazione autoinflitta di una subìta? Ma poi, a prezzo di tutto ciò, le donne di oggi hanno realmente maggior potere? Abbiamo parlato dell’attrazione, sfruttata come oggetto, un mezzo per arrivare alla mèta finale (affermazione dell’intelletto). Ma, a parere di chi scrive, più che una proprietà della donna, sembra una concessione dell’uomo. Nell’illusione del pieno controllo del mezzo, ci troviamo ancora una volta a subire una decisione altrui. Il credere di sfruttare questo potere è un misero ripiego per nascondere un’ulteriore imposizione. È in realtà l’uomo che ci concede il potere illusorio dell’attrazione, che non è mai appartenuto fino in fondo alla donna. Scarso o nullo è, in verità, il potere che ella ha sulla razionalità maschile (p. 206).
Ora, tralasciando il fatto, peraltro non marginale, su quanto converrebbe all’economia globale della società che la donna riuscisse effettivamente a «scalfire» l’impianto razionale dell’uomo (materia di discussione pressoché infinita), bisogna prendere atto di un dato filosofico sostanziale che sembra uscire da questo Manifesto: la proposta di riappacificazione del pensiero femminista con Freud (o quantomeno un tornare a leggerlo con obiettività e profitto), il cui contenuto obiettivamente maschilista di alcuni scritti è stato fin troppo volgarmente esasperato, ma anche con Hegel, il pensatore su cui le femministe storiche proponevano di «sputare».
E non tanto lo Hegel che riproduceva gli schemi reazionari già visti, per esempio nella Fenomenologia dello spirito, in cui definisce il «femminino» come l’«eterna ironia della comunità», l’elemento limitato e limitante pronto a sminuire il fine universale del governo riconducendolo a fine privato, a «possesso e orpello della famiglia», oppure nella Filosofia del diritto, dove attribuisce all’uomo una vita sostanziale e reale che si realizza nello stato e nella scienza, a differenza della donna, per cui ciò avviene esclusivamente nell’ambito della famiglia (Hegel 1807, v. 2: 34; 1821: § 166).
Quanto piuttosto, potremmo dire, con il metodo dialettico hegeliano, nella misura in cui esso permette di superare la contrapposizione duale maschio/femmina, per rimettere al centro il concetto di individuo, non più sospeso nella dicotomia differenza/uguaglianza, ma riconosciuto e sintetizzato nel concetto di libertà (che le contiene, o le dovrebbe contenere, entrambe).
Un aspetto quanto mai centrale per l’epoca odierna, in cui occorre andare oltre, e qui risiede una tesi dirompente del volume, per superare quel femminismo anacronistico che, rimanendo comunque ancorato alla rigida distinzione di genere (o «differenza»), dimentica «tutto il resto del mondo», come scrive la curatrice Maria Grazia Turri nel suo lungo saggio introduttivo. Come per esempio i gay uomini, a cui una femminista storica del calibro di Luisa Muraro voleva negare il diritto di adozione dei bambini, ma anche i transgender, gli ermafroditi etc..
Mai come oggi, insomma, un pensiero femminile e femminista che voglia superare le rigide dicotomie dell’ordine maschile, nonché la logica del dominio e dell’esclusione che lo sottende, deve innalzarsi alla considerazione dell’individuo nella sua irriducibilità generica e sessuale, compiendo un salto di qualità che comprenda le persone non nella loro «differenza», quanto piuttosto nell’in-differenza che le caratterizza come esseri umani (a prescindere dal sesso, dalla razza, dal censo etc.). Cosa che del resto era stata intuita già da Judith Butler nel suo Gender Trouble del 1990 (ora rieditato in italiano attraverso una pregevole edizione per i tipi di Laterza: J. Butler, Questioni di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, pp. 221), là dove scriveva che
la categoria del sesso e l’istituzione naturalizzata dell’eterosessualità sono costrutti, fantasie o feticci, categorie politiche e non naturali (Butler 1999: 126).
Il superamento dell’antico pregiudizio di cui è stata vittima la donna, in nome del quale si è esercitato su di essa un dominio secolare, non può essere superato, almeno non da un pensiero femminista che opera in un’epoca e in una civiltà evolute e libere, attraverso la riproduzione di schemi dicotomici che possono generare nuove forme di dominio e di esclusione. Attraverso questo snodo fondamentale può essere ancora attuale il grande contributo, e la nobile lotta, che il pensiero femminile e femminista hanno condotto, conducono e condurranno contro quella volontà di potenza che alberga irrimediabilmente nell’essere umano. Uomo, donna, gay o transgender che sia.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Aristotele: il testo greco delle singole opere è citato dall’edizione Aristotelis Opera, 11 vv., E Tipographeo Academico, Oxonii 1837
Biblia sacra: vulgatae editionis, Sumptibus P. Lethielleux, Parisiis 1891 (i passi biblici vengono citati direttamente nel testo secondo la vulgata canonica)
Boccia M.L. (2002): La differerenza politica. Donne e cittadinanza, Il Saggiatore, Milano
Butler J. (1999): Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New York – London 1990
De Beauvoir S. (1949): Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 2008
Delumeau J (1983).: La Péché et la Péur. La culpabilisation en Occident, XIII-XVIII siècles, Fayard, Paris
Esiodo: Opere e giorni, in Opere, testo greco a fronte, Utet, Torino 1977
Euripide: Medea, in Le tragedie, 2 vv., Mondadori, Milano 2007
Fossier R. (1991): La société médiéval, A. Colin, Paris
Hegel G.W.F. (1807): Fenomenologia dello spirito, 2 vv., La Nuova Italia, Firenze 1973
Id. (1821): Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani, Milano 2006
Matthaei J. A. (1985): Histoire économique des femmes aux États-Units, L’Age d’homme, Paris
PL: Migne patrologia latina, 217 vv., in Patrologiae cursus completus, Paris 1845-1866
Platone: il testo greco delle singole opere è citato dall’edizione Platonis Opera – The Works of Plato, 5 vv., Clarendon Press, Oxford 1901-1907
Rousseau J.J.: Oeuvres complete, 4 vv., A. Houssiaux Libraire, Paris 1852
Smith A.(1759): The Theory of Moral Sentiments, Liberty Fund, Indianapolis 1984
Tocqueville A. (1951 sgg.): Oeuvres complètes, Gallimard, Paris
Tommaso d’Aquino: Summa theologica, diligenter emendata, De Rubeis, Billuart et aliorum notis selectis ornata (1266-1273), 6 vv., Marietti, Torino 1932
Turri M.G., a cura di, (2013): Manifesto per un nuovo femminismo, Mimesis, Milano
Wollstonecraft M. (1792): A Vindication of the Rights of Woman, Scott, London 1891
5. Nancy Fraser, Come il femminismo divenne l’ancella del capitalismo
Uscito su The Guardian e tradotto dai Quaderni di san Precario.info.
Come femminista ho sempre pensato che, combattendo per l’emancipazione delle donne, stavo anche costruendo un mondo migliore – più egualitario, più giusto, più libero. Ultimamente ho cominciato a temere che gli ideali ai quali le femministe hanno aperto la strada vengano utilizzati per scopi molto diversi. Mi preoccupa, in particolare, che la nostra critica del sessismo fornisca oggi giustificazione a nuove forme di disuguaglianza e di sfruttamento.
Quasi fosse un crudele scherzo del destino, il movimento per la liberazione delle donne sembra essersi avviluppato in una relazione pericolosa con gli sforzi neoliberisti nel costruire la società del libero mercato. Questo potrebbe spiegare perché una serie di idee femministe, che un tempo facevano parte di una visione del mondo radicale, oggi vengono utilizzate a fini individualistici. In passato, le femministe criticavano una società dove si promuoveva il carrierismo, adesso viene consigliato alle donne di “affidarsi”. Il movimento delle donne una volta aveva come priorità la solidarietà sociale, oggi festeggia le imprenditrici. La prospettiva di allora valorizzava la “cura” e l’interdipendenza umana, ora incoraggia il progresso individuale e la meritocrazia.
Ciò che si nasconde dietro tutto questo è un cambiamento di rotta del paradigma capitalista. Il capitalismo stato-assistito del dopoguerra ha lasciato il posto a una forma innovativa di capitalismo, “disorganizzato”, globalizzato, neoliberista. La seconda ondata del femminismo è emersa come critica al capitalismo di prima maniera, ma infine è diventata ancella del capitalismo contemporaneo. Con il senno di poi, possiamo sostenere che il movimento di liberazione delle donne ha contemporaneamente puntato a due diversi futuri possibili. In un primo scenario, esso ha disegnato un mondo in cui l’emancipazione di genere andava di pari passo con la democrazia partecipativa e la solidarietà sociale; nel secondo , ha promesso nuove forme di liberalismo, in grado di garantire alle donne, così come agli uomini, i “beni” dell’autonomia individuale, un ampliamento delle scelte , l’avanzamento meritocratico. Il femminismo di “seconda generazione” è stato, insomma, ambiguo in questo senso. Compatibile con entrambe le rappresentazioni della società, dunque suscettibile di due diverse concezioni della storia.
A mio parere, questa ambivalenza del femminismo in questi ultimi anni si è risolta a favore della seconda impostazione, quella liberista-individualista. Ma non perché noi donne siamo state vittime passive di seduzioni neoliberiste. Al contrario, noi stesse abbiamo direttamente contribuito a far raggiungere al capitalismo questo stadio di sviluppo attraverso tre blocchi di idee importanti. Il primo contributo è rappresentato dalla nostra critica al “salario familiare”: il modello del maschio breadwinner e della femmina casalinga è stato centrale per il capitalismo stato-assistito, così per come esso era organizzato. La critica femminista a quel modello ora aiuta a legittimare il “capitalismo flessibile”. Questa nuova forma organizzativa del capitale contemporaneo si basa molto sul lavoro femminile salariato, soprattutto a basso costo, nei servizi e nella manifattura , garantito non solo da giovani donne single, ma anche da donne sposate e donne con figli; non solo da donne razzializzate, ma da donne di tutte le nazionalità ed etnie. Le donne si sono riversate nel mercato del lavoro globalizzato e il modello del capitalismo stato-assistito basato sul “salario familiare” è stato sostituito da una nuova e più moderna “norma” – apparentemente approvata dal femminismo: quella di una famiglia con due percettori di reddito.
Non importa che la realtà che sta alla base di questo nuovo paradigma sia il basso livello dei salariali, la riduzione della sicurezza del lavoro, il peggioramento degli standard di vita, un forte aumento del numero delle ore lavorate per garantire un reddito al ménage, l’allargamento di doppi – quando non tripli o quadrupli – ruoli e un aumento della povertà, sempre più concentrata sulle donne capofamiglia. Il neoliberismo trasforma un orecchio di scrofa in una borsa di seta, raccontandoci una storia di empowerment femminile. Si appella alla critica femminista del “salario familiare” per giustificare lo sfruttamento: sfrutta il sogno dell’emancipazione femminile come motore dell’accumulazione capitalistica.
Il femminismo ha anche fornito un secondo contributo all’ethos neoliberale. Nell’era del capitalismo di stato organizzato, abbiamo giustamente criticato una visione politica ristretta, così intensamente centrata sulla disuguaglianza di classe che non vi trovavano posto le ingiustizie “non economiche”, come per esempio la violenza domestica, la violenza sessuale e l’oppressione riproduttiva. Rifiutando l’economicismo e politicizzando “il personale”, le femministe hanno ampliato l’agenda politica generale, aggiungendo a essa il tema della costruzione gerarchica della differenza di genere. Il risultato avrebbe dovuto essere quello di espandere la lotta per la giustizia sociale, comprendendo sia gli elementi culturali che economici. Il risultato effettivo è stato invece una concentrazione estrema del femminismo sul tema dell’“identità di genere”, a scapito delle questioni che hanno a che vedere con il pane e con il burro. Vediamola peggio ancora: la svolta femminista verso una politica identitaria si è alleata fin troppo strettamente con un neoliberismo in crescita che non desiderava altro che reprimere ogni ricordo delle battaglie per l’uguaglianza sociale. In effetti, abbiamo assolutizzato la critica del sessismo culturale proprio nel momento in cui le circostanze avrebbero richiesto di raddoppiare l’attenzione intorno alla critica dell’economia politica.
Infine, il femminismo ha contribuito al neoliberismo con un terzo filone di pensiero: la critica al paternalismo dello stato sociale. Innegabilmente progressista nell’epoca del capitalismo di stato fordista, il giudizio negativo del femminismo è coinciso con la guerra del neoliberismo contro “lo stato balia” e i suoi più recenti cinici abbracci con le Ong. Un esempio significativo è rappresentato dal “microcredito”, il programma di piccoli prestiti bancari per le donne povere nel sud del mondo. Propagandato come un processo di potenziamento dal basso verso l’alto, alternativo a decisioni di vertice e alla burocrazia dei progetti statali, il microcredito è stato presentato come uno degli antidoti femministi alla povertà e alla sottomissione delle donne. In questo, ciò che è mancato è la consapevolezza di un’ulteriore coincidenza inquietante: il microcredito è fiorito proprio nel momento in cui gli stati abbandonavano gli impegni macro-strutturali per combattere la povertà, impegni che i prestiti su piccola scala non possono assolutamente sostituire. Anche in questo caso, quindi, l’ideale femminista è stato ripreso dal neoliberismo. Una prospettiva originariamente finalizzata a democratizzare lo stato, responsabilizzando i cittadini, viene impiegata ora per legittimare la mercificazione e il disgregarsi dello stato sociale.
In tutti questi casi, l’ambivalenza del femminismo si è risolta a favore di un (neo)individualismo liberista. Ma certamente l’altro lato di noi, cioè le prospettive rappresentate dal femminismo solidale, potrebbe essere ancora in vita. La crisi attuale offre la possibilità di ampliare ancora di più quell’impostazione, ricollegando il sogno di liberazione della donna con la visione di una società solidale. A tal fine, le femministe hanno bisogno di rompere la relazione pericolosa con il neoliberismo, recuperando ai propri fini i tre “contributi” di cui abbiamo parlato.
In primo luogo, si dovrebbe rompere il falso legame tra la nostra critica al “salario familiare” e ciò che sono diventati gli attuali approdi del capitalismo del lavoro precario, combattendo per una forma di vita che non metta al centro il lavoro di scambio ma valorizzi le attività che producono valore d’uso, tra cui – ma non solo – il lavoro di cura. In secondo luogo, dovremmo fermare lo scivolamento della critica all’economicismo verso una politica identitaria, implementando la lotta per trasformare l’ordine del discorso fondato su valori culturali patriarcali con la lotta per la giustizia economica. Infine, sarebbe necessario recidere il legame tra la critica alla statalizzazione e al fondamentalismo del libero mercato, recuperando il concetto di democrazia partecipativa come un mezzo per rafforzare i poteri pubblici necessari a vincolare il capitale a finalità di giustizia.
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