Originariamente pubblicato nella “Rivista Italiana di Filosofia del linguaggio” (2013) Vol. 7, n. 2, pp. 222-225.
Nel corso di un dialogo malinconico o concitato, una donna dice all’uomo fino ad allora prediletto ‘non è che non ti amo’. Per nulla lusingato, costui coglie al volo due verità filosofiche. La prima è che la doppia negazione non equivale mai all’affermazione di cui sembra fare le veci. Incolmabile è la distanza logica e sentimentale che separa lo spinoso ‘non è che non ti amo’ dal rassicurante ‘ti amo’. Una volta introdotta, la coppia di ‘no’ consecutivi non può essere eliminata mediante la sua traduzione in uno schietto ‘sì’: l’enunciato ‘non (non p)’ ha ormai spostato l’asse del discorso, adombrando un significato ulteriore, eterogeneo e spesso stridente rispetto a quello espresso da ‘p’. La seconda verità filosofica, con cui entra in confidenza l’uomo turbato, è che la negazione di una negazione non descrive alcunché, ma costituisce una azione. Parassitario e superfluo dal punto di vista cognitivo, ‘non è che non ti amo’ ha però un formidabile valore pragmatico. Anziché offrire il resoconto di uno stato di cose già delineato, ne instaura uno nuovo e imprevisto. L’uomo non si domanda se le parole ascoltate corrispondano o meno alla realtà, bensì che cosa stia facendo la donna nel pronunciarle, ovvero quale sia la realtà che proprio il suo speech act produce. Le due verità si implicano a vicenda, così da formare una sorta di circolo. Lo scarto semantico tra ‘non (non p)’ e ‘p’ cessa di essere misterioso soltanto se si riconosce che dire ‘non (non p)’ è una azione; e viceversa, l’azione che si compie dicendo ‘non (non p)’ diventa intelligibile soltanto se si tiene presente l’esistenza di uno scarto semantico tra ‘non (non p)’ e ‘p’.
La doppia negazione modifica il significato basilare su cui vertono (o avrebbero potuto vertere) tanto la negazione semplice, quanto l’affermazione diretta. L’amore di cui si parla in ‘non è che non ti amo’ diverge per qualche aspetto importante da quello in questione sia nel catastrofico ‘non ti amo’ che nel tenero ‘ti amo’ del bel tempo andato. È un affetto in via di trasformazione, colmo di sfumature inedite. Allorché nega di non amare il suo compagno, la donna lascia però intendere che le riesce difficile amarlo come prima, nel modo a lui caro. Alterando il senso neutrale ‘amarti’ fin lì predominante, la doppia negazione crea una curiosa zona di indeterminazione nella quale non si rifiuta del tutto, ma neanche si accetta appieno. Si presti attenzione all’uso del ‘non’ davanti agli aggettivi negativi. Chi dice ‘Pietro non è insincero’, ‘Luisa non è infelice’, ‘la soluzione non è inconcepibile’, non sostiene affatto che Pietro sia realmente sincero, Luisa davvero felice, la soluzione senz’altro concepibile. Privilegia piuttosto uno stato intermedio tra affermazione e negazione, caratterizzato dalla provvisoria rinuncia a entrambe (dunque da un ‘né…né’). Ed è proprio in questo stato intermedio, o zona di indeterminazione, che avviene la metamorfosi dei significati abituali ‘essere sincero’, ‘essere felice’, ‘essere concepibile’, trattati per l’innanzi come presupposti indiscutibili.
Ogni significato, a prendere per buona una similitudine di Wittgenstein (cfr. supra, cap. III, § 4), è un «intero regolo», cioè uno strumento di misura che fornisce risultati mutevoli nelle differenti occasioni in cui viene applicato. Spetta alla asserzione affermativa e a quella negativa posizionare il regolo su una specifica tacca. Sennonché, là dove si ha una doppia negazione (‘non dico che Giovanna non sia generosa’, mettiamo), è l’«intero regolo» (ossia il contenuto semantico ‘essere generosa’, di per sé aperto a declinazioni opposte) a subire un cambiamento più o meno drastico. Il secondo ‘non’ provvede a variare e a ridefinire lo stesso strumento di misura di cui ci si era serviti in precedenza. Poiché modifica il senso neutrale ancora non qualificato da un ‘sì’ o da un ‘no’, la negazione di una negazione non è equiparabile in alcun modo all’affermazione diretta, che su quel senso invece si basa. Per altro verso, la modificazione del senso neutrale è l’azione (paragonabile a un ordine, a un giuramento, a un verdetto ecc.) che il parlante compie nel momento in cui ricorre alla negazione di una negazione. Sicché, in ultimo, non mi sembra sbagliato imputare il divario tra ‘non è che non ti amo’ e ‘ti amo’ al fatto che l’azione realizzata proferendo il primo enunciato resterebbe disattesa qualora si adottasse il secondo. Le due verità filosofiche, intraviste a malincuore dall’amante cui la donna rivolge la frase fatale, sono versioni diverse, ma intercambiabili, di un unico e medesimo evento: la trasformazione dell’«intero regolo» da parte della doppia negazione.
Si è visto a suo tempo (cap. III, § 6 – vedi qui) che il ‘non’ colloca nell’ambito del possibile lo stato di cose contro cui si scaglia. Chi dice ‘non provo dolore’, evoca la sua potenziale sofferenza; chi dice ‘Giorgio non è stato gentile’ allude al comportamento affabile e premuroso che Giorgio avrebbe potuto tenere. Ciò vale, ovviamente, anche nel caso della doppia negazione. Solo che, in essa, a indossare le vesti del possibile è la negazione originaria, quella che ora ci si impegna a rimuovere. La frase ‘non è che non ti amo’ esclude, sì, la sciagura di cui sarebbe latore ‘non ti amo’, ma, nell’escluderla, ne fa balenare a chiare lettere l’eventualità e, forse, l’incombenza. La costruzione sintattica ‘non (non p)’ esibisce la negabilità di ‘p’ proprio mentre la neutralizza. Ma che cosa ci spinge a usare ‘non (non p)’? Se volessimo contraddire ‘non p’, ci basterebbe affermare ‘p’. Con la doppia negazione, il parlante fa qualcosa di più complesso e ambizioso: mira a creare una situazione in cui ‘non p’, pur essendo possibile, risulti tuttavia incongruo, spuntato, inefficace. La negazione semplice ‘Giacomo non è coraggioso’, incardinata al significato corrente ‘essere coraggioso’, è esautorata dalla seconda negazione, dunque da ‘non dico che Giacomo non sia coraggioso’, la cui specifica prestazione consiste nell’ampliare, o distorcere, o innovare la nozione di coraggio. ‘Non (non p)’, avendo introiettato la negabilità del contenuto semantico iniziale, ripropone quest’ultimo in una accezione inconsueta, rispetto alla quale ‘non p’, simile ormai a un reperto arcaico, non può che mancare platealmente la presa.
Le osservazioni appena esposte sono però troppo reticenti. Eccone una parafrasi meno cauta. La doppia negazione è un microcosmo storico. Tra i due ‘non’ sussiste sempre una discrepanza temporale, ovvero una essenziale diacronia. A scanso di equivoci: non sto parlando di un intervallo computabile con l’orologio. Poco importa se il ‘non’ supplementare sopraggiunge talvolta a distanza di mesi o di anni dal momento in cui scoccò l’altro. Capita, ma è irrilevante. Ciò che conta è che la seconda negazione, per il solo fatto di essere formulata, confina la prima in un “allora” sbiadito, ponendo se stessa come il “dopo” in cui la si giudica e respinge. Diacronica, o storica, è la relazione interna tra ‘non p’ e ‘non (non p)’. Essa riproduce su piccolissima scala l’articolazione del divenire. Nell’enunciato ‘non dico che Giovanna non sia generosa’, la negazione originaria, ‘Giovanna non è generosa’, è ricacciata nel passato, non perché pronunciata tempo addietro e poi riconosciuta falsa, bensì perché l’ulteriore negazione riqualifica il senso neutrale ‘essere generosa’ su cui quella poggiava. Il secondo ‘non’ rintuzza il primo a condizione di renderlo anacronistico. Inscrivendo ‘non p’ nell’ambito del possibile, ‘non (non p)’ ne tiene vivo il ricordo. Ma ‘non p’, in quanto oggetto di un ricordo, è conservato da ‘non (non p)’ come qualcosa di trascorso, che ora non ha più alcuna incidenza operativa. La negazione del comunismo diventa anacronistica, e proprio così è a sua volta negata, allorché il senso di ‘comunismo’ ereditato dal Novecento (idolatria dell’apparato statale, esaltazione della fabbrica ecc.) viene trasformato alla radice da lotte di classe improntate a un civile disprezzo per il lavoro salariato e per quella banda di periferia, insieme marginale e feroce, che porta il nome di Stato. L’enunciato ‘non (non comunismo)’ incorpora in sé, e quindi attesta e tramanda, la negabilità del comunismo, ma fa sì che essa giri a vuoto grazie a uno slittamento semantico del concetto in gioco.
Per smania di completezza aggiungo una ipotesi collaterale, nei confronti della quale provo una attrazione guastata da qualche dubbio. Vi è, forse, un altro modo in cui può aver luogo la modificazione del contenuto semantico ‘p’ a opera di ‘non (non p)’. Supponiamo che ‘p’ concerna un comportamento sociale contingente. L’enunciato negativo ‘non p’ sconfessa questo comportamento. Chiediamoci ora quali effetti abbia la negazione della prima negazione. Invece di riabilitare il comportamento ‘p’ così com’era, il secondo ‘non’ ne altera il senso. Ma in che cosa consiste, di preciso, l’alterazione? La mia ipotesi è che, in alcune circostanze storicamente cruciali (penso soprattutto ai tumulti, alle guerre civili, allo stato di eccezione), la negazione della negazione elevi ‘p’, dalla sua primitiva identità di comportamento contingente, al rango di regola. Nel 1969, alla Fiat Mirafiori, gli operai delle carrozzerie allontanarono dai reparti i cronometristi dediti a tagliare i tempi di lavoro (‘p’, comportamento contingente); l’azienda cercò di cancellare l’episodio, rimettendo al loro posto quei gentiluomini (‘non p’); negli anni successivi gli operai tollerarono la presenza dei cronometristi a patto però che restassero prudentemente oziosi; grazie a questo peculiare ‘non (non p)’, il rallentamento del ritmo produttivo non costituì più un evento sporadico, ma un principio legislativo. Giacché si riferiva ancora a ‘p’ come a un comportamento contingente, ‘non p’ si ritrovò a mordere l’aria: fu ‘non (non p)’ a conferirgli un aspetto anacronistico.
Ripeto: per merito del secondo ‘non’, il fatto empirico diventa un criterio normativo. E un criterio normativo non è mai, di per sé, corretto o scorretto, dato che proprio esso stabilisce il discrimine tra correttezza e scorrettezza. Stando a Wittgenstein, vi sono fatti della vita, esperienze particolari, usi consolidati che, da un certo momento in poi, cominciano ad assolvere la funzione di regole; proposizioni empiriche che, con il passare del tempo, si convertono in proposizioni grammaticali. In un brano di Della certezza (1969, § 96), egli scrive:
Ci si potrebbe immaginare che certe proposizioni che hanno forma di proposizioni empiriche vengano irrigidite e funzionino come una rotaia per proposizioni non rigide, fluide.
Ebbene, il passaggio dal fluido al rigido, dall’empirico al grammaticale, dalla quaestio facti alla quaestio juris è scandito dalla negazione di una precedente negazione. Balza agli occhi l’indole temporale di tale passaggio: il comportamento contingente, emerso allora, acquista in seguito l’autorevolezza di una regola. La relazione diacronica tra i due ‘non’, pietra angolare di ‘non (non p)’, è la forma logica che meglio si attaglia alla genesi storica delle norme. Ma questa, come dicevo, è soltanto una ipotesi collaterale, ancora claudicante, da vagliare con più cura altrove.
La doppia negazione è un frammento di prassi. È l’azione con cui il parlante innova repentinamente il contenuto semantico sotteso tanto alla negazione semplice che all’affermazione diretta. Al pari di qualsiasi altra azione, la doppia negazione non va considerata vera o falsa, ma riuscita o fallita. Profittando della terminologia coniata da John L. Austin a proposito degli enunciati performativi (‘la seduta è aperta’, ‘giuro che non mi vendicherò’, ‘condanno l’imputato a dodici anni di carcere’ ecc.), si potrebbe anche dire che ‘non (non p)’ è felice o infelice. Per Austin, l’enunciato performativo ‘prendo questa donna come mia legittima sposa’ risulta infelice, ossia non realizza il matrimonio, se mancano certe condizioni materiali, quali per esempio la presenza della fidanzata, l’essere celibe, lo stare al cospetto di un prete o di un consigliere comunale. Analoghi sono i vincoli cui soggiace la doppia negazione. L’azione verbale ‘non (non p)’ è infelice, cioè difettosa, se non si connette a un insieme di condotte non verbali, avvenimenti, emozioni che le consentano di variare effettivamente il senso neutrale fin lì vigente. È infelice, dunque, se si limita a convivere con la possibilità della prima negazione, anziché decretarne l’anacronismo. In tal caso, la successione dei due ‘non’ somiglia a un enunciato performativo che sia proferito per celia o recitato da un attore sul palcoscenico: è vacua, priva di conseguenze. La doppia negazione si riduce così a espediente diplomatico, litote, sostituto ridondante dell’affermazione diretta. La riuscita di ‘non è che non ti amo’ dipende in misura considerevole dalla penuria di abbracci, dagli sguardi sfuggenti, dal contegno riservato che preparano o accompagnano la frase. E la felicità di ‘non (non comunismo)’ è assicurata da una sequenza di conflitti politici che, lungi dal ribadirlo, stravolgono l’originario significato di ‘comunismo’ al punto da disinnescare la sua precedente negazione. Benché sia una azione eseguita per intero con le parole, ‘non (non p)’ ricava la propria efficacia dalla fitta rete di azioni non linguistiche che presuppone o sollecita. La doppia negazione, frammento di prassi, si coalizza con innumerevoli frammenti eterogenei (senza però descriverli, si badi); è sorretta da attività taciturne, ma, facendo qualcosa che esse non sarebbero in grado di fare, ne ridetermina a sua volta la natura e il destino.
Bibliografia
FREUD, SIGMUND (1913), Totem und Tabu. Einige im Übereinstimmungen Seelenleben der Wilden und der Neurotiker; trad. it. Totem e tabù. Alcune concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici, Bollati Boringhieri, Torino 1985.
WITTGENSTEIN, LUDWIG (1969), On Certainty, Basil Blackwell, Oxford; trad. it. Della Certezza, a cura di Mario Trinchero, introduzione di Aldo Gargani, Einaudi, Torino 1978.
Commenti recenti