Desideriamo la verità e non troviamo in noi se non l’incertezza. Cerchiamo la felicità e non troviamo se non miseria e morte.
Siamo incapaci di non aspirare alla verità e alla felicità e siamo incapaci di certezza e felicità. Noi vaghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro,
sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di fissarci e di ormeggiarci vacilla e ci lascia; e se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un’eterna fuga. Nulla si ferma per noi.
E’ questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è più lontano dalle nostre inclinazioni. Noi bruciamo
dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificarci una torre
che si innalzi all’infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola, e la terra si apre fino agli abissi.
Pensieri, 72
Indice
1. La polemica anticartesiana
2. La critica del principio d’autorità
3. Il sospetto verso lo «spirito di sistema»
4. Il divertissement, lo spirito religioso, la difesa del giansenismo
5. I Pensieri
5.1 La condizione umana
5.2 Contro il moralismo
5.3 Il pari, la scommessa sull’esistenza di Dio
Blaise Pascal è, dopo Cartesio, il più originale pensatore francese del Seicento.
La vastità dei suoi interessi lo portò a contribuire giovanissimo alla geometria (appena sedicenne scrive il Trattato sulle coniche) alla matematica (costruisce una macchina calcolatrice, la pascaline) e alla fisica, lavorando sulla scia dei problemi sollevati dal cartesianesimo, mentre, sul piano filosofico e religioso, la sua riflessione si intreccia con le vicende storiche del giansenismo – dalle tesi del vescovo Cornelio Giansenio che con Augustinus (postumo, 1641), proponeva, contro la rilassata morale gesuitica, di tornare alla religiosità severa di Agostino, centrata sul peccato originale e sulla limitata capacità di salvezza dell’uomo, senza l’intervento della grazia – e con la diffusione delle sue tesi semiprostestanti che si diffondevano dal convento di Port Royal.
Il suo profilo più celebre è quello dedicatogli da Chateaubriand:
« Ci fu un uomo che a 12 anni, con aste e cerchi, creò la matematica; che a 16 compose il più dotto trattato sulle coniche dall’antichità in poi; che a 19 condensò in una macchina una scienza che è dell’intelletto; che a 23 dimostrò i fenomeni del peso dell’aria ed eliminò uno dei grandi errori della fisica antica; che nell’età in cui gli altri cominciano appena a vivere, avendo già percorso tutto l’itinerario delle scienze umane, si accorge della loro vanità e volge la mente alla religione; […] che, infine, […] risolse quasi distrattamente uno dei maggiori problemi della geometria e scrisse dei pensieri che hanno sia del divino che dell’umano. Il nome di questo genio è Blaise Pascal » [Réné de Chateaubriand, Il genio del cristianesimo].
1. La polemica anticartesiana
La fama filosofica di Pascal è legata soprattutto a un’opera postuma e incompiuta, i Pensieri (Pensées) che ha contribuito a definire l’immagine di un pensatore asistematico, dagli interessi prevalentemente morali o esistenziali, con una forte sensibilità per il lato tragico della vita.
Due aforismi folgoranti, tratti dai Pensieri, si prestano particolarmente a chiarire la sua posizione storica di fronte alla filosofia cartesiana. Nel pensiero 78, della seconda sezione dell’opera, si legge:
«Descartes inutile e incerto».
Il pensiero 206 della terza sezione recita:
«Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa».
Per Pascal, Cartesio ha avuto il merito di incamminare la filosofia verso i sentieri della nuova scienza meccanicista.
Pascal è d’accordo con lui nel sostenere che la matematica e la geometria sono gli strumenti migliori per pervenire a risultati certi sul piano della concezione scientifica del mondo.
La scienza sperimentale, tuttavia, è del tutto impotente a fornire risposte alle domande più importanti per l’uomo, perchè può lavorare solo su realtà fisiche, tangibili, e non certo sul pensiero, sulla volontà soggettiva, ecc. Inoltre, anche gli oggetti vengono colti solo in parte, nelle loro qualità oggettive e misurabili, non in quelle soggettive, cioè in cui è presente una relazione con noi: ad esempio la scienza potrà dire sulla forma della mela, non sul suo sapore o sul suo profumo per me o per un altro.
Cartesio sbaglia a trasferire immediatamente le conseguenze del meccanicismo fisico sul terreno della visione generale dell’uomo, di Dio e della morale. Finché si limita ad affermare che il meccanismo fisico («figura e movimento») spiega «all’ingrosso» il divenire naturale, è nel vero.
Ma quando pretende di dimostrare che ogni aspetto del mondo fisico, ivi compreso l’uomo, è soltanto una «macchina», allora cade nel ridicolo (come nel ricorso alla «ghiandola pineale», per spiegare il rapporto tra l’anima e il corpo), e la sua fondazione metafisica risulta inutile e incerta.
Analogamente, concepire l’universo e il suo movimento in termini meccanici offre una immagine suggestiva dell’infinito cosmico.
Ma ridurre cartesianamente il rapporto tra Dio e l’universo creato all’atto iniziale, mediante cui il primo ha impresso al secondo il suo moto eterno, rendendosi poi “assente” dal funzionamento autonomo della macchina, ha conseguenze morali inquietanti.
L’uomo si sente solo e abbandonato in un universo fisico immenso, avvolto da infiniti spazi vuoti, in cui la presenza di Dio è del tutto oscura e celata (Deus absconditus): l’uomo la coglie piuttosto nello spavento, di fronte all’immensità silenziosa del cielo.
Al minuto 3:40, la critica che Pascal, ventiquattrenne, mosse a Cartesio il 24 settembre 1647.
2. La critica del principio d’autorità
A tali conclusioni, Pascal è giunto in seguito a un protratto tirocinio scientifico. Particolarmente importante è il suo Trattato sul vuoto (1648), in cui dimostra sperimentalmente l’erroneità dell’horror vacui aristotelico e affronta nella prefazione le questioni fondamentali del metodo e dell’ideale scientifico. Il filosofo vi contesta il principio d’autorità – legittimo «nella storia, nella geografia, nella giurisprudenza, nelle lingue e soprattutto nella teologia» – ma non quando si tratta di
«ciò che cade sotto i sensi o sotto il ragionamento: [in tal caso] l’autorità vi è inutile; la ragione sola può conoscere».
Nelle scienze «che sono sottoposte all’esperienza e al raziocinio» dobbiamo quindi guardarci da un malinteso sentimento di riverenza verso gli antichi. Essi stessi, del resto
«le hanno trovate solo abbozzate da coloro che li hanno preceduti: e noi le lasceremo a quelli che verranno dopo di noi in uno stato più compiuto di quello in cui le abbiamo ricevute».
La perfezione di tali discipline «dipende dal tempo e dalla fatica», infatti, la prerogativa dell’uomo, rispetto agli altri animali, è appunto quella di progredire infinitamente nell’esperienza e nel sapere, cosicché
«l’intera successione degli uomini, durante il corso di tanti secoli, deve essere considerata come uno stesso uomo che esiste da sempre e che impara di continuo».
Come per Bacone, dunque, la verità è figlia del tempo, non dell’autorità:
«Quelli che noi chiamiamo antichi erano veramente nuovi in tutte le cose, e formavano propriamente l’infanzia degli uomini; e poiché noi abbiamo aggiunto alle loro conoscenze l’esperienza dei secoli che si sono susseguiti, è in noi che si può trovare quell’antichità che noi riveriamo negli altri».
3. Il sospetto verso lo «spirito di sistema»
Alla polemica contro il principio d’autorità s’intreccia, negli scritti di Pascal, quella contro lo «spirito di sistema». In un secolo dominato dal cosiddetto esprit de système, cioè dalla mentalità sistematica, dalla volontà di dedurre da uno o più principi semplici l’intero sistema della natura, Pascal è l’esempio opposto di uno spirito empirico-positivo ed ha una consapevolezza assai acuta del valore e dei limiti dell’ipotesi scientifica. Come scrive a padre Noël:
«Non basta, perché un’ipotesi sia evidente, che tutti i fenomeni ne conseguano; mentre, se ne consegue qualcosa di contrario a uno solo dei fenomeni, ciò basta per assicurarci della sua falsità».
Compito di uno scienziato non è tanto di andare alla ricerca delle prove sperimentali che convalidano una teoria, quanto di esaminare in maniera spregiudicata quei fatti nuovi che sembrano confutarla. Solo così le ipotesi alternative che vengono proposte hanno la possibilità di emergere e di rafforzarsi.
Del resto – e Pascal cita l’esempio dei tre sistemi astronomici che ai suoi tempi si contendevano il campo: quelli di Tolomeo, di Copernico e di Tycho Brahe -, diverse teorie generali possono a lungo coesistere in virtù della loro capacità di dare una spiegazione degli stessi fatti osservativi, cioè di «salvare i fenomeni», secondo la nota espressione platonica.
Rigetto del principio d’autorità, diffidenza verso le teorie generali o le ipotesi troppo esplicative, valorizzazione dell’esperimento, accompagnata da un’estrema cautela nel trarne formulazioni ipotetiche, sospetto nei riguardi dell’ésprit de système: sono questi gli elementi in cui risalta il genio scientifico di Pascal.
La polemica contro lo spirito di sistema, caratteristico dei cartesiani, suggerisce a Pascal la celebre distinzione tra esprit de géométrie ed esprit de finesse.
Lo spirito di geometria procede per definizioni e per «progresso di ragionamento», cioè in modo deduttivo (la dianoia platonica). I suoi principi «sono palpabili, ma lontani dall’uso comune», cosicché ci vuole un certo esercizio per afferrarli. Ma, una volta colti, essi sono così chiari che è impossibile dedurne conseguenze errate, se si fa un uso regolare e ordinato dell’intelletto: non è difficile cogliere, dietro questa delineazione dell’ideale dimostrativo della geometria, l’ideale metodico di Cartesio.
Al contrario, lo spirito di finezza parte da principi «così sottili e in così gran numero che è quasi impossibile che non ne scappi qualcuno».
Esso si applica a tutto che si riferisce al qualitativo e alla morale. Quelli che giudicano in base allo spirito di finezza «pretendono di capire subito con uno sguardo di insieme, e non hanno l’abitudine di ricercare i principi» (questa definizione avvicina l’esprit de finesse al nous platonico). Vi è una sorta di incompatibilità tra questi e i geometri, che, al contrario,
«hanno l’abitudine di ragionare partendo da principi e non capiscono nulla delle cose del sentimento, poiché vi cercano dei principi e non li possono scorgere con un solo colpo d’occhio» [Pensieri, 1,1-3].
Noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. In quest’ultimo modo conosciamo i principi primi; e invano il ragionamento, che non vi ha parte, cerca d’impugnarne la certezza. I pirroniani, che non mirano ad altro, vi si adoperano inutilmente. Noi, pur essendo incapaci di darne giustificazione razionale, sappiamo di non sognare; e quell’incapacità serve solo a dimostrare la debolezza della nostra ragione, e non, come essi pretendono, l’incertezza di tutte le nostre conoscenze.
Infatti, la cognizione dei primi principi – come l’esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri – è altrettanto salda di qualsiasi di quelle procurateci dal ragionamento. E su queste conoscenze del cuore e dell’istinto deve appoggiarsi la ragione, e fondarvi tutta la sua attività discorsiva. (Il cuore sente che lo spazio ha tre dimensioni e che i 10 numeri sono infiniti; e la ragione poi dimostra che non ci sono due numeri quadrati l’uno dei quali sia doppio dell’altro.
I principi si sentono, le proposizioni si dimostrano, e il tutto con certezza, sebbene per differenti vie. Ed è altrettanto inutile e ridicolo che la ragione domandi al cuore prove dei suoi primi principi, per darvi il proprio consenso, quanto sarebbe ridicolo che il cuore chiedesse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che essa dimostra, per indursi ad accettarle. Questa impotenza deve, dunque, servire solamente a umiliare la ragione, che vorrebbe tutto giudicare, e non a impugnare la nostra certezza, come se solo la ragione fosse capace d’istruirci [Pensieri, 282].
4. Il divertissement, l’esperienza religiosa, la difesa del giansenismo
Oltre all’interesse per le scienze, Pascal è un uomo dalla profonda inquietudine religiosa. Tale sentimento si manifesta fin dal cosiddetto periodo mondano della sua esistenza, attraverso quel senso di noia e di vuoto, che provocano in lui la frequentazione della brillante società dell’aristocrazia parigina con le sue mille occupazioni. È il tema del divertissement, presente in alcuni celebri frammenti dei Pensieri:
«La nostra natura è nel movimento; il riposo totale è la morte» [Pensieri, II, 129]. Infatti nulla «è insopportabile all’uomo quanto essere in un completo riposo, senza passioni, senza faccende, senza divertimento, senza un’occupazione. Avverte allora il proprio nulla, il proprio abbandono, la propria insufficienza, la propria dipendenza, il proprio vuoto. Subito saliranno dal profondo dell’animo suo la noia, l’umor nero, la tristezza, il cruccio, il dispetto, la disperazione» [Pensieri, II, 131].
Con il termine divertissement (divertimento) Pascal intende tutte le «occupazioni particolari» in cui l’uomo si impegna allo scopo di nascondere a se stesso questo minaccioso senso di vuoto e di nullità.
«Gli uomini, non avendo potuto liberarsi dalla morte, dalla miseria, dall’ignoranza, hanno deciso, per essere felici, di non pensarci» [Pensieri, II, 168].
Dunque il pensiero della morte è il pensiero dominante di ogni esperienza religiosa non banale, quello che vale a scuotere l’individuo dalla sua vita inautentica e a farlo tornare in sé. Egli riscopre la propria dignità di essere pensante, trovando in Dio l’autore e il fine dell’esistenza:
«L’uomo è manifestamente fatto per pensare; in questo sta tutta la sua dignità; e tutto il suo valore e tutto il suo dovere stanno nel suo pensare come si deve. Ora, l’ordine proprio del pensiero consiste nell’incominciare da sé, dal proprio autore e dal proprio fine» [Pensieri, II, 146].
Come afferma in uno dei suoi più celebri frammenti:
«L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna pensante
Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla.
Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire.
Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale [Pensieri, VI, fr. 347].
Secondo una discussa testimonianza biografica, un grave incidente verificatosi al ponte di Nepilly, in cui Blaise rischiò di morire, avrebbe contribuito a scuoterlo dalla propria indifferenza religiosa, convincendolo ad abbandonare il mondo e a dedicarsi completamente a Dio. Ma l’incidente è solo l’elemento estrinseco di una più complessa motivazione interiore:
«Temere la morte in assenza del pericolo e non nel pericolo; perché bisogna essere uomini» [Pensieri, III, 215].
Tra il 1654 e il 1655 Pascal trascorre un lungo periodo di ritiro fra i solitaires del convento di Port-Royal: un gruppo di laici che si erano riuniti attorno alle monache di quell’antica abbazia, cenacolo di spiritualità giansenistica. Qui ha importanti colloqui con il padre de Sacy (confessore delle monache e direttore spirituale a Port-Royal), nel corso dei quali matura la decisione di mettersi al servizio della religione.
Tra il gennaio 1656 e il marzo 1657 Pascal scrive, sotto lo pseudonimo di Louis de Montalte, le Provinciali: diciotto lettere indirizzate «a un provinciale dai suoi amici e ai reverendi padri gesuiti», che contribuiscono in maniera determinante a spostare le simpatie di una parte della pubblica opinione a favore dei giansenisti.
Unanimemente riconosciute come un capolavoro della letteratura francese moderna, le Provinciali prendono in esame le accuse dottrinarie rivolte ai giansenisti, dimostrandone l’inconsistenza e la malafede degli avversari, i gesuiti, i quali, agli occhi di Pascal, cercano un insostenibile compromesso tra il necessario rigore dell’ideale cristiano e le ragioni del “mondo”, in funzione di una penetrazione politica nella società e di una volontà di dominio sulla Chiesa.
Gli ultimi anni di vita sono i più drammatici, ma anche quelli decisivi per la maturazione del pensiero morale di Pascal. È in questo periodo che, secondo una tradizione non unanimemente accettata dai critici, egli avrebbe lavorato alla stesura dei Pensieri, che ne costituiscono l’indiscusso capolavoro.
Nel 1659, dopo alcuni anni di relativa salute nella sua fragile costituzione fisica, egli cade seriamente ammalato e vede gravemente compromesse le proprie capacità di lavoro. La malattia ne accentua l’austerità di vita e contribuisce ad aggravare il suo stato d’animo malinconico, solo in parte legato alla formazione giansenistica.
5. I Pensieri
L’uomo ha anche meno studiosi della geometria.
Ed è solo perché non si sa studiare l’uomo che si cerca il resto [Fr. 144].
Dunque, per Pascal la condizione umana è nient’altro che estrema precarietà, impossibilità di raggiungere punti fermi, insanabile contraddizione fra il volere e l’ottenere, volubilità e continuo movimento nell’avere e nel volere stesso. L’uomo è una pura contraddizione in sé, posto tra i due abissi dell’infinito e del nulla, fra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, fra l’essere spirituale (eterno) e l’essere corporeo (temporale). L’uomo non può sapere né ignorare totalmente:
[…] che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla in confronto all’infinito, un tutto in confronto al nulla, un qualcosa di mezzo fra nulla e tutto […] »[Pensieri, 72].
Per descrivere la natura umana, Pascal ha preso come maestri Epitteto e Michel de Montaigne, oltre a richiamare Pico della Mirandola, il primo infatti ha evidenziato la grandezza e la dignità dell’uomo, che, pur essendo un essere infinitamente piccolo e debole, può ritrovare il suo valore nella propria coscienza e nel proprio pensiero.
Montaigne, invece, ne ha evidenziato soprattutto la debolezza, tracciando un limite alla nostra capacità di conoscere, pur sostenendo anch’egli la duplice natura (misera e dignitosa) dell’uomo.
5.1 La condizione umana
Infine, Pico della Mirandola ha espressamente parlato della dignità dell’uomo, che, unico fra le creature, può scegliere la propria natura, cioè chi essere. Con Pico, e ancora una volta, contro Cartesio, Pascal difende la tesi modernissima dell’inesistenza della natura umana: l’uomo è un farsi, un indeterminato [vale a dire, come sosterrà Jean-Paul Sartre, un essere in cui «l’esistenza precede l’essenza»] che si determina ed è determinato in e da ciò che fa. Pascal definisce così la condizione umana come quella di una corda tesa tra la bestia e l’angelo.
5.2 Contro il moralismo
L’uomo vive perennemente nell’illusione e nell’errore, indotti soprattutto dall’immaginazione e lasciandosi ingannare persino dai principi etici e morali, che mutano in realtà da luogo a luogo, da tempo a tempo, e sono dunque relativi. L’argomento, già usato in chiave scettica dai libertini, è volto da Pascal contro la limitatezza della ragione umana, che non basta mai a se stessa, ma che necessita della fede, per trovare significato e fine delle cose.
La giustizia è quel che è stabilito [Pensieri, 312]; L’abitudine è una seconda natura che distrugge la prima [Pensieri, 93]; La moda, come determina il piacevole, così determina il giusto [Pensieri, 309]; Non essendosi potuto fare in modo che che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto [Pensieri, 298]; Perché si seguono le antiche leggi e le credenze tradizionali? perché sono le più savie? no, solo perché sono le sole in vigore e così si è eliminata ogni ragione di dissenso [Pensieri, 301].
Che cosa può esser chiamato un bene? La castità? No, perché il mondo si spegnerebbe. Il matrimonio? No, perché è migliore la continenza. Il non uccidere? No, ché ne seguirebbero orribili disordini e i malvagi ucciderebbero i buoni. L’uccidere, allora? No, perché la natura ne sarebbe distrutta [Pensieri, 385].
5.3 Il pari, la scommessa sull’esistenza di Dio
Uno dei frammenti più commentati dei Pensieri riguarda il celebre pari, la scommessa sull’esistenza di Dio, cui sembra obbligato ogni uomo, in quanto “imbarcato” nel gioco tragico e assurdo dell’esistenza.
L’argomento di Pascal è che in assenza di prove razionali decisive sull’esistenza o sull’inesistenza di Dio, conviene “scommettere” sulla sua esistenza e comportarsi come se si credesse. Infatti, la posta in gioco di tale partita è «una infinità di vita infinitamente felice» contro la rinuncia, dall’altro, ai piaceri mondani, che sono «nulla», giacché sono comunque destinati a cessare con la morte. Se si vince – Dio esiste – si vince quindi tutto, mentre se si perde – Dio non esiste – non si perde nulla [fr. 233].
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