Un’utile ricognizione di Pellizzetti sul nucleo conflittuale e la cattiva coscienza della democrazia liberale e i meccanismi di dominio attraverso cui le oligarchie mantengono i propri privilegi al costo di dilaganti diseguaglianze. Tratto da Micromega.
«La democrazia origina da, mobilita e ri-dà forma al
conflitto popolare. Eppure c’è una caratteristica fondamentale
di questa interdipendenza […] limita in modo
consistente le forme di rivendicazioni collettive e pubbliche
tali da minacciare la vita e la proprietà, sostituendole
con una varietà di interazioni altrettanto visibili ma molto meno distruttive»
Charles Tilly[1]
«In generale, qualsiasi potere, di qualunque
natura esso sia, quali che siano le mani in cui
è riposto e in qualunque maniera esso è stato
conferito, è naturalmente nemico dei lumi»[2].
Marie Jean Antoine Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet
Plutodemocrazia: Dr. Jekyll e Mr. Hyde
Lo scandalo Datagate, l’immenso apparato coperto per il controllo di qualsivoglia comunicazione veicolata dalle reti mondiali telefoniche e internet, predisposto dalla National Security Agency americana con il programma informatico PRISM (e ora smascherato dall’ex tecnico della CIA Edward Snowden, l’ultimo di quelli che Ignacio Ramonet chiama i “paladini della libertà di espressione”[3]), stupisce per le dimensioni quantitative del fenomeno (svariati miliardi di intercettazioni); non sorprende certo per le logiche che sottende. Saremmo forse in presenza – secondo lo stereotipo marxiano rivisitato – del solito governo “comitato d’affari”, strumento del quartier generale legge e ordine?
La faccenda è ben più complicata (e introversa) del semplice quanto consapevole camuffamento di interessi dominanti. Sebbene saldature tra élites politiche ed economiche siano perennemente all’ordine del giorno nella fisiologia del potere e i governi tengano sempre in estrema considerazione quelli che sono i concreti rapporti di forza in campo. Non di questo si parla.
Il tema – semmai – è sottotraccia e quasi subliminale, oltre l’appercezione cosciente e la concettualizzazione legittimata a ortodossia: il segno di una cattiva coscienza, sempre oggetto di autocensura perbenistica, che accompagna la liberaldemocrazia fin dai primi momenti della sua instaurazione; una sorta di sindrome duplicativa alla Dr. Jekyll e Mr. Hyde come archetipo vittoriano della coesistenza schizofrenica di personalità opposte nello stesso soggetto. Ergo, una patologia che si annida nei riflessi condizionati e negli automatismi inconsci di un’intera civilizzazione; l’immortale ipocrisia dell’omaggio del vizio alla virtù.
Maurice Duverger la definiva “le due facce dell’Occidente”: l’ambivalenza della soppressione dei privilegi aristocratici accompagnata dalla creazione di nuove oligarchie attraverso la cristallizzazione legalizzata delle ineguaglianze economiche. L’espressione usata dal costituzionalista francese è “plutodemocrazia”[4]. Quel particolare “ibrido” descritto con parole severe (e qualche forzatura polemica) da Karl Polanyi.
«L’obiettivo delle grandi rivoluzioni, inglese e francese, era stato quello di attuare la libertà in campo economico; ma tale opera è rimasta incompiuta. L’impianto feudale del monopolio terriero è sopravissuto alla rivoluzione… È sorto così il capitalismo, come un ibrido tra violenza e libertà»[5].
Sicché, un sistema che alla luce del sole promette eguaglianza dei diritti e di opportunità, mantenendo sottotraccia disparità di potere che ne contraddicono i presupposti, abbisogna di un forte controllo sulla propria base sociale e altrettanto elevati ambiti di segretezza: quell’apparato disciplinare, in larga parte composto da arsenali comunicativi a messa in funzione automatica, esplorato con particolare acume nella seconda metà del secolo scorso da Michel Foucault nelle sue riflessioni sulla “modalità panoptica del potere”; che dietro un quadro giuridico codificato e formalmente egualitario sviluppava procedimenti tali da costituirne “il lato oscuro”.
«La forma giuridica generale che garantiva un sistema di diritti uguali in linea di principio, era sottesa da meccanismi minuziosi, quotidiani, fisici, da tutti quei sistemi di micropotere, essenzialmente inegalitari e dissimmetrici»[6]. Con relativi strumenti di controllo e disciplinamento: «dapprima l’ospedale, poi la scuola, più tardi ancora la fabbrica»[7].
Contraddizione inconfessabile che sfocia in maniacalità da minaccia incombente: il rapporto paranoico-schizoide con il demos, ossia il celebrato kratos dell’ordine democratico, la cui sacralizzazione laica si accompagna al timore, ereditato dalle epoche precedenti e incistato nel subconscio collettivo del privilegio, di quello stesso demos come potenziale agente di sovversione. L’indicibile che solo ben di rado viene detto; e con tutte le prudenze dell’outing di un vizio infamante.
Ad esempio, agli albori del capitalismo industrialista, il grande sistematizzatore dello stato nascente – Adam Smith – nelle sue Lezioni di giurisprudenza definiva esplicitamente il governo
«una combinazione dei ricchi per opprimere i poveri e conservare i propri vantaggi»[8].
Mentre – eccezioni come quella smithiana a parte – la retorica pubblica ha sempre promosso argomentazioni finalizzate a rimuovere consapevolezze destabilizzanti; secondo retoriche organicistiche (format Menenio Agrippa); quindi tendenti a proporre modelli di rappresentazione che anestetizzassero le distinzioni e il pensiero critico nei subalterni attraverso la propaganda ecumenica nelle sue più svariate modalità conformistizzanti. Il luogo comune del “ siamo sulla stessa barca”.
Nel DNA liberaldemocratico
I ricostruttori dell’eccezionalismo liberaldemocratico occidentale nella vulgata mainstream, narrano come agli albori della modernità il Leviatano fosse preposto al compito di tenere a bada la ferinità del popolo e che il passaggio successivo fu quello di porre sotto controllo il Leviatano stesso mediante bilanciamenti e regolazioni. Le cui fonti filosofiche sono molteplici; nell’inventario dello storico del pensiero Robert Darnton:
«il dubbio cartesiano, la fisica newtoniana, l’epistemologia di Locke, le cosmologie di Leibniz e Spinosa, la legge naturale di Grozio e Pufendorf, lo scetticismo di Bayle, la critica biblica di Richard Simon, la tolleranza degli olandesi, il pietismo dei tedeschi, le teorie politiche e il libero pensiero degli inglesi»[9].
Tutto questo nella dimensione lumeggiata dalla benevolenza. Mentre, nelle penombre incupite dall’avversione, i retropensieri dei ceti privilegiati hanno continuato a coltivare pregiudizi ansiogeni sulle potenzialità eversive di classi percepite come pericolose. Da tenere prudentemente e costantemente a bada, intrappolandole in meccanismi e modelli di rappresentazione che ne depotenziassero la sovversività; l’antico timore tanto delle secessioni (Aventino) come delle insurrezioni (jacqueries), allontanato grazie a un abile gioco di specchi deformanti con cui apprestare falsi bersagli per il risentimento dei subalterni.
Giustamente Alessandro Pizzorno sottolineava gli aspetti di manipolazione insiti nelle tipiche contraddizioni di identità collettive formatesi sul terreno pluralista e poi riassorbite dalle strutture della rappresentanza mediante burocratizzazione e cooptazioni individuali («l’orgoglio dell’invenzione politica occidentale, il pluralismo, appare destinato ad accrescere il cinismo fra i potenti, la segretezza fra i governanti e l’indifferenza fra i membri della città»)[10].
Non a caso – come si diceva – sono proprio i Padri Fondatori americani, inventori della democrazia rappresentativa, a mettere per primi a punto quanto lo storico Howard Zinn definisce
«il sistema di controllo nazionale più efficace dei tempi moderni… associando il paternalismo al comando»[11].
Ma essi stessi ne erano completamente consapevoli? Non ne siamo così sicuri. Intrappolati nelle proprie reti argomentative – come in un tipico caso di rimozione – definivano “patriottismo” quegli apparati di sorveglianza sociale che avevano escogitato per deviare lo sguardo delle moltitudini (lontano da quel patriziato coloniale che si rappresentava garante dell’interesse generale). Forse la risposta sta nell’analisi del DNA liberaldemocratico. Nella ricostruzione di un percorso politico-ideologico che attiene altresì al variare della composizione sociale di riferimento.
«I sistemi liberaldemocratici e quelli semplicemente liberali che li avevano preceduti poggiavano sull’assioma originario stabilito da Locke, secondo cui la funzione primaria dello Stato era di proteggere la proprietà… Il liberalismo classico, sia nella veste inglese e francese, sia in quella americana, era propriamente il prodotto ideologico e istituzionale dei proprietari del Sei-Settecento, epoca che non aveva conosciuto la rivoluzione industriale e tutte le sue conseguenze. Intento di questi proprietari era di opporsi tanto al potere dispotico dei re e delle oligarchie quanto a quello della maggioranza dei poveri e degli emarginati ‘invidiosi’ delle proprietà altrui e miranti a impadronirsi di essa mediante la violenza e le leggi agrarie, o addirittura ad abolire la proprietà privata stabilendo il possesso comune delle terre»[12].
Ossia i programmi secenteschi dei radicali inglesi (gli Zappatori (ala radicale dei Levellers, il cui portavoce era Gerrard Winstanley) e quelli settecenteschi dei protocomunisti francesi come Babeuf e Maréchal.
Ma intanto i proprietari avevano assunto il controllo dello Stato attraverso le rivoluzioni che saranno chiamate “borghesi”. Per cui restava da fronteggiare soltanto “l’invidia” dei meno o per nulla abbienti. Mentre – sempre nel frattempo – erano venuti modificandosi i contesti sociali dove si riteneva albergasse la “minaccia sovversiva dell’invidia insorgente”: nella fase preindustriale la bassa forza lavoro largamente dispersa nel mondo rurale e facilmente circoscrivibile in quello urbano (contadini e salariati artigiani), componente che, quando non dava luogo alle rivolte della miseria e della disperazione sconfitte già sul nascere, si connotava come una sottosocietà muta e inerte; nella società industriale – in cui avviene il passaggio dal Liberalismo alla Liberaldemocrazia – l’organizzazione degli operai in “movimento di classe” consentiva la conquista di soggettività e diritti in campo sindacale e politico, da cui i proprietari non potevano prescindere. I più avveduti dei quali ritennero opportuno stemperare la virulenza del nuovo conflitto “industrialista” attraverso compromessi per il reciproco riconoscimento.
Da quel momento “la paura dell’invidia” degli strati sociali inferiori, da parte di quelli superiori, è diventata una manifestazione “politicamente scorretta”; e come tale oggetto di camuffamenti perbenistici. Anche se poi qualcuno ha osservato che nel paradiso pluralista
«il coro canta con un forte accento altoborghese»[13].
Cerimonialità tendenti all’ecumenismo mimetico de “l’interesse generale”, “siamo tutti sulla stessa barca”; senza riuscire a impedire che tali pensieri inquietanti alberghino – appunto – come ossessione occulta nella mente del potere proprietario. Da cui scaturiscono ricorrenti strategie difensive a vari livelli. Manipolazione compresa. Sempre e comunque allo scopo di garantire che il sistema di potere inerente all’individualismo possessivo e ai suoi istituti si mantenga costantemente «off limits dall’ambito delle decisioni democratiche»[14]: la soglia invalicabile per le classi subalterne rappresentata dall’impossibilità di estendere la democrazia al punto di invadere la struttura delle imprese e la proprietà capitalistica.
Nella cornice di una costituzione materiale condivisa; da parti e controparti.
Servitù volontaria
Vale la pena al riguardo di rileggere anche Barrington Moore jr. Nel 1978 il sociologo di Harvard, dopo la celebre analisi su “le origini sociali della dittatura e della democrazia” del decennio precedente, avviò una riflessione sul nesso che intercorre tra sottomissione e ribellione.
L’angolo visuale adottato è quello dell’interiorizzazione con effetti autolesionistici dell’ordine vigente da parte dei sottomessi e – di conseguenza – della possibilità/capacità o meno, da parte loro, di concepire il concetto stesso di rottura. Certamente influenzato dalla relazione amicale con l’emigrante francofortese Herbert Marcuse e in linea con la ricerca del collega storico Howard Zinn. Al tempo stesso, si direbbe per nulla al corrente dei contemporanei lavori sulla stessa materia di Michel Foucault e degli altri philosophes francesi.
Comunque, una rilettura ricca di spunti utili per interpretare il contesto attuale.
Infatti secondo Moore – a parte celebri e limitate eccezioni del passato (dall’Aventino plebeo alle disunioni ateniesi) – è nelle società complesse della Modernità occidentale che si sviluppa quel pensiero critico necessario per sostenere processi antagonistici in grado di avviare trasformazioni significative nell’organizzazione del Potere. E anche in questo caso non sempre e non dovunque. Proprio in quanto l’antagonismo richiede condizioni di ben difficile e inusuale realizzazione, che partono dal come ci si rappresenta il reale: rimuovere le basi su cui la legittimità del dominio, anche nelle sue forme più oppressive, viene riconosciuta e accettata proprio da quanti lo subiscono direttamente. Con le parole di Moore,
«l’interiorizzazione dei modelli morali delle società di cui sono vittime»[15].
Questo poiché – per dirla con un’espressione ad effetto, non imputabile al nostro autore – l’indagine evidenzia che in genere i dominati risultano affetti da una sorta “sindrome di Stoccolma” sui generis; ossia quella sorta di vassallaggio psicologico, confinante con l’innamoramento, dei sequestrati nei confronti dei loro sequestratori. Vassallaggio da cui ci si libera in un solo modo: abbattendo l’autorità morale della sofferenza e dell’oppressione («uno dei principali compiti culturali che si pongono a qualsiasi gruppo oppresso è di minare o screditare la giustificazione del ceto dominante»[16]); in primo luogo liberando le persone e i gruppi subalterni dai modelli di rappresentazione che li trasformano nel principale puntello dell’ordine che li opprime: il Potere che si tutela insediandosi nelle menti dei sottomessi come rassicurazione e – insieme – come senso di colpa preventivo per eventuali trasgressioni. Insomma, senza la collaborazione attiva dei dominati, l’esercizio del dominio risulterebbe molto più costoso e assai meno efficace.
Qualcosa che agli albori dell’Evo Moderno già aveva intuito l’amico di Montaigne Etienne de la Boétie parlando di “servitù volontaria”
(«come è possibile che tanti uomini sopportino un tiranno che non ha forza se non quella che essi gli danno. Da dove prenderebbe i tanti occhi con cui vi spia se voi non glieli forniste?»[17]),
inaugurando un filone di pensiero critico del Potere che induce la sottomissione a negarsi tale (da cui il celebre commento di Jean Jacques Rousseau:
«riconoscere le proprie catene per quel che sono è meglio che rivestirle di fiori»),
ma anche attraverso il depistaggio della potenziale rivolta indirizzandola verso il falso movimento dei “conflitti per errore”, o peggio: secondo Bruno Bettelheim, il massimo di brutalità nei lager nazisti era proprio quello che i vari gruppi di prigionieri si infliggevano tra loro, reciprocamente[18].
Ciò premesso veniamo alle faccende dei nostri giorni, in cui gli effetti del contratto sociale informale (reaganiano-thatcheriano), stipulato nell’ultimo quarto del XX secolo, sono ormai sottoposti a contestazioni diffuse e radicali: le proteste indignate a seguito della profonda delusione indotta dalle sue promesse rivelatesi vane, mentre immense sottrazioni di ricchezza ai danni dei ceti medi precarizzati emigrano ai vertici della piramide sociale, nel ristrettissimo gruppo dei privilegiati. Ritorna lo spettro della povertà, mentre le burocrazie di Stato che regolavano il capitalismo amministrato del secondo dopoguerra hanno definitivamente ceduto il passo all’egemonia dei ceti plutocratici.
A questo punto c’è da ritenere che ora – a sua volta – l’obbedienza stia cedendo il passo alla ribellione per il mutamento? Non si direbbe. Innanzi tutto in quanto non si vede all’orizzonte una qualche forma di soggettività collettiva organizzata che assicuri una presenza politica oppositiva nei confronti dell’autorità costituita. Ma prima e più ancora in quanto non si è consolidato un pensiero del cambiamento, stante il fatto verificabile che tuttora si continua a dare per scontato l’ambiente sociale intriso di valori plutocratici. Insomma, ci si indigna, si protesta, ma sempre all’interno della cornice disegnata ormai quattro decadi fa.
Si potrebbe dire che gli obbedienti, prime vittime dell’oppressione, sono condizionati al punto da nutrire una vera e propria paura del cambiamento, tale da far (quasi…) detestare più degli stessi oppressori l’idea di una possibile rottura. L’ossessione del vuoto. Di conseguenza – osserva Augé –
«i proletari non sognano più di abbattere il sistema: temono che crolli»[19].
Per questo il vecchio regime non è minacciato dall’instaurazione di uno nuovo, se non alternativo almeno in grado di metterne in discussione la pretesa di stabilire le priorità sociali; dunque, dimostrando una vitalità che discende in primo luogo proprio dall’inimmaginabilità di un cambiamento effettivo. Ed è qui che sta probabilmente il punto critico affrontato (ma non esplicitamente risolto) da Barrington Moore: quando l’obbedienza vira a rivolta?
Forse la risposta più convincente può giungerci dal primo “esploratore” della crisi dell’Ancien Régime, Alexis de Tocqueville: l’antico ordine non viene abbattuto, crolla per consunzione interna:
«quando la nobiltà detiene non soltanto dei privilegi, ma dei poteri, quand’essa governa e amministra, i suoi diritti specifici possono essere ad un tempo maggiori e meno evidenti… Via, via che la nobiltà desiste da tali compiti, il peso dei suoi privilegi sembra farsi maggiore, anzi essi finiscono coll’apparire ingiustificati ed incomprensibili»[20].
Insomma, l’assetto vigente decade per spossatezza. Così come – ad esempio – la Russia di Nicola II non crollò sotto i colpi di una (ancora embrionale e circoscritta) classe operaia, quanto per la totale disgregazione organizzativa della polizia e dell’esercito zaristi.
Sicché – ci ripete Moore – il malcontento imbocca la via della ribellione solo quando giunge a formulare e formularsi la domanda cruciale, che mette in crisi meccanismi al tempo stesso psicologici e sociali: l’autorità della classe dominante svolge ancora funzioni socialmente utili? Lo si ribadisce: la critica veramente sovversiva comincia proprio da qui, quando la gente si chiede se re, preti, capitalisti e burocrati non siano soggetti di cui la società umana può fare tranquillamente a meno. Ebbene, ad oggi, nella società globalizzata/finanziarizzata in crisi, tale domanda non sembra aver conquistato campo; almeno al punto da determinare un salto di fase storica. Nonostante l’evidente bancarotta di quella ormai al lumicino.
Questo perché, nonostante l’esaurimento della sua capacità di governo dei processi socio-economici, ancora perdura l’abbrivio dell’operazione ideologica ad alto impatto sociale e psicologico promossa a suo tempo per l’instaurazione di tale fase; che ha prodotto la metabolizzazione di messaggi manipolativi in quanto altamente semplificatori (dunque, perfettamente commisurati a una società dei grandissimi numeri), con cui si definivano i criteri di apprezzabilità e di desiderabilità dell’epoca: la ricerca del piacere individuale nell’assiomatica dell’interesse possessivo; il messaggio ingannevole dell’arricchitevi per potersi consacrare a un consumo dai forti tratti dissipatorii. Ci si faccia caso: davanti al crescere di situazioni a rischio sempre più esplosive, il pensiero collettivo si riposiziona meccanicamente sulle ricette che tali situazioni hanno determinato; mentre il pensiero della fuoriuscita, con i bandoli della matassa che indica (riscoperta del collettivo, beni comuni, socialità…), rimane circoscritto in ambiti ristretti da cui fuoriesce solo come chiacchiericcio folcloristico. Insomma, il dominio anche più oltraggioso vince perché tutti parlano il suo linguaggio (accreditando – così – le categorie che ne sono sottese). Lo scriveva il solito Marc Augé:
«gli stessi contestatori, quando fanno sentire la loro voce, sono prigionieri del mondo delle immagini creato dalla prodigiosa espansione dei media e della comunicazione elettronica»[21].
E le contraddizioni non sono (ancora? Più?) foriere di avvenire.
La restaurazione del dominio ipocrita
Imprigionati in questo panopticon che sta imputridendo – quale ormai è diventato “il turbocapitalismo liquido” – non troveremo uscite di sicurezza senza prima ridefinire tavole dei valori e fissare nuovi criteri di convivenza. Per ora c’è solo una collera in cerca di un ragionamento, che la trasformi in forza di cambiamento. Anche se questo stato d’animo, nato dall’evidenza che l’autorità non ha mantenuto la sua parola nei confronti dei sottoposti,
«può – come dice Barrington Moore jr. – essere una delle emozioni più intense e far vacillare i troni»[22].
Quanto stava accadendo in Brasile, nella tarda primavera del 2013, con le insorgenze popolari alla vista degli sprechi e delle opulenze ostentati dall’organizzazione della Confederation Cup. Brasile, dove vacilla il trono della seleção de futebol, ma dove la contestazione punta solo agli effetti dell’oppressione (qualità delle infrastrutture, sanità, corruzione, salari…); non alle radici delle disuguaglianze, accentuatesi – nell’attuale bonanza, apportata dallo sviluppo che aggancia il subcontinente verdeoro ai flussi della globalizzazione – grazie a mastodontici trasferimenti di risorse verso gli esclusivi piani alti del Paese.
Tanto da far temere/prevedere che questa primavera tropicalista sia destinata a seguire il decorso di tante fioriture indignate recenti: saltare a pie’ pari la stagione estiva, in cui maturano le rotture che incrinano il Potere, scivolando nel solito autunno di un riflusso rancoroso e impotente. Appunto, l’itinerario a ritroso della collera pietrificata nella sottomissione.
Qui sta il punto. Fino da allora e ancora oggi la strana mescolanza che alimenta il gioco democratico, fatta di buoni sentimenti inclusivi e inconfessate/inconfessabili segretezze escludenti, è shakerata con un riflesso condizionato: l’ossessione dei conflitti sociali distruttivi e non gestibili, da esorcizzare dirottandoli verso falsi bersagli. Sotto le settecentesche sequoie del New England erano le giubbe rosse di re Giorgio o i nativi americani; in età industrialista il sottoproletario, l’immigrato o magari l’ebreo; oggi il terrorista extracomunitario. Lo si ribadisce: più reazione automatica che non congiura di Master of Universe o improbabili power élite alla Wright Mills.
Per dirla ancora con Manuel Castells, il dominio sociale reale è in larga misura connesso a principi di appartenenza, come condivisione dei criteri e dei linguaggi che aprono l’accesso alle strutture del potere[23]. Pensiero pensabile (secondo la formula di Noam Chomsky[24]); che non deve mai prendere consapevolezza che il retropensiero su cui si regge l’intera impalcatura argomentativa di partecipazioni deliberative, cittadinanze inclusive e cosmopolitismi vari è il chiodo fisso del nemico latente. L’ossessione che nel cervello stratificato del Moderno si annida in quello arcaico “da rettile”, istintuale e aggressivo, su cui si è sviluppato quello “angelicato” liberaldemocratico. Senza mai averlo addomesticato.
Da qui il rovesciamento della massima di Clausewitz “la politica è la guerra continuata con altri mezzi”[25]: spia dell’incubo eminentemente maniacale di un ordine legale circondato da nemici interni ed esterni, contro cui predisporre in permanenza guerre segrete.
Sicché – tornando alla cronaca di questi tempi – probabilmente il presidente Obama è davvero sincero nel sostenere le ragioni della sua personale crociata contro il partigiano Snowden, che ha rivelato lo scandalo del “Grande Fratello” stelle-e-strisce; minaccia mortale per quell’assetto di cui il primo presidente afroamericano è il curatore fallimentare. Anche se resta abbastanza difficile immaginare che “il generale in capo” della nazione più potente del mondo ignorasse gli aspetti di scoperta mistificazione insiti nella presunta “battaglia per la libertà di/in internet”.
Come ha fatto acutamente notare un giornalista del quotidiano libanese Daily Star – Rami Khouri – a proposito dell’enorme divario fra la retorica fortemente idealistica degli americani sul free WEB e l’assoluto cinismo insito nella loro politica estera:
«non si possono prendere sul serio gli Stati Uniti né nessun altro governo occidentale che finanzi l’attivismo politico online di giovani arabi, mentre alla stesso tempo fornisce denaro e armi che contribuiscono a cementare il potere di quegli stessi governi che quei giovani attivisti mirano ad abbattere»[26].
Ma forse Khouri sottovaluta i processi di duplicazione mentale – alla dottor Jekyll e Mister Hyde – che tendono a incistarsi nelle menti delle élite occidentali, infantilmente bisognose di convincersi sempre e comunque del proprio ruolo da “eroi buoni” di stampo hollywoodiano, garanzia di un sicuro happy end; e – quindi – ne sottostima l’attitudine all’autoillusione. Commenta Evgeny Morozov:
«i cyber-realisti crederanno che un mondo fatto di byte potrà anche sfidare la legge di gravità, ma assolutamente nulla impone che debba sfidare anche le leggi della ragione»[27].
Il mondo salvato dai blogger ragazzini?
22 giugno 2013. L’immagine della studentessa turca dritta e indomita nella sua laica fermezza di fronte al getto degli idranti manovrati dalla polizia del premier integralista islamico Tayyip Erdogan, comparsa sulle pagine e sugli schermi di tutto il mondo, è destinata a diventare un’icona potente della democrazia negli anni a venire. Come lo fu – in un altro giugno (1989) – la diapositiva dello sconosciuto studente cinese, immobile davanti al blindato in piazza TienanMen.
La ragazza coraggiosa era una dei manifestanti che a Istambul hanno portato in piazza la celebre massima di Hikmet – il massimo poeta novecentesco loro concittadino; icona liberatoria anch’esso, con la sua storia straordinaria da rivoluzionario di professione –
“Muore un albero. Si sveglia una nazione”.
E la piazza si chiama “Taksim”, un nome la cui assonanza ha richiamato subito alla mente dei commentatori un’altra piazza – la cairota “Tharir” – dove due anni prima studentesse e studenti, non diversi da questi, avevano fatto parlare ancora una volta di “rivoluzione a mezzo Twitter”. Facile e consolatoria semplificazione che – forse – varrebbe la pena di demistificare.
Infatti a Occidente – dopo la fine della Guerra Fredda – si è radicato il sospetto stereotipo che promuove «la fiducia ingenua nel potenziale liberatorio della comunicazione online». A partire dalla terribile semplificazione per cui l’Unione Sovietica e il Blocco Orientale si sarebbero dissolti grazie al genio comunicativo di Ronald Reagan (oltre al contrabbando a Est di qualche fax e fotocopiatrice per l’editoria clandestina, accompagnato al sostegno di trasmissioni come Radio Free Europe e Voice of America), non per le condizioni strutturali e le contraddizioni interne del sistema sovietico. Dunque una strategia da clonare in ogni contesto, mettendo a frutto le nuove tecnologie. In particolare quelle impostesi nella nuova fase di sviluppo dei social network denominata WEB 2.0: la stagione di Facebook e di Twitter.
Tanto che «Mark Pfeifle, già consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Bush, ha lanciato una campagna per candidare Twitter al Nobel per la pace, sostenendo che
‘senza Twitter il popolo iraniano non si sarebbe sentito tanto forte e fiducioso da difendere la libertà e la democrazia’»[28].
La prova generale del “the revolution will be twittered” è stata fatta nel giugno 2009, quando migliaia di giovani iraniani, smartphone alla mano, si sono riversati nelle strade di Teheran chiedendo le dimissioni dell’ayatollah Khamenei; a seguito delle elezioni che avevano riconfermato alla presidenza Mahmud Ahmadinejad e che loro erano certi fossero state truccate.
Come è andata a finire la “rivoluzione verde su Twitter”, che avrebbe dovuto far collassare il regime iraniano? Né più né meno di come sono andate quelle successive del fatidico 2011 in Egitto e Tunisia, dette “dei blogger”, che avrebbero dovuto sconfiggere le rispettive dittature a colpi di gadget tecnologici: nel rapido riconsolidamento del regime, che nel frattempo ha imparato a usare le opportunità ICT in chiave di controinformazione propagandistica. Sicché la teocrazia iraniana mantiene salda la propria presa su una società che risprofonda nel fatalismo, in Egitto i militari restati in sella grazie alla temporanea partnetship con i Fratelli Mussulmani. E che ora giocano in proprio.
Ciò suona a conferma che l’Occidente, propugnatore di liberaldemocrazia, non può pensare di cavarsela con le scorciatoie d’immagine del cyberutopismo o dell’internetcentrismo e poi – sotto, sotto – praticare la logica cinica, ipocrita e pure suicida del continuare ad appoggiare, nel quadrante mediorientale, assetti che svolgano la funzione del gendarme regionale; a fronte dei settori giovanili di quelle società dove i valori liberaldemocratici hanno ormai fatto breccia (e che si candiderebbero a essere il migliore alleato nella lotta contro l’oscurantismo jihadista). Ma tant’è, il richiamo delle ricette di controllo sull’effervescenza sociale (blandamente modernizzante; ciò nonostante interpretata dai conservatori occidentali come sovversiva) risulta sempre prevalente. Anche se gravemente perdente.
Eppure lo si dovrebbe aver capito, magari mettendo a confronto quanto accaduto in due differenti mesi di giugno. Un giugno antico e l’altro più recente; ma sempre – parafrasando Thomas S. Eliot –
“il più speranzoso dei mesi, per la terra desolata dell’afflizione (islamica o meno)”.
26 giugno 1963, nella Berlino Ovest assediata dalle forze del Patto di Varsavia e ormai attraversata dal “muro della vergogna”, il presidente americano John Fitzgerald Kennedy, con a fianco il borgomastro Willi Brandt, proclama al mondo il suo “ich bin ein berliner”, “io sono un berlinese”. E per i ragazzi di allora fu l’immagine coinvolgente di un Occidente che prendeva l’iniziativa, come Società Aperta contrapposta all’ottusa prevaricazione di un mondo chiuso. Fermo restando che a quel grido fece seguito la scelta politica conseguente di creare un ponte aereo carico di medicine e alimentari che sostenne concretamente la resistenza degli altri berlinesi.
4 giugno 2009, università Al-Azhar del Cairo: l’efficace oratoria del presidente americano Barak Obama entusiasma i giovani egiziani assiepati attorno al leader venuto da Occidente, che pronuncia la celebre frase “sono qui per cercare di inaugurare una nuova era”. Ma due anni dopo, quando quei ragazzi e quelle ragazzi hanno cercato loro di dare l’avvio al rinnovamento, che cosa è stato fatto da parte delle democrazie d’Occidente? Nulla. I curatori fallimentari dei disastri bellicisti e liberisti a Ovest hanno saputo solo proferire parole politicamente corrette quanto insignificanti, inerti.
Come quelle rivolte a Erdogan dal segretario di Stato USA John Kerry,
“preoccupato per l’uso eccessivo della forza da parte della polizia turca e che invita il governo di Ankara a indagare al riguardo” (sic!).
Inerzia che si consola con le presunte mirabilie delle tecnologie digitali; le quali – come sempre –
«tendono a promettere più di quanto siano in grado di fare… praticamente ogni nuova tecnologia è stata osannata per la sua capacità di alzare il dibattito pubblico, accrescere la trasparenza della politica e condurre tutti noi nel mitico villaggio globale».
Speranze rapidamente infrante dalla forza bruta della politica, della cultura e dell’economia. Del resto pure in Turchia la ragione del Potere non si è limitata soltanto ad usare gli idranti e ben presto si sono contati i primi manifestanti morti. Che erano scesi in piazza a gridare valori di libertà e democrazia. Mentre le liberaldemocrazie occidentali volgono lo sguardo altrove, sussurrando generici inviti a prudenza e moderazione; mentre pure a casa loro è in atto la restaurazione del dominio ipocrita dei pochi sui tanti. Nel cuore dell’Occidente, dove il perbenismo compassionevole dei privilegiati rifiuta di riconoscere le palesi interdipendenze tra povertà e disuguaglianza, in crescita sinergica.
NOTE
[1] C. Tilly, Conflitto e democrazia in Europa, Bruno Mondatori, Milano 2010 pag. 39
[2] Condorcet, Elogio dell’istruzione pubblica, Manifestolibri, Roma 2002 pag. 7
[3] I. Ramonet, “Le Monde Diplomatique”, Il Manifesto 13 luglio 2013
[4] M. Duverger, Giano, le due facce dell’Occidente, op. cit. pag. 13
[5] K Palanyi, Per un nuovo Occidente, op. cit pag 215
[6] M. Foucault, Sorvegliare e punire, op. cit. pag.242
[7] ibidem pag.244
[8] A. Smith, La ricchezza delle nazioni, (prefazione di P. Sylos Labini), Newton Compton, Roma 2010 pag. 21
[9] R. Darnton, La dentiera, op. cit. pag. 5
[10] A. Pizzorno, L’organizzazione degli interessi bell’Europa occidentale (a cura di S. Berger), Il Mulino, Bologna 1983 pag. 413
[11] H. Zinn, Storia del popolo americano, op. cit. pag. 46
[12] M. L. Salvadori, Democrazia senza democrazia, Laterrza, Bari 2009 pag. 45
[13] citato da R. D. Putnam, Capitalismo sociale e individualismo, il Mulino, Bologna 2004 pag. 417
[14] ibidem pag. 39
[15] B. Moore jr. Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta, Ed. Comunità, Milano 1983 pag. 82
[16] ibidem pag. 113
[17] E. de la Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Chiarelettere, Milano 2011 pag. 13
[18] B. Bettelheim, The Informed Heart, Mcgraw-Hill Clencoe, New York 1960 pag. 253
[19] M. Augé, Le nuove paure, cit. pag. 28
[20] A. de Tocqueville, L’Antico Regime e la Rivoluzione, Scritti Politici Volume I (a cura di N. Matteucci), UTET, Torino 1969 pag. 638
[21] M. Augé, Futuro, Bollati Boringheri, Torino 2012 pag. 65
[22] B. Moore jr., Le basi sociali, op. cit. pag. 597
[23] M. Castells, La nascita della società in rete, op. cit. pag. 477
[24] N. Chomsky, Linguaggio e Libertà, EST, Milano 2000 pag. 211
[25] M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998 pag. 22
[26] R. Khouri, “When Arabs Tweet”, International Herald Tribune 22 luglio 2010
[27] E. Morozov, L’ingenuità, op. cit. pag. 306
[28] ibidem pag. 6
Commenti recenti