Le parole e le cose pubblica questo bel saggio di Pierluigi Pellini sull’evoluzione della narrazione letteraria del denaro e dell’homo oeconomicus tra ottocento e novecento.
Il denaro è tema letterario di lunga durata, fin dall’antichità. Ma solo con il novel e il teatro del Settecento – da Defoe a Goldoni – le vicende economiche si fanno al tempo stesso motore dell’azione (oggetto del desiderio, motivo di conflitti e rivalità) e principio assiologico: in un contesto mercantile che non riconosce altro valore né altra autorità.
Perché i soldi diventino però l’esclusiva ragione di vita non di un tipo presentato come abnorme – come l’avaro, da Plauto a Molière – ma della quasi totalità dei personaggi romanzeschi; perché tutti i valori della tradizione (virtù, onore, amore) cedano il passo alla logica del profitto; perché insomma l’homo fictus della narrativa si tramuti in homo oeconomicus, si dovrà attendere La Comédie humaine.
Nel romanzo dell’Ottocento, non si contano avari, accumulatori, speculatori.
In Balzac, il vecchio Grandet guadagna con il commercio una ricchezza enorme, che lesina ai familiari con patologica grettezza (Eugénie Grandet); l’onesto profumiere César Birotteau fa il passo più lungo della gamba, lanciandosi in disastrose speculazioni, e finisce rovinato: fra debiti, cambiali e loschi profittatori (Histoire de la grandeur et de la décadence de César Birotteau); per l’usuraio protagonista di Gobseck, oro e denaro sono strumenti di potere demiurgico e oggetti del desiderio esclusivi, su cui riversare, in un parossismo al tempo stesso esemplare e patologico, ogni energia libidica.
Il denaro, per impiegare la terminologia degli alienisti coevi (Esquirol), è la monomania di tutti i personaggi balzachiani. Perfino il patetico protagonista del Père Goriot, vittima dell’interesse e dell’egoismo imperante, non esita a dichiarare che «l’argent, c’est la vie» (i soldi sono la vita); e a ammettere che il soldo, quasi personificato, «fa tutto» («monnaie fait tout»).
Che le ricchezze materiali siano il tema per eccellenza – o meglio, il principio che dà forma a tutti gli altri temi: in Balzac o in Dickens, in Zola o in Verga – in tutti gli episodi della ‘storia sociale’ ricostruiti dal romanzo realista, non stupisce.
Ma la nuova antropologia letteraria è pervasiva: scalza ovunque, e con sarcasmo, i topoi ancora recenti della stagione romantica. Perfino nella tradizione del fantastico pullulano i patti con il diavolo, cui i protagonisti vendono l’anima, o l’ombra, o il riflesso (insomma, l’identità), sempre in cambio di potere e denaro. Lo schema è ovunque lo stesso: sulle strade fiorite di Francia, fra Angoulême e Poitiers, dove Lucien incontra l’ambiguo Carlos Herrera, alias Vautrin (Balzac, Illusions perdues); nell’aria tersa di un porto mercantile sul Mare del Nord (Chamisso, Peter Schlemihl); nelle brume della Berlino hoffmanniana; fino alla Russia di Gogol’ (Il ritratto).
Archetipo comune – delle rappresentazioni realistiche come di quelle fantastiche – è il Faust di Goethe, dove la ripresa di leggende tardomedievali e di miti classici può farsi allegoria del moderno capitalismo (non diversamente, tema profondo del wagneriano Anello del Nibelungo sarà l’avvento di una modernità maledetta).
E infatti una delle più brillanti trovate di Mefistofele è l’emissione di cartamoneta senza corrispettivo aureo: garantita in teoria da giacimenti sotterranei, ma destinata a rapido deprezzamento, come gli assegnati della Repubblica nata dalla Rivoluzione francese. Per Faust il denaro, capace di realizzare ogni desiderio, e di seppellire per sempre il vecchio mondo feudale, è mezzo per raggiungere l’assoluto; per il suo tentatore e alter ego invece, con ambivalenza innumerevoli volte riprodotta nel corso dell’Ottocento, è strumento di potere, frode e rovina.
Tipica del romanzo realista è tuttavia la netta frattura fra ideologia dichiarata e scelte tematiche: se da un lato il mito del self-made man magnifica un’ascesa sociale frutto di sacrificio e lavoro, i testi letterari dedicano un’attenzione marginale alle realtà produttive, moltiplicando invece le rappresentazioni – al tempo stesso deterrenti e affascinanti – di pericolose alternative: il gioco e la speculazione in borsa (dal Giocatore di Dostoevskij all’Argent di Zola, passando per Il paese di cuccagna di Matilde Serao, dove è di scena la borsa dei poveri: il lotto); la caccia alla dote e soprattutto all’eredità, che si trasforma in lotta senza esclusione di colpi, in squallida faida familiare (tre esempi italiani: Chelli, L’eredità Ferramonti; Pratesi, L’eredità; De Roberto, I viceré; e un Dickens fra i più belli: Bleak House).
Nel momento stesso in cui la società borghese si dà un codice comportamentale che prevede – in astratto, ideologicamente – la possibilità di un graduale arricchimento grazie al merito individuale, l’immaginario si lancia a esplorare le scorciatoie che la morale dominante reputa sospette o illecite. Il mito del self-made man probo e titanico nasce già insidiato dal fascino ambiguo del gioco e della speculazione. Perciò il personaggio balzachiano più emblematico dei tempi nuovi è lo spregiudicato banchiere Nucingen, un ebreo alsaziano che moltiplica la sua fortuna con operazioni finanziarie sempre ai limiti della truffa (La Maison Nucingen). Con Balzac la Borsa si impone come centro simbolico del mondo moderno, e come tema chiave di tutta la letteratura ottocentesca (in proposito, si veda il libro di Christophe Reffait, La Bourse dans le roman du second xixe siècle, Champion, Paris 2007); tuttavia, nella Comédie humaine domina ancora la solidità dell’oro, la logica accumulativa (e anale) del risparmio.
Solo nel secondo Ottocento, con The Way We Live Now di Trollope e soprattutto con I Rougon-Macquart di Zola, la volatilità del denaro liquido e delle azioni cartacee si impone come sostanza di un mondo per cui non è anacronistico parlare di potere dell’immaginario, di astrazione fantasmagorica e perfino di de realizzazione (ne parla, fra storia letteraria e storia dell’arte, Jean-Joseph Goux, L’Art et l’argent. La rupture moderniste. 1860-1920, Blusson, Paris 2011).
Fin dal tessuto metaforico, un romanzo commerciale come Au Bonheur des Dames è interamente fondato sulla liquidità dei “flussi” (di merci e denaro); la presenza assente degli azionisti è il dio nascosto di Germinal (dove il potere lontano degli anonimi e inafferrabili proprietari della compagnia mineraria sta, beffardo, al riparo da scioperi e violenze); e in un romanzo interamente dedicato alla Borsa, come L’Argent, uno speculatore senza scrupoli vende azioni di imprese esotiche grandiose quanto immaginarie (già in Trollope il protagonista lucrava su un’inesistente ferrovia in Messico). Mondo di carta, la moderna finanza rivela imprevedibili e inquietanti parentele con la fiction letteraria (in proposito, P. Pellini, L’oro e la carta, Schena, Fasano 1996).
Con l’affermazione del modernismo, per la rappresentazione letteraria del denaro inizia invece una fase, si potrebbe dire, di latenza. Che in Proust, Joyce, Kafka o Virginia Woolf di soldi si parli poco, e quasi sempre in modo indiretto, è evidenza che rischia di apparire problematica per eccesso, anziché difetto, di motivazioni: per un verso, il codice realista-naturalista è usurato; per un altro, l’antropologia dell’homo oeconomicus è ormai dato acquisito: scontata al punto da non richiedere dimostrazioni narrative; per di più, gli orrori della Grande Guerra screditano definitivamente il mito imprenditoriale: se uno speculatore senza scrupoli poteva avere fascino romanzesco, un pescecane no.
E tuttavia l’implicita censura dei temi economici appare anche il riflesso di una sconfitta storica: di una letteratura non più capace di rappresentare con pretese di conoscenza e dominio una realtà socio-politico-economica così pervasiva da farsi seconda natura; così complessa da sottrarsi alla narrazione. Una realtà ormai dicibile solo per il tramite di ardue allegorie senza chiave.
Non mancano le eccezioni: per esempio, i drammi (più o meno) didattici di Brecht, come Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny, dove la storia della città maledetta, fondata sul mito del denaro, riadatta con toni cupi la vecchia parabola balzachiana di grandezza e decadenza; o il capolavoro di Svevo: Zeno è a suo modo uno speculatore, sia pure improvvisato, autoironico, e mosso da intenti terapeutici (forse illusori) prima che economici. Ma in generale il pieno Novecento è segnato da una reticenza le cui ambiguità traspaiono, ancora negli anni Sessanta, nel «sospetto quasi ossessivo» di Dino, «che vi fosse un nesso indubitabile benché oscuro tra la noia e il denaro» (Moravia, La noia). Se nell’Ottocento il denaro, oggetto primo del desiderio, sprigiona energia libidica (e narrativa), nel corso del secolo successivo sembra svuotarsi di ogni carica latamente ‘erotica’.
A metà Novecento di soldi e finanza si parla poco, e in modo poco memorabile, nei romanzi del realismo socialista o del neorealismo italiano; negli anni Ottanta è scarsamente significativo il Martin Amis turgido e moralista di Money, disperata satira – nelle intenzioni dell’autore – dell’edonismo che travolge una società priva di valori e asservita al mito della ricchezza (niente di nuovo, per chi abbia letto Balzac e Zola).
Invece è notevole il fatto che i soldi tornino a essere tema della grande letteratura negli ultimi decenni del Novecento: in grazia, forse, di un conclamato ‘ritorno alla realtà’ (e alla trama) nella narrativa di fine/inizio millennio; ma soprattutto per mediato e problematico rispecchiamento (diciamo pure: anche se va di moda ripeterlo, non è affatto vero che Lukács abbia sempre torto) di una nuova situazione storico-economica: in cui i flussi informatici che regolano la circolazione del capitale fra le Borse del mondo globalizzato hanno definitivamente smaterializzato il denaro – non più cartamoneta, e tantomeno equivalente aureo, ma segno astratto, prodotto di impulsi elettronici, di scambi finanziari virtuali, spesso privi di connessione con l’economia reale.
Così, da noi, nelle Mosche del capitale di Paolo Volponi (1989). Così già in Players, romanzo su Wall Street di Don DeLillo, del 1977. O, due anni prima, nel labirintico JR di William Gaddis, dove un ragazzino immaginifico e rapace applica con scolastica letteralità la massima che ingiunge di comprare a credito per rivendere in contanti, costruendo dal nulla un effimero impero finanziario: postrema parodia di Bildungsroman e american dream. Ma è in un altro, più recente romanzo di DeLillo, Cosmopolis (2003), che Kinski, l’esperta di teoria, spiegando la nascita di una nuova era, quella del capitale puro, dà la cifra di una ripresa tematica che solo in apparenza riporta ai fasti della Comédie humaine:
«Perché il denaro ha subito una svolta. La ricchezza è diventata fine a se stessa. Le enormi ricchezze sono tutte così. Il denaro ha perso la sua qualità narrativa, come è accaduto alla pittura tanto tempo fa. Il denaro parla a se stesso».
Constatazione storico-economica e riflessione metaletteraria procedono di pari passo: all’espansione tumorale di un sistema finanziario che si autoalimenta, fa da corrispettivo una letteratura autoreferenziale – quale è tendenzialmente, e non (solo) per ludico disimpegno, quella postmoderna. Divinità sempre più nascosta e indicibile, il denaro non può più essere motore di storie (tradizionali).
Almeno, non direttamente (semmai sono la letteratura di consumo e soprattutto il cinema di fine Novecento, come ha mostrato Daniela Brogi, a riproporre trame ‘ottocentesche’ e un’erotica della competizione economica). Ormai il denaro parla a se stesso, non al desiderio degli uomini. Nella sua onnipotenza, si fa immagine di morte. Produce la perdita di ogni identità individuale: portando a compimento un processo di divaricazione fra segno e valore già intuito da Georg Simmel, in quella Filosofia del denaro che emblematicamente apre il Novecento.
[Questo articolo è uscito sul numero 27 di «Alfabeta2» ]
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