Un bell’intervento di Pierluigi Pellini sulla crisi della cultura umanistica e la debolezza della sua autodifesa, costretta a muoversi all’interno del paradigma dell’utile o di un suo immaginario superamento. Tratto da Le parole e le cose.
Che i saperi umanistici non servano a niente non è tesi nuova: la sosteneva per esempio, in data 1883, un personaggio di Zola, il commerciante Octave Mouret, proprietario del grande magazzino che dà il titolo al tredicesimo dei Rougon-Macquart, Au Bonheur des dames.
La tirata di Mouret, rivolta nel romanzo a un amico d’infanzia, riscuote l’evidente plauso dell’autore (a suo tempo bocciato all’esame di maturità):
dovrai ammettere che i tuoi diplomi non ti hanno dato nulla di quello che cercavi… Lo sai che il mio caporeparto alle sete prenderà più di dodicimila franchi quest’anno? Proprio così! Un ragazzo di un’intelligenza lucida che si è accontentato di imparare a leggere, scrivere e far di conto… Da me i semplici commessi intascano dai tre ai quattromila franchi, più di quello che guadagni tu; oltretutto, la loro formazione è costata meno della tua e nessuno li ha lanciati nel mondo con la promessa di conquistarlo… Certo, il denaro non è tutto. Però, se devo scegliere tra i poveri diavoli infarciti di scienza che invadono le professioni liberali per fare la fame e i ragazzi pratici, armati per la vita, che conoscono a fondo il loro mestiere, no, non ho il minimo dubbio a schierarmi dalla parte di questi ragazzi, perché loro sì che l’hanno capita l’epoca in cui viviamo!
Parole che suonano sinistramente familiari a chi assiste oggi, non solo in Italia, a un tentativo di smantellamento dell’istruzione umanistica, in nome di un utilitarismo che nega valore a tutto ciò che non produce immediato profitto, considera la cultura un costo superfluo («oltretutto, la loro formazione è costata meno della tua»), e fa della competenza tecnica e della divisione del lavoro un feticcio intangibile.
Paradossalmente, proprio Zola, durante l’affaire Dreyfus (1898), avrebbe fatto le spese dell’ironia di Ferdinand Brunetière, precisamente ispirata agli stessi principi (di razionalizzazione specialistica, divisione del lavoro, predominio dei saperi pratici) difesi da Mouret.
La famosa battuta del critico conservatore, non meno stupida perché illuminante, coglie e condanna la dirompente originalità dell’“intellettuale”: la cui condizione d’esistenza è precisamente l’assenza di competenze specialistiche, di “titoli” tecnici per intervenire nel dibattito politico-giudiziario. Zola che s’immischia in una questione di «giustizia militare» è come «un colonnello dei gendarmi» che discettasse delle «origini del romanticismo».
Inevitabile constatare, oggi, che ha vinto Brunetière: all’intellettuale è ormai sottratto il capitale simbolico che gli consentiva di parlare della realtà in nome dell’eccellenza della propria produzione letteraria o dei propri studi umanistici. Di fronte alla conclamata perdita di credito sociale della letteratura e di tutte le discipline umanistiche, di tutte le attività artistiche, è comprensibile l’ansia di (ri)legittimazione che ha prodotto, sempre più spesso negli ultimi dieci anni, libri, dibattiti e convegni.
Difficile non è tanto individuare – sia pure in modo molto sommario – le cause della crisi della cultura umanistica: in primo luogo, nella longue durée, lo scollamento fra materie storico-letterarie e costruzione delle identità nazionali (il cui stretto legame ha avuto un peso determinante nell’istituzionalizzazione degli studi filologici nel corso dell’Ottocento): la diffusione di una cultura di massa, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, in specie audiovisivi, ha potuto in gran parte fare economia della mediazione della scuola e dell’università.
In secondo luogo, nel tempo più breve degli ultimi tre decenni, il trionfo totalitario di una logica di mercato, che rifiuta ogni filtro fra produzione e fruizione, che rinnega ogni criterio di valore che non sia quantificabile in profitti di vendita. E forse anche, in terzo luogo, se è vera la tesi di un libro ben documentato di Christopher Newfield [Unmaking the Public University. The Forty-Year Assault on the Middle Class, Harvard University press, 2008], un disegno neo-liberista e oligarchico di destrutturazione della classe media occidentale e del suo sistema di valori (uguaglianza delle possibilità di ascesa sociale, stato sociale solidaristico).
Molto più difficile sembra invece elaborare una proposta teorica coerente in grado di legittimare oggi l’esistenza e il finanziamento degli studi umanistici, senza accettare, come terreno di confronto, le stesse premesse dei loro detrattori; senza cioè accettare l’urgenza, peraltro in parte innegabile, di dimostrare – alla politica, al mercato – l’utilità pratica dei nostri studi. La sconfortante debolezza di molte delle argomentazioni prodotte rischia di risultare perfettamente inutile, se non controproducente.
Mi limito a tre esempi estremi e rivelatori, passando dalla più trita banalità, alla più contorta capziosità, all’ineffabile fideismo. Introducendo per il Mulino, pochi mesi fa, la tempestiva edizione italiana di Non per profitto, il fortunato pamphlet di Martha Nussbaum, Tullio De Mauro si sente in dovere di ricordare con molta enfasi che
«non controlla l’uso delle nostre lingue, dell’italiano e dell’inglese in particolare, chi non si è nutrito di latinità».
Per comodità, raggrupperò questo tipo di argomentazioni sotto l’etichetta del “buon senso tautologico”, o “ancillare”: un manager capace, o un bravo ingegnere, sono più completi, più intelligenti, e in fondo fanno meglio il loro lavoro se hanno un’infarinatura di lettere, classiche e non solo.
Secondo esempio: in un articolo che ha suscitato qualche dibattito negli Stati Uniti, un francesista, Howard Bloch, sostiene che la conoscenza delle tesi di René Girard sul desiderio mimetico nella Recherche di Proust consente di meglio comprendere e padroneggiare i meccanismi del mercato azionario, spesso guidati da analoghe triangolazioni del desiderio (e degli acquisti).
Propongo di chiamare “miraggio analogico”, o “metaforico”, questo schema di ragionamento spesso non privo di fascino, ma sempre fondato su un cattivo sillogismo, che si può esplicitare come segue: ammesso che i testi letterari rappresentino un mondo di raffinata e spesso insuperabile complessità; ammesso che la complessità (topos storiografico da quarant’anni dominante: forse sarebbe tempo di decostruirlo) è la cifra delle società contemporanee; ne consegue che l’ermeneutica testuale favorisce «la nostra capacità di elaborare e produrre senso secondo quei meccanismi complessi richiesti dalla complessità delle nostre forme di vita attuali»; e sviluppa addirittura «il tipo di intelligenza più adatta alle condizioni di produzione di ricchezza proprie della nostra epoca segnata dal capitalismo cognitivo».
Il che conduce direttamente al terzo esempio, che è variante caricaturale del secondo: la fiorente letteratura filosofica impegnata a discettare, appunto, di capitalismo cognitivo, prendendo ispirazione dalle teorie più recenti dell’ex operaista Toni Negri, che sostituendo alla fabbrica l’università come fulcro del nuovo sistema produttivo, intravede un’irenica via d’uscita dallo sfruttamento capitalistico: perché i nuovi proletari, detti “cognitari”, al contrario dei loro predecessori in tuta blu, sono proprietari dei mezzi di produzione (cioè del loro cervello). È vero che pare sempre più difficile, per filosofi e umanisti, sottrarsi alla tentazione di leggere nel peso crescente che oggettivamente hanno le conoscenze nel sistema produttivo tardo-moderno una storica e ormai quasi insperata occasione di riscatto per la funzione intellettuale. I racconti consolatori hanno sempre un loro stanco fascino; ma che si qui si tratti di pure illusione metafisica, bastano a dimostrarlo schiere di laureati (non solo in Lettere) sottopagati o disoccupati.
Da punti di vista diversi, o perfino diametralmente opposti, De Mauro, Bloch, gli apostoli di Toni Negri e, in un contesto filosoficamente assai più raffinato, Citton perseguono in realtà strategie convergenti: volte a preservare uno spazio alla letteratura e alla filosofia all’interno di una logica utilitaristica. Si inseriscono cioè – più o meno inconsapevolmente – in quel filone di studi umanistici “post-critici”, le cui basi teoriche sono state gettate, fra gli altri, da Bruno Latour, partendo dalla constatazione di un paradosso insostenibile, discusso da Yves Citton in un altro libro sulle sorti dei saperi umanistici (molto più importante di quello di Nussbaum e per ora non tradotto in italiano: il che aprirebbe un discorso sulle strategie di mercato degli editori italiani: anche di quelli, come il Mulino, capaci in genere di garantire un livello di qualità elevato), L’avenir des humanités. Économie de la connaissance ou cultures de l’interprétation (La Découverte, Paris 2010): e cioè dalla constatazione della
«schizofrenia di un’intera generazione di professori universitari nutriti di Bourdieu, Foucault e Deleuze che tentano […] di condurre una critica radicale della disciplinarità accademica a partire dalla posizione altamente istituzionalizzata e disciplinare di una cattedra accademica». Con il risultato «paradossale» di produrre «studi umanistici critici che acquistano in seno alle università una posizione maggioritaria che gli permette di promuovere un certo antiumanesimo».
Non c’è dubbio: nella genesi dell’attuale crisi hanno un’incidenza di qualche rilievo anche le vicende dello sviluppo interno di un campo di studi che, a partire dalla seconda metà del Novecento, ha imboccato le opposte vie dello specialismo esasperato (che sceglie oggetti di studio sempre più irrilevanti, trincerandosi nelle certezze di metodi para- o pseudo-scientifici), e della radicale demistificazione di ogni sapere disciplinare (che dissolve le ragioni tradizionali di legittimità degli studi umanistici: se la storia non insegna niente, la letteratura indulge ai cattivi sentimenti anziché indurre all’amor di patria, la filosofia decostruisce ogni simulacro di verità, perché mai la politica dovrebbe foraggiare gli studi umanistici?). Le conseguenze sono brillantemente riassunte da Citton:
«un deserto culturale», popolato di soggetti «abbastanza ingenui da credere di poter fare a meno di ogni credenza ingenua». Di qui, da questo feroce epitaffio sul pensiero critico del secondo Novecento, nasce dunque il progetto di un umanesimo “post-critico”, capace di «promuovere l’emergere di nuove credenze emancipatrici»:
miti utili, nuove narrazioni condivise – socialmente spendibili e coerenti con quella “svolta etica” che ha segnato molta filosofia degli ultimi decenni.
Significativo che questa stessa strategia, difesa da studiosi di provenienza marxista, militanti nell’estrema sinistra e fautori di quella che ho definito “illusione analogica”, sia ostentata fin dal sottotitolo (Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica) del libro già citato di Nussbaum, autentico manifesto del “buon senso ancillare”.
Le Humanities risponderebbero a un «bisogno» di un preciso modello di società. Del resto, anche nei saggi di Citton la presenza del lessico dell’utilitarismo è sintomaticamente pervasiva: «ruolo», «laboratori», «allenamento mentale», «terreno di esercizio», «gestire» le «crisi di senso», ecc. Di fronte a tagli finanziari, soppressione di dipartimenti universitari, perdita vertiginosa di prestigio sociale, sembra insomma essere ormai del tutto inefficace quella risposta che per secoli, dall’Umanesimo in poi, ha garantito legittimità agli studi filosofici e filologici: studiando l’uomo ci aiutano a vivere (per citare Spinoza) «una vita propriamente umana».
Il disincanto che ci domina consiglia di affidarsi piuttosto al pragmatismo esibito da Nussbaum nel suo accorato pamphlet. Identificando l’insegnamento umanistico con il “metodo socratico” (disamina critica sganciata da ogni autorità imposta dalla tradizione) e individuando nella capacità di empatia (assumere il punto di vista dell’altro, soffrire per il dolore dell’altro) la sostanza stessa dell’esperienza estetica, Non per profitto stabilisce una facile equazione fra democrazia liberale da un lato e studi filosofico-artistico-letterari dall’altro.
La filosofia fornisce le «tecniche del ragionamento critico»; la letteratura (o meglio «l’immaginazione narrativa», di fatto identificata con il romanzo) un florilegio di situazioni che sollecitano una risposta etica (come mi comporterei se fossi al posto di quel personaggio?), capaci di sviluppare, per dirla con Tagore, «la sensibilità ai problemi altrui». Gli studi umanistici sarebbero insomma indispensabili per la formazione di cittadini dotati di spirito critico, tolleranti e solidali. Dovrebbero perciò essere obbligatori, come spesso accade negli Stati Uniti, per gli studenti dei primi anni di tutte le facoltà. (E questa, sia detto per inciso, non è affatto un’americanata. Da noi una proposta simile non è mai stata presa in seria considerazione perché – si dice – il buon vecchio liceo fornisce a tutti quelle basi culturali che mancano alla popolazione dei college sull’altra sponda dell’Atlantico. Purtroppo, spesso non è affatto vero. Anziché difendere retoricamente facoltà di Lettere troppo spesso sovradimensionate, che condannano migliaia di studenti alla frustrazione e alla disoccupazione, forse sarebbe tempo di imitare, per una volta, un aspetto non macchiettisticamente economicista del sistema universitario statunitense).
In quest’ottica, tuttavia, per essere davvero utili gli studi umanistici presuppongono «una certa selettività riguardo alle opere d’arte da utilizzare»: una selettività che Nussbaum non esita a rivendicare, rifiutando ogni valore pedagogico alle «tante opere d’arte che stimolano simpatie inopportune». Se è giusto che i programmi d’insegnamento vengano «sempre più modulati con un occhio alla buona cittadinanza in un mondo di diversità», conviene censurare – la parola è mia, non il concetto: lo ha visto bene anche Claudio Giunta – opere letterarie e modelli storici incompatibili con i valori di una democrazia liberale e multiculturale (non diversamente, in fondo, da come l’ortodossia sovietica censurava i prodotti dell’arte considerata “decadente”): perché è possibile – lo suggerisce Nussbaum: sia pure in una nota e in via ipotetica – che il piacere provato da tanti bambini tedeschi di fronte all’«incenerimento» della strega di Hänsel e Gretel li abbia predisposti a accettare, se non a approvare con altrettanta gioia, i fumi di altri e più sinistri forni crematori. Dove il cortocircuito fra immaginario e realtà non è meno sconcertante dell’esempio in sé: che la lettura di un testo di fiction abbia – di norma e per statuto, non in contesti di ingenua arretratezza – effetti diretti sui comportamenti del lettore era fino a pochi anni fa bestemmia per la teoria letteraria; oggi può esser dato quasi per scontato da una filosofa alla moda.
È forse meno grottesco, ma di certo ancor più preoccupante, che nei programmi liceali, di recente approvati dal governo di destra in Francia, l’insegnamento della storia sia volto a ricostruire una genealogia delle società democratiche: con incremento dello spazio dedicato alla democrazia ateniese e quasi completa cancellazione della storia romana (il cui sbocco imperiale è evidentemente considerato illiberale e colonialista). È evidente come simili scelte siano ispirate a una selezione dei «saperi che servono»: utili pedagogicamente a consolidare le strutture della nostra società. La «capacità di pensare criticamente» invocata da Nussbaum non può spingersi, cioè, a mettere in discussione i fondamenti stessi della democrazia liberale, le sue gerarchie assiologiche di bene e male. Verosimilmente, né di Dante, né di Machiavelli, né di Céline, tanto per fare qualche nome a caso, avrebbero «bisogno», secondo Nussbaum, «le democrazie».
Di là dagli esempi concreti, la possibilità stessa di simili argomentazioni è testimonianza di uno slittamento da un paradigma incentrato sulla linguistica (dominante, grosso modo, nella seconda metà del Novecento) a uno fondato sulle scienze della formazione: anche oltre le esplicite ammissioni di Nussbaum, alla cultura umanistica è demandato il compito di sollecitare comportamenti socialmente positivi; non quello di indagare disinteressatamente il funzionamento, i significati, le ambiguità delle attività umane e dei loro prodotti.
La vera sfida sembrerebbe perciò quella di legittimare la cultura umanistica anche in quegli aspetti che con il nostro modello di società non hanno rapporto alcuno: saperi che non servono (né alle democrazie né al profitto); o che addirittura possono essere messi al servizio di cause che al discorso sociale dominante paiono aberranti, facendo il contropelo a ogni stereotipo politicamente corretto. Per un letterato, nella fattispecie, la sfida decisiva consiste nel (ri)legittimare la letteratura come scavo conoscitivo nell’indicibile della condizione umana: di qua da ogni pratica utilità. A costo di sembrare elegiaco o magari reazionario, mi pare urgente – anziché rincorrere le scienze tecnologico-applicative, o la pedagogia, o il mercato sul loro stesso terreno: in cambio di poca elemosina – rivendicare le autonome peculiarità del sapere umanistico. E il valore in sé della conoscenza: non solo di quella umanistica; e perfino di quella che ai fini disciplinari dell’ordinata convivenza “democratica” può risultare nociva.
Al contrario, se è vero che le opposte prospettive che ho definito “miraggio analogico” e “buon senso ancillare” si fondano entrambe su un cortocircuito fra testo (letterario, filosofico, storico) e concrete pratiche sociali, non stupisce che in anni recenti gli studi tematologici e culturali tendano a ridursi a mera constatazione di un’evidenza contenutistica, per di più zavorrata di buoni sentimenti; o a semplice testimonianza di condizioni marginali (vittime del colonialismo, minoranze sessuali, ecc.). Il passaggio non mediato da un’esperienza immaginaria come la lettura e l’interpretazione dei testi di fiction a una sua applicazione pratica disconosce sia la natura ambivalente della letteratura, sia le leggi del mercato. Perché è vero: il listino di Wall Street, a suo modo, non è meno complesso della Recherche (e viceversa); ma funziona purtroppo diversamente. Se la letteratura servisse solo a fornire modelli pratici di comportamento o schemi interpretativi analogici, utili alla vita pratica, non si potrebbe dar torto a un legislatore che, in tempo di crisi, privilegiasse la formazione di pedagogisti e economisti.
Forse conviene correre un rischio di anacronismo. E ricordare, con Pierre Bourdieu che l’intellettuale moderno (lo Zola dell’affaire Dreyfus, da cui il mio intervento è partito) prende la parola «appoggiandosi all’autorità specifica conquistata contro la politica dagli scrittori e dagli artisti puri»; e dunque «si costituisce come tale intervenendo nel campo politico in nome dell’autonomia e dei valori specifici» dell’arte e della letteratura; afferma «l’irriducibilità dei valori di verità e di giustizia e, nello stesso tempo, l’indipendenza dei custodi di quei valori rispetto alle norme della politica».
Visione umanistica, datata? o perfino idealista, etnocentrica e alto-borghese? Può darsi. Di certo, chi oggi teorizza e pratica una sistematica confusione fra esperienze dell’immaginario e pratiche sociali, e insomma fra politica e letteratura, fra pedagogia sociale e studi umanistici, mentre dichiara (e spesso sinceramente crede) di incarnare con rinnovato vigore la funzione dell’intellettuale novecentesco, ne officia in buona coscienza la definitiva liquidazione.
P. Bourdieu, Le regole dell’arte, Genesi e struttura del campo letterario, il Saggiatore, Milano 2005.
Si veda anche, Francesco Ursini, Studi umanistici, perché salvarli? in Treccani.it .
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